mercoledì 13 luglio 2022

Nietzsche, La nascita della tragedia. Capitolo VIII (pp. 56-63).


 

 Leopardi non apprezza il genere drammatico e non lo capisce.

Cicerone invece non legge i lirici.

Procediamo con questa “stravaganza geniale” come Ritschl , il maestro di Nietzsche definì La nascita della tragedia.

 

Il Greco vede nel Satiro la natura non ancora indebolita dalla civiltà e ne ha nostalgia; l’uomo moderno per questa stessa nostalgia si trastulla però con la carezzevole immagine di un pastore tenero, effeminato, che suona il flauto.

Il satiro per il Greco significa l’uomo primigenio nelle sue espressioni più alte e più forti; il satiro è il simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura.

Il pastore falso e agghindato (cfr. gli Idilli di Teocrito e le Bucoliche di Virgilio) avrebbe offeso l’uomo dionisiaco. Davanti al satiro barbuto l’uomo civile si raggrinziva in una bugiarda caricatura.

Dunque Schiller ha ragione: il Coro è un muro vivo contro l’assalto della realtà perché il Coro dei satiri riflette l’esistenza in modo più verace reale e completo rispetto all’uomo civile.

La poesia butta via da sé l’ornamento menzognero della presunta realtà dell’uomo civile. La tragedia con la sua consolazione metafisica indica la vita eterna, il greco dionisiaco vuole la natura e la verità nella loro forza massima. Il pubblico poteva identificarsi con i coreuti. Il pubblico vede i Satiri nel coro e il coro vede Dioniso nell’attore. La forma del teatro greco ricorda una valle di montagna. Il poeta è poeta solo in quanto si vede attorniato da figure che vivono e agiscono davanti a lui. Per il poeta la metafora non è una figura retorica ma un’immagine che sostituisce un concetto. Per lui un carattere è una figura insistentemente viva davanti ai suoi occhi. Omero descrive con maggiore evidenza perché intuisce di più. Il fenomeno estetico è semplice: sta nel vivere attorniati da schiere di spiriti: se possiamo parlare immedesimati in altre persone, siamo drammaturghi (p. 59)- Il rapsodo non si fonde con le sue immagini, ma, come il pittore, le vede fuori di sé; il drammaturgo si annulla per entrare in una natura estranea. Proprio per questo motivo Leopardi non amava il genere drammatico.

 

L’incomprensione della poesia da parte di un poeta pur grande e geniale.

Leopardi dunque svaluta il dramma.

Il Recanatese  sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella  epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua… Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a sé e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(Zibaldone, 4235-4236).

Ancora: “Essa[1] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica.

 Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (Zibaldone, 4357). 

 

Obietto che quanti scrivono e si limitano a esporre i propri sentimenti sono scrittori soggettivi e, dunque, tutt’altro che poeti. Con buona pace del sempre e comunque caro Giacomo Leopardi.

Ma l’incomprensione continua: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).

 

La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.

 

Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è il genere più impolitico, più estraneo alla polis e al bene comune.

Secondo la testimonianza di Seneca (Ep. 49.5), Cicerone diceva che non avrebbe avuto tempo di leggere i lirici neppure se gli avessero raddoppiato la vita.

Negat Cicero, si duplicetur sibi aetas, habiturum se  tempus quo legat lyricos[2] : eodem loco pono dialecticos: tristius inepti sunt , nella stessa posizione colloco i dialettici, sono incapaci in modo più deleterio.

 

 

 

Ma sentiamo ancora Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. gr. fiorì principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)”[3].


 

Torniano a Nietzsche “Il coro ditirambico è un coro di trasformati : dimenticano il loro passato civile e la posizione sociale. (p. 60)

In questo incantesimo chi é esaltato da Dioniso vede se stesso come satiro e come satiro guarda il dio e questa visione è il completamento apollineo del dramma.

Dunque il coro dionisiaco si scarica in un mondo apollineo di immagini (p. 61)

Le parti corali allora sono la matrice del dialogo. Il dramma è la rappresentazione apollinea di moti dionisiaci. E’ il coro che produce la visione e se è servile verso il dio, siccome è partecipe della sua sofferenza, è anche il saggio che annuncia la verità dal cuore del mondo. Il coro ditirambico deve eccitare dionisiacamente gli spettatori in modo che quando entra in scena l’attore grottescamente mascherato questi vedano il dio partorito dalla loro stessa estasi. Come Admeto che vede la donna velata, lo spettatore entra nell’inquietudine. Poi trasferisce nella figura mascherata l’immagine del dio che magicamente trema davanti alla sua anima. Così viene dissolta la realtà dell’attore.

Tornando al film di Fassbinder, la Schygulla si era trasformata ed era davvero Maria Braun.

Questo è lo stato apollineo del sogno. Le apparenze apollinèe in cui si vede Dioniso non sono più un mare eterno, un mutevole agitarsi, una vita ardente come la musica del coro, ora parla la chiarezza e la saldezza della raffigurazione epica, ora Dioniso parla come eroe epico, quasi con il linguaggio di Omero.

Pesaro 13 luglio 2022 ore 10, 57

giovanni ghiselli

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[1] La poesia drammatica.

[2] forse nell’Hortensius

[3] Zibaldone, p. 4389.

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