lunedì 11 luglio 2022

Filosofi lungo l’Oglio. "DIRE IO"

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Il mio intervento del 24 giugno 2022
Filosofi lungo l’Oglio
 
Dire io oppure Fare io?
 
Il problema dell’identità nei classici
 
Dire “io” non basta. L’affermazione della propria identità deve essere confermata dai risultati effettivi dell’azione.
 
L’identità fasulla più antica è quella del miles gloriosus che si trova già nel Paride dell’Iliade
 
Il terzo canto propone il contrasto tra apparenza e sostanza.
In testa all'esercito troiano si fa vedere Paride con l'aspetto di un dio (qeoeidhv" , v. 16), con pelle di pantera sopra le spalle, arco ricurvo e spada, e, per giunta, squassando due lance a punta di bronzo.
 Il bellimbusto sfidava tutti i campioni degli Achei. Ma quando Menelao, contento della preda, saltò a terra dal carro per affrontarlo, il seduttore di Elena sbigottì in cuore e si ritirò presso i compagni.
Allora Ettore lo assalì con parole infamanti: gli diede del donnaiolo (gunaimanev") e seduttore (hjperopeutav v. 39), poi lo accusò di smentire l' aspetto splendido (ei\do" a[riste) con un cuore senza forza né valore (45), in quanto era uomo capace di portare via le donne agli uomini bellicosi ma non di affrontarli.
Paride è visto dal fratello come un “miles gloriosus”.
Allora il bellissimo seduttore gli risponde di non biasimarlo e non rinfacciargli i doni amabili dell'aurea Afrodite (“mhv moi dw'r j ejrata; provfere crusevh" jAfrodivth"", 64): nemmeno per te sono spregevoli i magnifici doni degli dèi (qew'n ejrikudeva dw'ra, v. 65) che del resto nessuno può scegliersi.
Trovo che non solo Ettore ma pure Paride avesse le sue ragioni
Quindi si presta ad affrontare in duello il rivale Menelao.
Se la caverà solo in quanto salvato da Afrodite.
 
Tutt’altro guerriero però è quello preferito da Archiloco:
"non amo lo stratego grande né dall'incedere tronfio
né compiaciuto dei riccioli, né ben rasato;
ma per me sia pur piccolo, e storto di gambe
a vedersi, però che proceda con sicurezza sui piedi, e sia pieno di cuore kardivh~ plevo~ [1]" frammento 60D.
 
Il contrario del miles gloriosus è Odisseo
 
Ulisse non era bello: "Non formosus erat, sed erat facundus[2] Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas "[3].
 

L’identità di Odisseo è data dalla inesauribile volontà di conoscere, la curiosità inesausta.

Una curiosità che diventerà esemplare per altri personaggi della letteratura: Lucio di Apuleio per esempio: la sua innata curiosità lo apparenta a Ulisse. Ingenita mihi curiositate recreabar (Metamorfosi, 9, 13).
La curiositas è re - creatio, ridà vita.
La volontà di apprendere, di esaminare fa dire a Socrate nell' Apologia (38a) di Platone: "oJ de; ajnexevtasto" bivo" ouj biwto;" ajnqrwvpw/", la vita senza indagine non è degna di essere vissuta per l'uomo.
 
Le Sirene per attirare Odisseo gli dicono che chi si ferma da loro riparte pieno di gioia e conoscendo più cose ("kai; pleivona eijdwv"", Odissea, XII, 188).
 
Altri aspetti identificatòri carattere di Ulissesono quelli di essere : poluvmhti", poluvtropo", poluvtla~.
Sentiamo cosa dice Odisseo a Calipso nel congedarsi molto civilmente da lei
" E se di nuovo qualcuno dei numi mi fa naufragare nel mare colore del vino
Sopporterò - tlhvsomai - siccome ho nel petto un cuore paziente:
infatti già molti mali davvero ho patito e molti ho sofferto
tra le onde e la guerra: tra loro ci sia anche questo". (Odissea, V, 221 - 224)
 
Nelle vicende di Ulisse, più o meno, "ubique naufragium est "[4], il naufragio è dappertutto, ma egli non affonda mai.
Le sofferenze - pavqhmata - devono diventare maqhvmata.
 
ejni; oi[nopi povntw/: qui significa un colore scuro e minaccioso.
 
Nesso sostantivo - epiteto frequente nell'Odissea e ripreso varie volte con varie interpretazioni nell'Ulisse di Joyce che ha in comune con l’Odisseo di Omero la pazienza.
 - tlhvsomai: futuro da una radice tla/ - /tlh - .
 
La capacità di sopportare spaventose sventure, anche cercandosele pur di realizzare il proprio destino, fa di Odisseo il prototipo dell'eroe dell'identità.
“Ulisse è l'eroe polùmetis (scaltro) come è polùtropos (versatile) e poluméchanos nel senso che non manca mai di espedienti, di pòroi , per trarsi d'impaccio in ogni genere di difficoltà, aporìa ...La varietà, il cambiamento della metis, sottolineano la sua parentela con il mondo multiplo, diviso, ondeggiante dove essa è immersa per esercitare la sua azione. E' questa complicità con il reale che assicura la sua efficacia"[5].
 
Achille nell’Iliade è un altro tipo di eroe eppure ha in comune l’imperativo categorico di non cedere pur di non perdere o diminuire la propria identità che nel suo caso è quella del guerriero che combatte in prima fila, sempre.
 Il Pelide , cedere nescius [6], non si lascia bloccare dalla profezia di sventura del cavallo fatato Xanto, e gli risponde:"ouj lhvxw"[7], non cederò.
L’elegia guerresca di Tirteo riprende questo modello“teqnavmenai ga;r kalo;n ejni; promavcoisi pesovnta - a[ndr j ajgaqo;n peri; h|/ patrivdi marnavmenonjalla; ti~ eu\ diaba;~ menevtw posi;n ajmfotevroisi - sthricqei;~ ejpi; gh'~, cei'lo~ ojdou'si dakwvn” (fr. 10 W., vv. 1 - 2 e 31 - 32), in effetti è bello che un uomo valoroso sia morto cadendo tra i combattenti della prima fila mentre lotta in armi per la patria…avanti, ognuno rimanga saldo divaricando bene le gambe con entrambi i piedi fissato a terra, mordendo il labbro con i denti.
Questo guerriero che piantato in prima fila resiste senza tregua è xuno;n ejsqlovn tou'to povlhiv te pantiv te dhvmw/ (fr. 12 West., v. 15), un bene comune alla città e al popolo intero, in quanto combatte per la patria nella struttura compatta della falange oplitica.
 
Ma torniamo all’identità fasulla del fanfarone.
Nell’Oreste di Euripide viene ridicolizzato Menelao, lo spartano marito della spartana Elena odioso per avere provocato infiniti dolori ai figli di Agamennone: ( "ajll j i[tw xanqoi'" ejp j w[mwn bostruvcoi" gaurouvmeno"" Oreste, v. 1532).
"venga avanti, pavoneggiandosi per i riccioli biondi sugli omeri", lo introduce il nipote, protagonista eponimo di questa tragedia .
 
I riccioli sono una caratteristica dei milites gloriosi.
Il soldato fanfarone di Plauto è presentato dalla merĕtrix Acroteleutium con queste parole: “Populi odium quidni noverim, magnidicum, cincinnatum moechum unguentatum? (Miles gloriosus, v. 923), come potrei non conoscere questo individuo odioso a tutti, fanfarone, dai capelli arricciati, donnaiolo profumato?
 
Il parassita Artotrògo lusinga Pirgopolinice dicendogli che le donne lo trovano bello pulcher e dotato di una chioma che gli dona assai: “vide caesaries quam decet” (Miles gloriosus, 63 - 64). Questo ha sentito dire di lui
 
Un personaggio dall’identità scadente ma definita nelle commedie di Plauto è il parasitus: in questa commedia il parassita di Pirgopolinice (puvrgo" “torre”, povli" città, nikavw vinco, secondo le sue stesse vanterie) è Artotrōgus (a[rto" pagnotta e trwvgw, rodo) che asseconda le fanfaronate del soldato dicendo - in un a parte) che lo fa perché alla sua tavola epityrum estur insane bene (24) si mangia un pasticcio di olive buono da impazzire
 Poco dopo il parassita elenca le centinaia di nemici uccisi da Pirgopolinice e il miles gli fa: “Edepol memoria es optuma” (49)
Allora Artotrògo dice tra sé: offae monent , me la stimolano le polpette.
Anche quanto ciascuno ricorda è un segno del suo carattere, dell’orientamento del trovpo~, di dove si volge.
 
Il cognato di Napoleone Murat è un altro miles gloriosus
Tolstoj in Guerra e pace individua il militare bello e vano, un vero e proprio stratego archilocheo francese e napoleonico, in Gioacchino Murat :" un uomo d'alta statura dal cappello adorno di piume, i capelli inanellati che gli piovevano sulle spalle. Indossava un mantello scarlatto, e le lunghe gambe erano protese in avanti (...) in effetti costui era Murat, che ora aveva assunto la qualifica di re di Napoli (...) cosicché aveva un'aria più trionfante e imponente di quanto l'avesse prima (...) Alla vista del generale russo, con gesto regale e solenne, respinse indietro il capo con quei capelli a riccioli fluenti sulle spalle (...) La faccia di Murat raggiava di stolida soddisfazione" (pp. 925 - 926). Quei capelli dunque coprivano una testa vuota, dunque nob ben fatta.
 
L’identità nei classici 2: Mimnermo e Solone.
Passiamo a Mimnermo (VII - VI secolo) che fonda l’identità sul letto, il mobile più importante della casa e di chi vi abita, al punto che Properzio gli darà la palma della poesia amorosa:
"plus in amore valet Mimnermi versus Homero:/carmina mansuetus lenia quaerit Amor "(I, 9, 11 - 12), in amore vale più un verso di Mimnermo, di Omero;/ Amore è mite e vuole versi teneri.
Leggiamo alcuni distici elegiaci di questo poeta di Smirne o Colofone. Comunque una colonia della costa asiatica, una città di cultura ionica. Ionico è infatti il dialetto delle elegie di Mimnermo.
 
Il fr. 1 D. considera la vita umana indegna di essere protratta quando "giovanezza, ahi giovanezza è spenta", e i giorni non hanno più l'unica giustificazione che li rendeva desiderabili: quella erotica o amorosa che dire si voglia.
 
"Quale vita (bivo~), quale piacere (terpnovn), senza l'aurea Afrodite?
Vorrei essere morto, una volta che non mi importi più di questi beni,
l'amore furtivo e i dolci doni e il letto (eujnhv[8]):
che sono i soli fiori fugaci di giovinezza
per gli uomini e per le donne; poi quando sia giunta penosa
la vecchiaia che rende l'uomo turpe (aijscrovn) e insieme malvagio (kakovn),
sempre cattivi affanni lo consumano nell'animo,
e non prova piacere neppure alla vista dei raggi del sole,
ma è odioso (ejcqrov~) ai ragazzi, spregevole (ajtivmasto~) per le donne;
così tremenda rese la vecchiaia un dio".
 
La vita umana è paragonabile a quella delle foglie: è breve e neppure interamente vivibile con qualche soddisfazione.
Leggiamo anche i distici del frammento 2 D: " Noi, Come le foglie[9] (hjmei'~ dj oi|av te fuvlla) che genera la fiorita stagione
di primavera, quando crescono in fretta ai raggi del sole simili a quelle, per un tempo brevissimo, godiamo dei fiori
di giovinezza, senza conoscere dagli dèi né il male
né il bene. Destini neri ci stanno accanto
uno che ha il termine della vecchiaia tremenda,
l'altro di morte: un attimo dura il frutto
di giovinezza, per quanto sulla terra si diffonde un raggio di sole.
Ma quando questo termine di tempo sia trapassato,
subito essere morto è meglio della vita:
infatti molti mali sopraggiungono nell'animo: talora la casa va in rovina e ci sono le vicende dolorose della povertà:
 a un altro poi mancano figli, di cui soprattutto
sentendo il desiderio va sotto terra nell'Ade;
un altro ha una malattia che gli consuma il cuore: non c'è nessuno
degli uomini, cui Zeus non dia molti mali". Distici elegiaci
 
 Questo motivo della brevità della vita umana paragonata a quella delle foglie è già presente, in termini non dissimili, nell'Iliade (VI, vv. 145 - 149) dove Glauco chiede a Diomede:
"Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
quale è la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini.
(oi{h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n, v. 146)
Le foglie alcune ne sparge il vento a terra, altre la selva
fiorente genera quando arriva il tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini: una nasce, un'altra finisce".
Un'eco di questo topos possiamo trovarla in Salvatore Quasimodo:
"Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera" (da Acque e terre , 1930).
 
Concludo con il fr. 6D. dove Mimnermo si augura che il destino di morte lo colga sessantenne - ejxhkontaevth moi`ra kivcoi qanavtou - senza malattie né angosciosi affanni.
 
Questo augurio ci fa passare a Solone il legislatore ateniese che replica a Mimnermo, insorgendo "contro la raffinata stanchezza pessimistica che vuol già fare punto a sessant'anni"[10] con questi versi
"Ma se ora finalmente vuoi darmi retta, togli questo verso,
 e non essere invidioso, per il fatto che ho pensato meglio di te,
e cambialo, arguto cantore, e canta così:
ottantenne mi colga il destino di morte". - ojjgdwkontaevth moi`ra kivcoi qanavtou -
Né incompianta mi giunga la morte, ma ai cari
 io lasci morendo dolori e gemiti.
 Invecchio imparando sempre molte cose - ghravskw d j aijei; polla; didaskovmeno~" (fr.22 D.).
 
Ancora sull’identità
Mimnermo sostiene che l’unico bene della vita umana è il piacere che ci dà il letto governato dall’aurea Afrodite. Ma questo terpnovn, il più grande bene che si trova nel mare dell’essere, anzi l’unico, è fruibile per un tempo ancora più ristretto della già cortissima esistenza a noi concessa.
Spenta la luce della giovinezza, rimangono due possibilità entrambe lugubri: quella della vecchia orbata di ogni piacere, spregiata da tutti, e quella della morte.
Dunque l’unica identità bella è quella data dal fare l’amore.
In conclusione questo poeta prega di morire a 60 anni.
 
Solone, il saggio legislatore ateniese, arconte nel 594 per fissare una data, lo corregge affermando “invecchio imparando sempre molte cose” e consiglia Mimnermo di augurarsi la morte a 80 anni, non prima.
 
La morale che ne traggo è che il giro vorticoso delle stagioni e quello poco meno veloce degli anni, possono cambiare la nostra identità per farci sopravvivere magari fino a 100 anni e oltre: da giovani la fondiamo - come no? - sull’amore delle donne; da vecchi sull’amore dell’imparare sempre molte cose, attività che ci rende se non del tutto non amabili, certamente non proprio spregevoli.
Ora è un vecchio che scrive sapendone qualche cosa. Ho sempre cercato di imparare da tutto. E pure di insegnare quanto imparavo dalla vita, dalle persone e dai libri
 
Nell’ anno 594 Solone fu nominato arconte (a[rcwn) con gli incarichi di pacificatore e legislatore (diallakthv" kai; nomoqevth"): i possidenti lo accettarono in quanto benestante, i poveri, siccome galantuomo (Plutarco, Vita di Solone, 14)
 Solone invitò gli uni e gli altri a non essere smodati.
 
L’identità di questo poeta e politico si fonda dunque sull’imparare molte cose in funzione della sua attività in favore della polis.
 
La sua elegia dal contenuto in gran parte politico è quella così detta del Buon Governo (fr. 3 D). La traduco tutta :
"La nostra città non andrà mai in rovina per destino
di Zeus e volontà dei beati dèi immortali:
 infatti tale custode magnanima, figlia di padre potente
Pallade Atena le tiene sopra le mani.
 Ma i cittadini stessi con la loro follia vogliono distruggere la grande città sedotti dalle ricchezze,
 e ingiusta è la mente dei capi del popolo, cui è destinato
soffrire molti dolori in seguito alla gran prepotenza:
infatti non sanno trattenere l'avidità né godere
con ordine le gioie presenti nella serenità del convito.10
Ma si arricchiscono fidando in opere ingiuste
 e non risparmiando le proprietà sacre nè in alcun modo le ricchezze/
pubbliche; rubano per arraffare chi da una parte chi dall'altra
né osservano i venerandi fondamenti di Giustizia,
che, pur mentre tace, conosce il passato e il presente15,
e con il tempo in ogni caso giunge a fare pagare
 - tw`/ de; crovnw/ pavntw~ h\lq j ajpoteisomevnh - .
Questa piaga ineludibile oramai arriva su tutta la città,
ed essa subito cade nella squallida servitù,
che risveglia la lotta dentro la stirpe e la guerra dormiente,
la quale distrugge l'amabile giovinezza di molti:20
 infatti per opera dei malevoli tosto la città molto amata
si rovina nei partiti cari agli ingiusti.
Questi mali nel popolo si aggirano: e dei poveri
 molti giungono in terra straniera
venduti e legati con ceppi indegni 25.
Così il danno comune entra in casa a ciascuno:
né valgono più le porte del cortile a trattenerlo,
 e salta oltre il recinto pur alto, e trova in ogni caso,
anche se uno sia rifugiato nel fondo del talamo.
Questi precetti l'animo mi spinge ad insegnare agli Ateniesi: 30
che il Malgoverno procura moltissimi mali alla città, kaka; plei'sta povlei Dusnomivh parevcei
mentre il Buongoverno mostra ogni cosa ordinata e armonizzata
Eujnomivh d j eu[kosma kai; a[rtia pavnt j ajpofaivnei
e spesso mette i ceppi addosso agli ingiusti:
leviga le asperità, fa cessare l'insolenza, oscura la prepotenza - u{brin ajmauroi` ,
dissecca i fiori nascenti dell'acciecamento, 35
raddrizza i giudizi tortuosi, mitiga le azioni
 superbe, e fa cessare le opere della discordia,
e fa cessare la rabbia della contesa terribile, e sono sotto di lui
tutte le cose tra gli uomini armonizzate e assennate".
 
Come si vede Solone è con Esiodo ed Eschilo un profeta della Giustizia.
Non mancano in questa elegia come nell’affresco Allegorie ed effetti del buono e del cattivo governo (1338 - 1339), di Ambrogio Lorenzetti (Palazzo Pubblico di Siena) diversi umori contrastanti come in ogni immagine piena di vita.
 
“Nel segno di entrambi, del diritto e della giustizia di Roma e della clemenza della propria ‘avvocata’, il governo della città conferisce ad Ambrogio Lorenzetti l’incarico per la decorazione di una sala del nuovo Palazzo Comunale con le scene opposte del buono e del cattivo governo, “bellissima inventiva”, dirà san Bernardino predicando cento anni dopo nel Campo, in cui si esalta la pace come la condizione per rendere forte e ricca la città. Ciò che si ‘finge’ di non cogliere è che la Pace qui siede a parte, la sua voce è un a solo. Ella siede come in un luogo soltanto suo all’interno dello spazio comune. Tutto vi tende, ma nulla davvero la raggiunge e la tocca. Simbolo ante litteram dell’aporia intrinseca all’idea umanistica di Pace” (Massimo cacciari, La mente inquieta, commento alla tavola 16 dove è riprodotta La Pace)
 
Vediamo un'ultima elegia (fr. 5 D) con la quale Solone difende la sua politica "di centro", ossia aliena da estremismi che favorissero o deprimessero troppo una delle due parti in lotta:
"al popolo infatti ho dato tanto onore quanto basta,
senza levargli dignità e senza accrescerla troppo;
quelli che avevano potenza e si facevano ammirare per la ricchezza,
anche per questi deliberai che non avessero nulla di sconveniente;
ma stetti, avendo coperto gli uni e gli altri con un forte scudo,/ajmfibalw;n kratero;n savko~
e non permisi che prevalessero né gli uni né gli altri contro giustizia./
Così il popolo nella maniera migliore può seguire i capi,
né troppo libero né troppo costretto:
infatti la sazietà genera prepotenza - tivktei ga;r kovro~ u{brin, o[tan polu;~ o[lbo~ e{phtai” quando grande prosperità si accompagna
a quanti uomini non hanno la mente sana.
Nelle opere grandi è difficile piacere a tutti
 [ Ergmasin ejn megavloi~ pa'sin aJdei'n calepovn (v. 11).
 
Anche la Pace di Solone, come quella del Buon governo di Lorenzetti era malsicura.
 
Dopo la pubblicazione delle leggi infatti Solone partì, "per non essere costretto ad abrogarne nessuna e per curiosità teoretica" (Erodoto I, 30).
Il legislatore andò in Egitto presso il faraone Amasi, e a Sardi, da Creso. Nel frattempo gli Ateniesi si divisero di nuovo in fazioni: Megacle Alcmeonide capeggiava i Parali (quelli della costa), Licurgo i Pediei della pianura, e Pisistrato i montanari, quasi tutti teti, i più ostili ai ricchi. Quando Solone tornò ad Atene non poté impedire che Pisistrato il quale "aveva qualcosa di seducente e amabile nel conversare" (Plutarco, Vita di Solone , 29), con l'astuzia e con la forza si impadronisse del potere facendosi tiranno (nel 560 la prima volta, fino al 555, poi, dopo un esilio decennale, dal 545 fino alla morte avvenuta nel 527 a.C.).
 
Per quanto riguarda le leggi di Solone, Plutarco racconta che Anacarsi, ospite del legislatore, ne canzonava l’efficacia: esse avrebbe dovuto frenare l’iniquità dei cittadini con parole scritte le quali, diceva l’amico scita , non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde;n tw`n ajracnivwn diafevrein, ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi (ujpo; de; tw`n dunatw`n kai; plousivwn diarraghsesqai), Vita di Solone, 5, 4.
Anacarsi dunque rileva la scarsa efficienza delle leggi di fronte alla foza
 
L’identità messa alla prova dal rischio 3
Kalo;~ oj kivnduno~, bello è il rischio
 
Pindaro
L’io dei vincitori pindarici è eroico e acquista, poi conferma la sua identità vincendo le gare. L’archetipo di questi eroi è Pelope che non si ritira davanti al rischio, anzi lo considera un test da affrontare per mettere alla prova la propria identità.
Pindaro è un cantore della vita strenua, al punto che considera indegna di essere vissuta l'esistenza ingloriosa e insignificante dei deboli e vili ignari di aretá.
Leggiamo alcuni versi dell’Olimpica I che celebra la vittoria di Ierone tiranno di Siracusa nella gara del cavallo montato durante la settantaseiesima Olimpiade del 476.
Pelope, prima della gara con il terribile Enomao, che sconfiggeva poi uccideva i pretendenti della figlia Ippodamia, prega Poseidone.
“Andato vicino al mare canuto, solo nella tenebra,
invocava il dio del tridente
dal grave rimbombo; quello gli
apparve vicino al piede.
Allora gli disse:" Se i cari doni di Cipride
rimangono in qualche modo nella tua gratitudine,
avanti, Poseidone, inceppa la lancia di bronzo di Enomao (pevdason e[gco~ Oijnomavou cavlkeon),
e fammi giungere in Elide sul carro
più veloce, e avvicinami alla vittoria.
poiché dopo avere ucciso tredici
 pretendenti, procrastina le nozze
della figliola. Il grande pericolo
non prende un uomo imbelle (oJ mevga~ de; kivnduno~ a[nalkin ouj fw'ta lambavnei).
Per chi è necessario morire, perché dovrebbe
smaltire invano una vecchiaia anonima seduto nell'ombra
senza parte di tutte le cose belle? ( ajpavntwn kalw'n a[mmoro~) Ma questa gara giacerà sotto di me: tu dammi propizio l'evento".
Così diceva; né lo toccò con parole
senza effetto. E il dio onorandolo
gli diede un cocchio d'oro e cavalli
infaticabili per le ali (71 - 88).
Il frontone orientale del maestro di Olimpia raffigura negli agonisti l’attesa del via alla gara che Pelope vincerà.
 
Nella IV Pitica - dedicata ad Arcesilao IV, re di Cirene vincitore con il carro a Delfi nella trentunesima Pitiade del 462 - il poeta tebano racconta la conquista del vello d'oro da parte degli eroi Argonauti nei quali la dea Era attizzava la voglia di non essere lasciati presso la madre a smaltire una vita senza rischio “ ta;n ajkivndunon para; matriv mevnein aijw`na pevssont j” (vv. 186 - 187).
Il rischio di morire nella gara dei carri viene raccontato nell’Elettra di Sofocle dal pedagogo che inganna Clitennestra descrivendole l’inventata, immaginaria morte di Oreste dovuta all’estremo rischio affrontato Delfikw`n a[qlwn cavrin (682) per vincere le gare delfiche.
 
Platone scrive: “kalo;ς ga;r oJ kivndunoς” (Fedone, 114d), bello è infatti il rischio. È il rischio di credere nei miti relativi alla sorte delle anime, dato che è chiaro che l’anima è immortale.
I miti sull’aldilà - dice Socrate in questo dialogo - non si addicono a un uomo che abbia senno (ouj prevpei nou`n e[conti ajndriv) ma, siccome è chiaro che l’anima è immortale, mi si addice pensare che le cose relative all’anima vadano così o in maniera simile, con il giudizio dei morti e tutto il resto.
Fedone racconta a Echecrate le ultime ore di Socrate.
 
La necessità di osare
Nell’Ifigenia in Tauride di Euripide (414 o 413 a. C.), che quest’anno viene rappresentata dall’INDA nel teatro greco di Siracusa, Oreste propone a Pilade di tornare sulla nave e scappare da quel paese barbaro - l’attuale Crimea dove si praticavano i sacrifici umani - , ma l’amico gli risponde –tou;~ povnou~ ga;r ajgaqoi; - tolmw`si, deiloi; d j eisi;n oude;n oujdamou` (vv. 114 - 115), di fatto quelli bravi osano affrontare le difficoltà, mentre i vili sono delle nullità e non prendono parte.
Oreste gli dà ragione: tolmhtevon (121), dobbiamo osare. Affrontare il rischio.
E’ quanto dice anche la Medea di Euripide in un monologo nel quale prima vacilla, poi però conferma la sentenza di morte nei confronti dei figli ( tolmhtevon tavd ' , Medea, v. 1051, bisogna osare questo!) per non essere derisa lasciando impuniti i nemici.
 
 
 
Condanne dell’empietà e dell’avidità. Eschilo, Sofocle, Naphta personaggio del romanzo La montagna incantata di T. Mann, sant’Ambrogio e Papa Francesco
 
Passiamo ai tre grandi della tragedia greca e della letteratura mondiale,
Eschilo fonda l’io identitario dell’Atene democratica e il proprio personale sulla devozione alla giustizia.
Vediamo quale giustizia
Con Esiodo e Solone, Eschilo è un profeta di Divkh.
Ne riferisco alcune espressioni per non restare nel generico.
Nel primo stasimo dell’Agamennone (del 458) il coro canta:
"Infatti non c'è riparo per l’uomo che, volto a sazietà di ricchezza, ha preso a calci il grande altare di Giustizia - ajndri; - laktivsanti mevgan Divka~ - bwmovn - , con il proposito di annientarlo" (Agamennone, 381 - 384).
Nel secondo stasimo delle Eumenidi, che concludono la trilogia Orestea, le Erinni si avviano alla soluzione del conflitto con Atena e Apollo, prescrivendo regole accettabili da qualsiasi religione rispettosa della vita: “La dismisura demenziale (u{bri~)[11] è figlia di empietà secondo il vero” (Eumenidi, v. 534).
Quindi, proseguono le Erinni, sulla via di diventare Eumenidi: "Rispetta l'altare di Giustizia, e non disprezzarlo calciandolo con piede ateo in vista del guadagno: infatti poi sopravverrà il castigo:" bwmo;n ai[desai Divka~ - mhde; nin kevrdo~ ijdw;n aijqew/ podiv - lavx ajtivsh/~ - poina; ga;r ejpevstai (539 - 541).
 
Il lucro - kevrdo~ - è spesso antonimo di eujsevbeia, pietas.
L’identità tratta dal denaro è pessima -
Troviamo questa contrapposizione in diversi autori: nell’Antigone di Sofocle, c’è uno scontro tra il potere tirannico di Creonte e quello sacerdotale: i due si accusano a vicenda di tendere al lucro.
 Creonte lancia l’ accusa per primo: “ to; mantiko;n ga;r pa'n filavrguron gevno~ (v. 1055), infatti tutta la razza dei profeti è avida di denaro, e Tiresia gliela ritorce contro: “to; dev ge turavnnwn aijscrokevrdeian filei' (v. 1056), e quella nata dai tiranni ama i turpi lucri.
Anche il tiranno Penteo delle Baccanti di Euripide accusa Tiresia di voler trarre profitti dalla religione: "qevlei"... misqouv" fevrein" (vv. 255 - 257).
 
Faccio un salto nel Novecento: Naphta l’homo Dei del romanzo La montagna incantata, comunista dall’aria sacerdotale, si contrappone all’homo humanus Settembrini dicendogli: “ Voi italiani avete inventato le operazioni di cambio e le banche; che Iddio vi perdoni. Gli inglesi, d’altronde hanno inventato la dottrina economica della società. E di questo il genio tutelare degli esseri umani non li perdonerà mai” ( T. Mann, La montagna incantata, sesto capitolo, sezione Ancora qualcuno, p. 557))
 
In questo romanzo grande e grandioso l’italiano Settembrini rappresenta l’umanesimo, l’illuminismo, il liberalismo, la scienza moderna, l’Italia del Rinascimento e del Risorgimento, l’economia liberale.
Il suo avversario Naphta che veniva da un villaggetto della frontiera tra Galizia e Volinia rappresenta il Medioevo, il Romanticismo, il Comunismo, gli Ebrei dell’Est, la Spagna cattolica, la Russia rivoluzionaria, l’Inquisizione, la dittatura del proletariato.
 
Sentiamo altre parole significative dell’identità di questi due personaggi. Settembrini dice a Naphta: “Eh, no, io sono un europeo, un occidentale. La sua gerarchia è puro Oriente. L’est aborre l’azione. Lao - Tse insegnava che il non - fare è più profittevole di qualsiasi altra cosa tra il cielo e la terra. Quando tutti gli esseri umani avranno smesso di agire, regneranno sulla Terra quiete e felicità perfette. Eccola, la sua unione” (Op. cit. p. 555).
Poco più avanti Settembrini parla a Naphta della guerra: “perfino la guerra, signor mio, ha già dovuto servire il progresso, come lei mi concederà ripensando a certi avvenimenti della sua epoca preferita, intendo riferirmi alle Crociate! Queste guerre civilizzatrici hanno felicemente propiziato le relazioni economiche e i rapporti commerciali tra i popoli unendo l’umanità occidentale nel segno di un’idea (p. 565)
Concludo citando simpaticamente Naphta mezzo gesuita mezzo comunista, un po’ come papa Bergoglio: “ E’ forse sfuggito al suo manchesterismo (liberalismo più o meno n.d. r.) il fatto che esiste una dottrina sociale che preannuncia l’umano superamento dell’economicismo, e i cui princìpi, le cui mete coincidono perfettamente con quelli del cristiano regno di Dio? I Padri della Chiesa hanno definito perniciosi i termini “mio” e “tuo”, e hanno chiamato usurpazione e furto la proprietà privata. I padri della Chiesa ripudiavano il possesso di beni perché secondo il diritto naturale divino la Terra appartiene a tutti gli esseri umani e dunque reca i suoi frutti per il comune uso di tutti. Insegnavano che solo l’avidità, conseguenza del peccato originale, ha creato la proprietà particolare e difende il diritto esclusivo di proprietà. Erano talmente umani, i padri della Chiesa, e talmente ostili al commercio da concepire l’attività economica in generale come un pericolo per la salvezza dell’anima: il che significa per l’essenza dell’umanità. Odiavano il denaro e gli affari, e definirono la ricchezza capitalistica combustibile del fuoco infernale” (Sesto capitolo, sezione Del regno di Dio, pp592 - 593).
 
Confermo Naphta con il Santo Ambrogio:
Sant’Ambrogio[12] nel De Nabuthae già ricordato da Papa Francesco[13], scrive: “Non de tuo largiris pauperi sed de suo reddis” (53), non concedi del tuo al povero, ma gli rendi del suo.
La storia di Nabot si trova nella Bibbia (I re, I, 21) Il re Achab voleva comprare una vigna di Nabot ed egli rispose: “Il signore mi guardi dal cederti l’eredità dei miei padri”.
Allora Gezabele, la moglie di Achab, istigò il marito e fece accusare Nabot da due iniqui i quali lo calunniarono davanti al popolo dicendo che aveva maledetto Dio e il re. Così Nabot venne lapidato.
Dunque: “Nabuthae historia tempore vetus est, usu cottidiana”.
Mi restano da dire alcune parole sulla identità politica di Eschilo.
La prossima volta.
 
 
 
L’identità politica di Eschilo
 
Eschilo contrappone la democrazia degli Ateniesi all’autocrazia dei Persiani.
Nella tragedia Persiani (del 472) Serse porta in guerra uomini privi di libertà e non deve rendere conto dei propri atti, nemmeno degli insuccessi.
La madre di Serse, e vedova di Dario, Atossa racconta ai coreuti una sua visione notturna (vv. 176 ss.)
Sognava dunque e le erano apparse due donne: una indossava pepli dorici, l'altra era vestita di abiti persiani, entrambe grandi, belle e sorelle di stirpe. Simboleggino la Grecia e la Persia.
Tra le due scoppiò una lite, allora il re Serse cercava di ammansirle e le aggiogava al carro con le cinghie sotto il collo. Una delle due si esaltò per questa bardatura e porgeva la bocca docile alle briglie, mentre l’altra recalcitrava (ejsfavda/ze, v. 194), poi con le mani spezzò le redini del carro, lo trascinò a forza e ruppe il giogo a metà. Allora, continua la regina, cade il figlio mio, gli si accosta Dario e lo compiange; e Serse, come lo vede, si lacera le vesti addosso al corpo (pevplou~ rJhvgnusin ajmfi; swvmati, v. 199).
 
Quindi la madre di Serse si alzò, si accostò a un altare e vide un’aquila - aijetovn 205 aggredita e spiumata da un falco sull’ara di Febo dove si era rifugiata.
Simbolo del re persiano. Cfr. Senofonte, Ciropedia, VII, 1, 4.
Del resto l’aquila , “l’uccel di dio” è anche simbolo dell’impero romano (cfr. Dante Paradiso, VI, 1 - 4)
 
Atossa è spaventata dal sogno e dal segno dato dagli uccelli ma si consola per il fatto che il grande re pur se sconfitto, non è tenuto a rendere conto alla città " oujc uJpeuvquno" povlei" (v. 213). Basta che si salvi e rimarrà a capo di questa terra, conclude il proprio racconto la regina madre " swqei;~ d j ojmoivw~ th`sde koiranei` cqonov~ - v. 215
 
Eschilo contrappone chiaramente al potere assoluto del grande re di Persia il sistema democratico di Atene quando Atossa domanda ai vecchi dignitari chi sia il pastore e il padrone dell'esercito greco. Allora il corifeo risponde:"ou[tino" dou'loi kevklhntai fwto;" oujd j uJphvkooi" (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.
 
Essere cittadino, polivthς, dunque, significa renderne conto alla povliς.
Ma quale tipo di democrazia auspica Eschilo e raccomanda agli Ateniesi?
Quale deve essere l’identità politica della democrazia tra le varie possibili?
Nelle Eumenidi rappresentata nel periodo (458) in cui i poteri dell’Areopago, roccaforte degli interessi della classe più abbiente, venivano limitati dopo la caduta di Cimone (461) e l’ascesa di Pericle con Efialte.
 Tanto le Erinni quanto Atena dunque consigliano ai cittadini di tenere una via di mezzo tra il dispotismo e l’anarchia: non dovranno dunque eliminare la paura del potere che deve tenere nel rispetto la canaglia.
E’ una via di mezzo sul genere di quella di Solone.
Nel Secondo Stasimo (vv. 490 - 565) le Erinni sostengono che il terrore delle pene, umane e divine, talora è salutare:"a volte il terrore (to; deinovn) è un buon ispettore anche delle anime e deve restarci a fare la guardia: giova giungere alla saggezza sotto l’angoscia "(vv. 517 - 519).
Poco dopo le dèe venerande aggiungono:" mht j a[narkton bivon - mhvte despotouvmenon - aijnevsh/" : panti; mesw/ to; kravto" qeo;" - w[pasen "(526 - 530), non lodare una vita di anarchia né una soggetta al dispotismo: in ogni caso il dio dà potenza al giusto mezzo.
It looks to me as if the famous saying about the superiority of to; mevson - which Aeschylus put so oddly into the mouth of the Erinyes (530) - might in fact be taken (…) as an honest and corrept description of the author’s own position[14], mi sembra che il famoso detto sulla superiorità del “mezzo” che Eschilo mette così stranamente in bocca alle Erinni, potrebbe essere di fatto venire preso (…) come una onesta e corretta descrizione della posizione personale dell’autore.
E’ una posizione politica di cui si era già fatto assertore Solone, come abbiamo detto.
Più avanti, nel terzo episodio, la stessa Atena consiglia ai cittadini, che hanno cura della città, di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo ("to; mhvt j a[narcon mhvte despotouvmenon", v. 696) e di non scacciare del tutto la paura dalla città: infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura? ("kai; mh; to; deino;n pa'n povlew" balei'n - tiv" ga;r dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n; " vv. 698 - 699).
Machiavelli scriverà che il principe “debbe farsi temere in modo che, se non acquista amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insieme essere temuto e non odiato” (Il Principe, XVII).
Le Eumenidi si concluderanno con la vittoria del patriarcato e delle sue divinità - Apollo e Atena - che faranno assolvere il matricida. Il dio lo ha difeso con l’argomento che il vero generatore è solo il padre, e la dea ha dato il suo voto decisivo in favore dei maschi, dopo la parità di voti assolutori e di condanna espressa dai giudici aeropagiti.
Le Erinni che chiedevano la condanna di Oreste sostenendo la massima parte della figura materna nella generazione, sconfitte, in un primo tempo si infuriano più che mai, ma poi ricevono un contentino, da meteci, divinità coabitanti, onorate con culti sotterranei e si placano, divenendo appunto Eumenidi.
L’irrazionale va bonificato, non eliminato, commenterà Pasolini.
“Dopo l’intervento razionale di Atena, le Erinni - forze scatenate, arcaiche, istintive, della natura - sopravvivono: e sono dee, sono immortali. Non si possono eliminare, non si possono uccidere. Si devono trasformare, lasciando intatta la loro sostanziale irrazionalità: mutarle cioè da “Maledizioni” in “Benedizioni”. I marxisti italiani non si sono posti, ripeto, questo problema” (P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p. 54.).
 
 
 
Procederò con le identità dei personaggi sofoclèi
 
I protagonisti delle tragedie di Sofocle sacrificano anche la vita pur di trovare e poi conservare l’ identità, ciascuno la propria.
Partiamo da Edipo.
Bernard Knox afferma che il poeta di Colono "dimentica l'adattamento eschileo dello spirito eroico alle condizioni della polis, e fa ritorno ad Achille che, irriconciliabile, siede corrucciato nella sua tenda. Nei suoi eroi che affermano la forza della loro natura individuale contro i loro simili, la loro polis, e perfino i loro dei, egli ricrea (...) la solitudine, il terrore e la bellezza del mondo arcaico"[15].
Sofocle è da un lato poeta arcaicizzante e omerida siccome ripropone uomini disposti ad affrontare l'estrema rovina pur di non cedere alla pressione della norma e di salvare la propria identità minacciata; dall'altro offre spunti e suggerimenti agli autori dei secoli successivi.
Come Edipo trova la sua dimensione positiva nella passività di Colono, dopo avere fatto soffrire e avere sofferto assai nella fase dell'attività sconsiderata, così Giovanni Drogo in Il deserto dei Tartari di Buzzati scopre"l'ultima sua porzione di stelle "(p.250) e sorride nella stanza di una locanda ignota, completamente solo, mangiato dal male, accettando la più eroica delle morti, dopo avere sperato invano, per decenni, di battersi"sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera". Invece il suo destino si compie al lume di una candela, dove"non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo".
Del resto gli eroi della passività nella letteratura moderna sono tanti, da Oblomov di Gončarov, a Zeno di Svevo, a Totò Merumeni di gozzano, per dire solo i più noti, e il prototipo può essere considerato l'ultimo Edipo del quale Nietzsche scrive:
" nell’Edipo a Colono incontriamo un soffio di superiore serenità: contrapposta al vecchio che è oppresso da un eccesso di miseria ed è abbandonato soltanto come sofferente a tutto ciò che lo colpisce , sta la serenità ultraterrena che si irradia dalla sfera divina e ci accenna come l’eroe possa raggiungere con il suo comportamento puramente passivo, la sua più alta attività, che si estende molto al di là della sua vita, mentre tutti i suoi sforzi consapevoli nella vita precedente l’avevano condotto solo alla passività” (La nascita della tragedia, capitolo 9).
La soluzione positiva dunque si trova nell'ultimo dramma, quando il cieco comprenderà di avere agito senza l'uso completo della coscienza (cfr. Edipo a Colono, vv.266 - 267:" ejpei; tav g j e[rga mou - peponqovt j ejsti; ma'llon h] dedrakovta", le mie azioni piuttosto che compierle io le soffersi").
Allora la figlia Ismene gli dice:
 “gli dei che ti avevano abbattuto, ora ri rimettono in piedi” ( nu`n ga;r qeoiv s j ojrqou`si, provsqe d j w[llusan.394)
 
Il lunatic king Shakespeare dirà parole simili a quelle di Edipo: “I am a man/more sinned against than sinning” (King Lear, III, 2), io sono un uomo contro il quale si è peccato , più che un peccatore.
Nella precedente tragedia Edipo re, il figlio di Laio non si è lasciato fermare da nessuno durante la ricerca frenetica della propria nascita e della propria identità.
Non poteva diventare passivo prima di avere scoperto la propria storia e con la sua vera identità.
Questa ricerca dell’identità si trova già in questo verso di Pindaro “diventa quello che sei (gevnoio oi|o~ ejssiv", Pitica II v. 72), in tale amor fati possono ritrovarsi molti uomini che non si adattano a seguire i gusti imposti al gregge.
 
Bernard Knox segnala un’analogia tra il carattere di Edipo e quello degli Ateniesi come vengono presentati da Tucidide: “Il magnifico vigore di Edipo e la sua fede nell’azione sono spiccate caratteristiche ateniesi (…) Pericle tributa un caldo elogio a quel genere di attività rapida e risoluta che è tipica di Edipo[16]
Quindi Knox cita le parole conclusive dell’ultimo discorso politico di Pericle pronunciato nell’estate del 430, la seconda della guerra del Peloponneso. Dice dunque il grande oratore al suo popolo tormentato dalla peste e dalla seconda devastazione dell’attica guidata dal re spartano Archidamo: “Non mandate ambasciatori ai Lacedemoni, e non mostratevi prostrati dalle sciagure presenti, poiché quelli che durante le congiunture avverse pro;~ ta;~ sumforav~ - si affliggono al minimo nello spirito - gnwvmh/ me;n h[kista lupou`ntai - mentre nell’azione tengono duro al massimo - e[rgw/ de; mavlista ajntevcousin - questi sono i più forti, sia tra le città che tra i privati cittadini - ou|toi kai; povlewn kai; ijdiwtw`n kravtistoiv eijsin (II, 64, 6).
 
Nell'esodo dell’Edipo re (vv.1221 - 1530) il secondo messo racconta il suicidio di Giocasta e l'acciecamento di Edipo eJauto;n timwrouvmeno".
Quindi appare il re sconciato che attribuisce ad Apollo la causa delle sue sofferenze, ma rivendica a sé il coraggio di essersele inflitte con le proprie mani. Nessun altro mortale avrebbe avuto la forza di sopportare mali tanto grandi. Poi chiede a Creonte che lo faccia tornare sulla sua culla anomala, il Citerone, e inoltre lo prega perché si prenda cura delle figlie, Antigone e Ismene, per le quali soltanto si accora, trascurando i maschi, Eteocle e Polinice, e manifestando ancora un legame di simpatia esclusiva con il mondo femminile, di avversione con quello maschile. Creonte gli fa toccare per l'ultima volta le bambine, poi gliele toglie e lo congeda.
 
Leggiamo alcuni versi attribuiti a Edipo
“Apollo, era Apollo, o amici
colui che portò a compimento queste cattive cattive mie queste mie sofferenze
Però di sua mano nessuno colpì gli occhi
tranne me infelice.
Perché infatti bisognava che vedessi io
al quale, mentre avevo la vista, nulla era piacevole vedere?" (Edipo re, 1329 - 1335)
E più avanti:
“E io, dopo avere rivelato tale macchia mia
potevo guardare questi con occhi diritti?
No di certo; anzi, se ci fosse per giunta una chiusura
della fonte dell'udito tra le orecchie, non mi sarei trattenuto
dallo sbarrare il mio misero corpo
per essere cieco e non udire nulla” (1384 - 1389)
Edipo ha fatto quanto credeva e sentiva di dovere a se stesso e non rinnega niente. Ha fatto quanto doveva fare per sapere chi era. Quando l’ha saputo, ha punito se stesso e può purificarsi, addirittura andare a santificarsi a Colono. Dalla sua tomba emaneranno influssi benefici per gli Ateniesi
Come il padre suo è Antigone. La mite sorella Ismene cerca di dissuaderla della ribellione nei confronti di Creonte cui Antigone intende disobbedire dando al fratello Polinice la sepoltura vietata da un decreto del tiranno. Ismene le dice che loro due sono donne e non possono lottare contro degli uomini - pro;~ andra~ (62); allora Antigone risponde che sarà contenta di giacere con il fratello morto - o{sia panourghvsas j (74) - dopo avere compiuto una trasgressione santa. Ismene quindi obietta: “hai il cuore caldo per dei cadaveri gelati” (88) e Antigone ribatte “ajll j oi\d j ajrevskous j oi|" mavlisq j aJdei'n me crhv"(v. 89), ma so di piacere a quelli cui prima di tutti è necessario che vada a genio. Sofocle insegna il coraggio e la fierezza della propria originalità.
 Sono parole di provocazione e di ostinazione eroica che possiamo trovare anche nell’ultimo discorso attribuito da Tucidide a Pericle il quale ribadisce davanti al suo popolo la propria natura nobile, di cittadino amante della povli" e superiore al denaro:"filovpoliv" te kai; crhmavtwn kreivsswn"(II 60, 5), un' identità che non cambia né si lascia intimorire:"kai; ejgw; me;n oJ aujtov" eijmi kai; oujk ejxivstamai: uJmei'" de; metabavllete"(II, 61, 2) io sono lo stesso e non muto; voi invece cambiate.
Un simile rapporto tra le sorelle Elettra e Crisotemi si trova nella tragedia di Sofocle Elettra.
La colpa di Edipo, secondo Sofocle, è stata quella della presunzione di poter capire tutto e risolvere ogni difficoltà con la propria intelligenza
Uno dei centri ideologici dell’Edipo re è costituito dai versi 396 - 398:"arrivato io ejgw; molwvn,/ Edipo, che non sapevo nulla, la feci cessare e[pausav nin/ azzecandoci con l'intelligenza e senza avere imparato nulla dagli uccelli gnwvmh/ kurhvsa" oujd j ajp j oijwnw'n maqwvn - ".
Questa affermazione, per Sofocle, poeta tradizionalista e pio, è u{bri", dismisura, prepotenza, cecità intellettuale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale è perciò destinato a precipitare nella necessità scoscesa (v.877) del castigo e della espiazione. Nella caduta il tiranno si azzoppa e non può più avvalersi di valido piede - ouj podi; crhsivmw/ - crh`tai (878 - 879).
 
La zoppia del tiranno
Edipo è zoppo e la zoppia è più di una volta attribuita alla tirannide.
Nel Faust di Goethe Mefistofele è zoppo (v. 2184).
Il Riccardo criminale di Shakespeare è pure deforme e zoppo: entra in scena presentandosi con queste parole: “deform’d, unfinish’ d (…) and so lamely and unfashionable that dogs bark at me, as I halt by them (Riccardo III, I, , 20 e 22 - 23), deforme e incompleto (…) e tanto claudicante e sgraziato che i cani mi abbaiano contro, quando arranco vicino a loro.
Periandro sanguinaro tiranno di Corinto era figlio di una Bacchiade zoppa: Labda (Erodoto, V, 92). Labdaco è il padre di Laio, il nonno di Edipo.
E questi nomi evocano la lettera lambda l che ha una gamba più corta dell’altra.
 
Personaggi laici che trascurano gli oracoli e i segni dati dal volo degli uccelli: non ne traggono auspici: Ettore, Edipo, Giocasta
La bestemmia contro il numinoso che, nel poeta di Colono, come in Erodoto, aleggia sulla terra assumendo varie forme, viene ribadita più avanti da Edipo, in complicità scellerata con la regina Giocasta, al grido empio della quale:" O vaticini degli dei, dove siete? - w\ qew'n manteuvmata, - i{n j ejstev" 946 - 947) , il re fa eco con questa tirata blasfema:" Ahi, perché dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli uccelli/ che schiamazzano in alto? (...) Gli oracoli che c'erano, li ha presi/ Polibo che giace presso Ade, ed essi non valgono nulla"(vv.964 - 966 e 971 - 972).
Una tirata laica che già si trova nell’Iliade detta da Ettore che verrà contraddetto dai fatti
Questa presunzione di Edipo viene anticipata da Ettore quando dice:"uno solo è l'auspicio ottimo: combattere difendendo la patria" ( ei|~ oijwno;~ a[risto~ ajmuvnesqai peri; pavtrh~, Iliade , XII, 243).
Con queste parole Ettore risponde, guardandolo bieco (uJpovdra ijdwvn, v. 230), a Polidamante il consigliere che gli ha indicato un segno: un’aquila che aveva afferrato un serpente, ma poi, morsa da quella preda, l’aveva lasciato cadere strillando. Ebbene, Ettore risponde: tu mi consigli di dare retta agli uccelli dalle ali spiegate, ma di loro io non mi curo in alcun modo, né mi do pensiero (tw'n ou[ ti metaprevpom j oujd j ajlegivzw, 238).
Cfr. viceversa: “volatus avium dirigit deus” (Ammiano Marcellino, XXI, 1, 9)
Quindi Shakespeare: “There is a special providence even in the fall of a sparrow” (Amleto, v, 2)
 
Edipo e Giocasta dunque sono rappresentanti di quel pensiero laico - sofistico cui Sofocle si oppone con tutta la sua produzione poetica, e più che mai con questo dramma, dove il coro, portavoce dell'autore, durante il secondo stasimo, domanda:"Se infatti tali azioni sono onorate eij ga;r aij toiaivde prevxei" tivmiai,/ perché devo eseguire la danza sacra? tiv dei' me coreuvein; "(vv.895 - 896). Se gli oracoli vanno in malora e Apollo è dimenticato, tutti gli dei tramontano, vanno in malora ( e[rrei de; ta; qei'a v.910); allora la stessa rappresentazione tragica, che fa parte della liturgia religiosa, perde ogni significato e diviene assurda.
 
Il re di Tebe non ha compreso quale misera cosa sia la sua intelligenza cui rivendica in esclusiva la vittoria sulla Sfinge (vv.397 - 398). Pecca di u{bri" come Aiace che nella sua tragedia (Aiace vv.768 - 769) aveva espresso l'arrogante certezza di conquistare la gloria senza l'aiuto degli dei.
 Racconta il messo che Aiace partendo aveva detto al padre: “con l’aiuto degli dèi può vincere anche chi non vale niente; io conquisterò la gloria kai; divca keivnwn ( Aiace, 768 - 769)
 
Con tali affermazioni questi personaggi manifestano tutta la loro colpevolezza, e la critica che attribuisce a Sofocle il compianto per il dolore degli innocenti presi di mira da dèi crudeli, non comprende Sofocle e non se ne intende.
Edipo a Colono capisce il suo errore: da cieco ha imparato ad ascoltare le parole degli uomini e, ascoltando ha pure veduto, anche senza occhi: “ fwnh'/ ga;r oJrw ” (v. 139), alla voce infatti vedo.
Re Lear di Shakespeare suggerisce di vedere dalla voce, quando dice al cieco Gloster:"A man may see how this world goes, with no eyes. Look with thine ears" (King Lear, IV, 6), un uomo può vedere come va il mondo anche senza occhi. Guarda con gli orecchi.
 
Aiace viene punito da Atene con la pazzia che lo rende ridicolo e gli fa perdere la sua identità di eroe. Allora diventa anche lui punitore di se stesso e si uccide dopo avere detto a Tecmessa: “ ajll j h] kalw'" zh'n h] kalw'" teqnhkevnai - - to;n eujgenh' crhv" ma il nobile deve o vivere con stile, o con stile morire ( Aiace, vv.479 - 480)
 
Similmente Antigone dice a Ismene: ma lascia che io e la pazzia che spira da me/soffriamo questa prova tremenda: io non soffrirò/nulla di così grave da non morire nobilmente"peivsomai ga;r ouj - tosou`ton oujden w{ste mh; ouj kalw`~ qanei`n ( Antigone, vv. 95 - 97).
 
L’identità eroica non può vivere fuori dalla bellezza e dalla nobiltà.
Lo dice anche Polissena quando affronta la morte nell’Ecuba di Euripide:
La principessa troiana antepone una morte dignitosa a una vita senza onore:"to; ga;r zh'n mh; kalw'~ mevga~ povno~, ( v. 378), vivere senza bellezza è un grande tormento".
La giustificazione estetica della vita umana, il culto della bellezza, è un'altra delle ragioni per cui i Greci sono nostri padri spirituali.
 
Il personaggio Edipo è denso di significati come le parole di Sofocle
 Nella sua vita tribolata attraversa varie identità: il bambino reietto, il principe corinzio dubitoso della propria identità, l'assassino, il salvatore, il re adorato, il contagiatore, il farmakov", infine, a Colono, il santo benefattore: perciò la sua umanità è vastissima e ciascuno di noi può identificarsi con lui. Ecco perché questo dramma è una delle grandi opere prodotte dall'umanità.
 
 
 
L’identità nella solitudine e nella moltitudine.
 
La solitudine come male
Il protagonista eponimo della tragedia Filottete (409) di Sofocle è un uomo che, abbandonato dai compagni d’arme nell’isola deserta di Lemno soffre la solitudine.
 
L’uomo abbandonato si lamenta, e vedendo sopraggiungere dei Greci chiede compassione per sé: “ a[ndra duvsthnon, movnon, - e[rhmon w|de ka[filon" ( vv. 227 - 228), uomo infelice, solo, abbandonato, così e senza amici.
Questo lamento ritorna più volte nelle descrizioni pietose che Filottete fa di sé:"mh; livph/" m j ou[tw movnon, - ejrh'mon" (vv. 470 - 471), non lasciarmi così solo, abbandonato, dice a Odisseo; e, poco più avanti, lo prega:"ajlla; mhv m j ajfh'/" - ejrh'mon ou{tw cwri;" ajnqrwvpwn stivbou" (vv. 486 - 487), non lasciarmi nella desolazione così escluso da ogni traccia di uomini.
Per l'uomo greco che viveva nella povli" la solitudine è una condizione innaturale: "benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato "[17].
Più Stato e fato che famiglia, direi
La solitudine di Filottete dunque è tipicamemte penosa , come ha notato bene Kierkegaard[18].
 
La Medea di Euripide vede la parte più notevole e dolorosa della sua miseria nella solitudine. Se ne lamenta parlando con le donne corinzie del Coro:" Però non proprio lo stesso discorso va bene per te e per me;/tu hai questa tua città e la casa paterna/ e un vantaggio nella vita e compagnia di amici,/io, poiché sono isolata[19] e senza città[20], devo subire oltraggi/dall'uomo, dopo essere stata rapita da una terra barbara/senza avere la madre, né un fratello, né un congiunto/ per trovare un ancoraggio fuori da questa sventura" (Euripide, Medea, vv. 252 - 258).
 
Sentiamo anche l’Antigone di Sofocle:
 "Guardate me, o cittadini della terra patria,/mentre percorro l'ultima/via e miro/ l'ultima luce del sole ,/ e non ce ne sarà mai un'altra, ma Ade/ che tutto addormenta mi spinge viva/alla sponda/di Acheronte, esclusa/dalle nozze, né alcun canto/nuziale mai mi festeggiò,/ma ad Acheronte andrò sposa - ajll j
j Acerovnti numfeuvsw - " (Antigone, vv. 806 - 816) . -
Per i personaggi della tragedia del V secolo, scritte in tempo di democrazia, la solitudine dunque è un male
 
 L'abitudine e il desiderio di stare soli del resto sono già condannati da Omero come disumani nella figura mostruosa del Ciclope[21] poi da Menandro[22] nel Duvskolo" Cnemone[23], uomo disumano assai (Knevmwn, ajpavnqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra", v. 6).
 
La solitudine come bene
Più avanti però, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in turba , folla che disturba, diventerà non solo dignitoso ma necessario rimanere soli.
Seneca, tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia , omicidi veri e propri, scrive:" avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui "(Ep. 7, 3), torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini. Il consiglio allora è:"recede in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
 
Sentiamo Nietzsche: “C’è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e soltanto sofferto per la moltitudine”[24].
Quindi: “ Ogni uomo eletto mira istintivamente a trovarsi una sua propria rocca, una sua intimità, dove potersi ritrovare libero dalla massa, dai molti, dai più, dove gli sia consentito dimenticare la regola”uomo”, costituendone egli l’eccezione (…) ogni compagnia è cattiva, ad eccezione di quella con i propri simili”[25].
“Là dove la solitudine finisce, comincia il mercato; e dove il mercato comincia, là comincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ronzio di mosche velenose”[26].
 
 Sentiamo anche l’esteta decadente Des Esseintes: “Non meno d’un monaco, sentiva un’immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più nulla in comune col prossimo; composto ai suoi occhi di profittatori e di imbecilli”[27].
 
C. Pavese scrive :"Maturità è l'isolamento che basta a se stesso" (Il mestiere di vivere, 8 dicembre 1938).
Infatti: “Si cessa di essere giovani quando si distingue tra sé e gli altri, quando cioè non si ha più bisogno della loro compagnia”[28].
“Ci sono servi e padroni, non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli" (15 ottobre, 1940)
 Infine:"Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate le compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio di essere solo. E' l'unico vero bene quotidiano" (25 aprile 1946).
E' pur vero che questo nostro autore si uccise il 18 agosto del 1950.
 
La solitudine è una condizione necessaria, strutturale per l'artista del Novecento il quale ha bisogno di un punto di vista esterno da cui "rappresentare l'umano senza prendervi parte", come Tonio Kröger [29] di Thomas Mann:" E' necessario essere qualcosa di extraumano, d'inumano, è necessario trovarsi, rispetto all'umano, in una situazione stranamente lontana e neutrale, per essere in grado e anzi solo per sentirsi tentati di farne oggetto di rappresentazione, di giuoco, per raffigurarlo con gusto e con efficacia"[30].
 
 
 
Euripide con Alcesti e Medea
 
Alcesti e l’abnegazione non del tutto gratuita.
Nella tragedia Alcesti (438) di Euripide la protagonista eponima è la donna eroica che offre la propria vita per salvare quella del marito Admeto: la sposa è disposta a morire al posto del coniuge.
 
 Il coro dell'Alcesti elogia l'eroina morente con queste parole:" i[stw nun eujklehv" ge katqanoumevnh - gunhv t j ajrivsth tw'n uJf j hjlivw/ makrw'/"( Alcesti, vv. 150 - 151), sappia dunque che morrà gloriosa/di gran lunga la migliore delle donne sotto il sole.
 Una gloria che la stessa moribonda rivendica, biasimando i genitori di Admeto ("oJ fuvsa" chJ tekou'sa",v. 290), poiché hanno lasciato perdere l'occasione di salvare nobilmente il figlio e morire con gloria ("kalw'" de; sw'sai pai'da keujklew'" qanei'n", v. 292).
La scala dei valori è quella eroica della tradizione aristocratica.
 
Platone nel Simposio pone Alcesti tra i primi eroi, quando fa dire a Diotima che Alcesti, Achille e Codro hanno dato la vita , non tanto per gli amati e la patria, quanto convinti che immortale sarebbe stata la memoria della loro virtù ("ajqavnaton mnhvmhn ajreth'" pevri eJautw'n e[sesqai", 208d). Tutti fanno ogni cosa per la virtù immortale e tale rinomanza gloriosa ("uJpe;r ajreth'" ajqanavtou kai; toiauvth" dovxh" eujkleou'"").
 
Alcesti nella tragedia di Euripide dunque ha esposto i propri meriti e i demeriti dei genitori di Admeto, poi però presenta il conto, non del tutto nobilmente a dire il vero[31]
Sentiamola
"E sia! Ma ora tu tieni in mente la riconoscenza di questo (tw`nde cavrin).
Ti chiederò infatti un contraccambio mai pari, 300
infatti non c'è niente più prezioso della vita,
yuch`~ ga;r oujdevn ejsti timiwvteron) ,
ma delle cose giuste, come tu stesso dirai: infatti ami
questi bambini non meno di me, se davvero hai senno.
Questi lasciali signori della mia casa
e non sposare in seconde nozze una matrigna (mhtruiavn) per i figli,
la quale, essendo una donna più cattiva di me, per invidia
alzerà le mani sulle creture tue e mie” (Alcesti, 299 - 307).
 
Admeto è un personaggio egoista, meschino e stupido, come sono spesso gli uomini di Euripide (Giasone, Menelao e Agamennone, p. e.).
Quando torna a casa dopo il funerale, il re tessalo soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice:"lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw"(v.940), condurrò una vita penosa: ora comprendo. Grazie a questa resipiscenza, potrà recuperare la moglie che gli verrà restituita dalla possa di Eracle.
 
Medea
Passiamo a Medea che fa parte della categoria delle donne abbandonate con Arianna e Didone, per esempio.
Didone però si uccide maledicendo lo spietato Enea; Arianna si limita a un pianto sulla riva del mare finché Dioniso andrà a prenderla e consolarla.
Leggiamo alcune parole del lamento di Arianna tratte
dall'opus maximum di Catullo, il carme 64, di 408 esametri.
La figlia di Minosse, piantata in asso da Teseo mentre dormiva nell'isola di Dia, al risveglio si dispera, corre come una puledra e impreca contro l’amante che ha rotto il patto - foedus - della fides:
"Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris,/ perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?/Sicine discedens neglecto numine divum/inmemor a! devota domum periuria portas? " (64, vv. 132 - 135) è così che tu, traditore, condottami via dal focolare paterno, mi hai abbandonata in una spiaggia deserta, Teseo, traditore? E' così che tu, fuggendo dopo avere disprezzato il potere dei numi, dimentico ah! porti a casa i tuoi maledetti spergiuri?
Più avanti Arianna invoca le Eumenidi perché puniscano il traditore: “sed quali solam Theseus me mente reliquit - tali mente deae funestet seque suosque” (200 - 201)
Infine Arianna viene ricompensata dall’arrivo di Iacco: “te quarens, Ariadna, tuoque incensus amore” (253)
 
Medea ha tutt’altro carattere e conserva l’identità dell’eroe che non sopporta la derisione.
Leggiamo alcuni versi di Euripide
“Per la signora che io venero
più di tutti e mi sono scelta come alleata,
Ecate , che abita nei penetrali del mio focolare,
nessuno di costoro rallegrandosi farà soffrire il mio cuore.
Amare e penose io renderò loro le nozze,
e amara la parentela e il mio esilio dal paese. 400
Su via, non risparmiare nulla di quello che sai,
Medea, nel progettare e nell'ordire:
procedi verso l’orrore e{rp j ej~ to; deinovn - : adesso è una prova di ardimento.
Vedi quello che subisci? non devi dare motivo di derisione - ouj gevlwta dei` s j ojflei`n -
 ai discendenti di Sisifo per queste nozze di Giasone,
tu che sei nata da nobile padre e discendi dal Sole.
E poi lo sai: oltretutto noi donne siamo
per natura assolutamente incapaci di nobili imprese,
ma le artefici più sapienti di tutti i mali.
kakw`n de; pavntwn tevktone~ sofwvtatai
(Medea, 395 - 409).
 Medea si rivolge al coro delle donne corinzie e si confida con loro.
 
C’è da notare che Ecate non solo è la maestra di Medea in questa tragedia e in quella di Seneca ma è pure la signora delle streghe del Macbeth dove si rivolge a loro (the weird women, the weird sisters, le donne, le sorelle fatali) rimproverandole di non averla consultata, dato il suo ruolo:"And I, the mistress of your charms,/the close contriver of all harms,/was never called to bear my part,/or show the glory of our art?" (III, 5), e io, la signora dei vostri incantesimi, la segreta progettatrice di tutti i mali, non sono mai stata chiamata a fare la mia parte, o a mostrare la gloria dell'arte nostra?
 
La Medea di Euripide afferma la preponderanza della parte emotiva che nel suo carattere prevale su quella razionale e la porta a uccidere i figli. La donna tradita individua nel suo animo un conflitto tra la passione furente e i ragionamenti, quindi comprende che l'emotività, sebbene sia causa dei massimi mali, è più forte dei suoi propositi:" Kai; manqavnw me;n oi\\\a dra'n mevllw kakav, - qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn, - o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'""( vv. 1078 - 1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i mortali", dice la furente nel quinto episodio dopo avere preso la decisione folle di uccidere i due bambini avuti da Giasone per farlo soffrire.
Un'eco di questa situazione si trova nelle Metamorfosi di Ovidio dove Medea cerca di contrastare, senza successo, la passione per Giasone " et luctata diu, postquam ratione furorem/ vincere non poterat, "Frustra, Medea, repugnas." (VII, vv. 10 - 11), e dopo avere combattuto a lungo, dacché non poteva vincere la follia amorosa con la ragione, si disse "ti opponi invano, Medea".
Non meno inferocita è la Medea di Seneca. Anche questo personaggio teme di perdere l’identità di donna forte se non compirà un massacro dei suoi nemici e il sacrificio dei figli sull’altare della vendetta.
 
 
 
Donne dalle identità opposte: la Medea di Seneca e l’Andromaca di Euripide
 
Come e più della Medea di Euripide, quella di Seneca afferma la propria identità contro tutti.
Nella tragedia latina la nipote del Sole si attribuisce una dimensione grandiosa, addirittura cosmica.
 Quando la nutrice le fa notare:"Abiere Colchi, coniugis nulla est fides;/nihlque superest opibus e tantis tibi" (vv. 164 - 165), quelli della Colchide sono lontani, la lealtà del marito non esiste, di tanta potenza non ti rimane niente, la donna abbandonata ribatte:"Medea superest; hic mare et terras vides,/ferrumque et ignes et deos et fulmina " (vv. 166 - 167), Medea rimane: qui vedi il mare e le terre, e il ferro e i fuochi e gli Dei e i fulmini.
La difesa dell'identità a tutti i costi anzi assimila questa donna agli eroi omerici, che non cedono, e a quelli sofoclei: preferiscono tutti morire piuttosto che piegarsi alla pressione della norma.
 
L'autopossesso. Quando siamo posseduti da altri non possiamo dire né fare io perché non abbiamo una identità nostra.
 
L'autopossesso è l'unico punto fermo nei periodi di crisi e nei momenti difficili della vita: "Vaco, Lucili, vaco, et ubicumque sum, ibi meus sum" (Ep. 62, 1), sono libero, Lucilio, sono libero, e dovunque mi trovi sono padrone di me stesso.
Un’altra epistola, la 42, si chiude con queste parole:"Qui se habet nihil perdidit: sed quoto cuique habere se contigit? Vale" ( 42, 10), chi possiede se stesso non ha perduto nulla ma a quanto pochi tocca questo possesso! Stammi bene.
Nella Praefatio al III libro delle Naturales quaestiones Seneca afferma che la vittoria più grande di tutte è quella sui vizi, quindi aggiunge:"innumerabiles sunt qui populos, qui urbes habuerunt in potestate, paucissimi qui se" (10), sono innumerevoli quelli che tennero in loro potere popoli e città, pochissimi quelli che se stessi.
La libertà assoluta è questa:"non homines timere, non deos; nec turpia velle nec nimia; in se ipsum habere maximam potestatem: inestimabile bonum est suum fieri" (Ep. 75, 18), non temere gli uomini né gli dèi; non volere cose turpi né eccessive; avere il pieno dominio su di sé: è un bene inestimabile appartenere a se stessi.
 
Sembra un paradosso applicare a Medea questa affermazione della Zambrano:"Vivere nell'identità significa essere al riparo dall'inferno del vedersi nell'altro e di essere l'altro che imita l'uno…Dalla mancata identità della vita umana sorge la visione frammentaria, incompleta, distorta"[32].
 
Non trovare la propria identità significa assumerne una gregaria basata su un sentimento di appartenenza alla massa. Medea è di altra stoffa, e, ben lontana dal vergognarsi, è fiera della sua diversità. Per lei è inconcepibile che ci sia gente pronta "a rinunciare alla libertà, a far sacrificio del proprio pensiero, per essere uno del gregge, per conformarsi e ottenere così un sentimento di identità, benché illusorio"[33].
 E' con la difesa dell'identità, anche se criminale, che Medea evita l'orrore di essere canzonata e di sentirsi al di sotto di se stessa. Così fa Achille che sceglie la vita breve e gloriosa dicendo : "ouj lhvxw "( Iliade , XIX, 423), non cederò, in risposta alla predizione di morte del cavallo fatato Xanto.
 Così fa anche l'Elettra di Sofocle:"ejgw; me;n ou\n oujk a[n pot' touvtoi" uJpekavqoimi[34]" ( Elettra, v. 359 e v. 361), io certo non potrei piegarmi a questi. La sorella Crisotemi viceversa vorrebbe indurla a cedere ai forti (toi'" kratou'si d'' eijkaqei'n, v. 396).
 
Compiendo il delitto più atroce, la protagonista di questa tragedia di Seneca pensa di diventare quello che è:"Medea " la chiama la nutrice; ed ella risponde "fiam " (v. 171), lo diventerò. "E' forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"[35].
 
Il motivo Medea superest (v. 166) rilanciato da questo fiam (171) è quasi un Leitmotiv nella Médée di Anouilh (del 1953): "Je me retrouve… C'est moi, c'est Médée… je suis redevenue Médée… je suis Médée[36]" (ben 5 volte…); e ancora, alle articolate perplessità della nutrice, Medea risponde sempre epigraficamente."Mais qu' est - ce que tu veux dans cette iêle ennemie? Colchos même tu est chassée. Et Jason nous laisse aussi maintenant. Que te reste - t'il donc?: Moi [37] Si vedano anche: "c'est maintenant Médée qu'il faute être toimême"; e" est… je suis Médée, enfin, pour toujours[38]"[39].
 
 
Questo vuole l'imperatore Adriano della Yourcenar:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire (…) Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso. La mia sete di potere agiva come quella dell'amore, che impedisce all'innamorato di mangiare, di dormire, di pensare, di amare perfino, sino a che non siano stati compiuti certi riti"[40].
 
Medea superest risuona nelle tragedie di Shakespeare : I am Antony yet ( Antonio e Cleopatra, III, 13)T. S. 
Cesare non teme Cassio anche se Cassio è da temere: I rather tell thee what is to be feared - rather than I fear; for always I am Caesar ( Giulio Cesare, I, 2, 210 - 211.)
 
T. S. Eliot trova precise analogie tra i personaggi di Seneca e quelli del teatro elisabettiano:"Nell'Inghilterra elisabettiana si hanno condizioni in apparenza affatto diverse da quelle di Roma imperiale. Ma era un'epoca di dissoluzione e di caos; e in tale epoca, qualsiasi attitudine emotiva che sembri dare all'uomo alcunché di stabile, anche se è soltanto l'attitudine di "io sono solo me stesso", è avidamente assunta. Ho appena bisogno di segnalare... quanto prontamente, in un'epoca come l'elisabettiana, l'attitudine senechiana dell'orgoglio, l'attitudine montaigniana dello scetticismo, e l'attitudine machiavellica del cinismo giunsero a una specie di fusione nell'individualismo elisabettiano. Questo individualismo, questo vizio d'orgoglio, fu, necessariamente, sfruttato molto a causa delle sue possibilità drammatiche...Antonio dice "Sono ancora Antonio [41]" e la Duchessa "Sono ancora Duchessa di Amalfi "[42]; avrebbe sia l'uno che l'altro detto questo se Medea non avesse detto Medea superest?"[43].
 
Il suum esse del De brevitate vitae[44] è rivendicato da Medea in tutta la tragedia:" In questa rapina rerum omnium (Marc . 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica l'instabilità della condizione politica, resta come unico punto fermo, come unico bene inalienabile il possesso della propria anima" afferma Traina[45].
 
La propria femminilità ripudiata da Medea, da Lady Macbeth e perfino da Cleopatra.
Medea per compiere i delitti che le conservano l’identità di donna tremenda rinnega perfino la propria femminilità: "Per viscera ipsa quaere supplicio viam,/si vivis, anime, si quid antiqui tibi/remănet vigoris; pelle femineos metus/et inhospitalem Caucasum mente indue./Quodcumque vidit Pontus aut Phasis nefas[46],/videbit Isthmos. Effera ignota horrida,/tremenda caelo pariter ac terris mala/mens intus agitat: vulnera et caedem et vagum/funus per artus " (vv. 40 - 48), attraverso le viscere stesse cerca la via per il castigo, se sei vivo, animo, se ti rimane qualche cosa dell'antico vigore; scaccia le paure femminili e indossa mentalmente il Caucaso inospitale. Tutta l'empietà che il Ponto o il Fasi hanno visto, le vedrà anche l'Istmo. La mia mente medita dentro di sé malvagità feroci, inaudite, terrificanti, terribili per il cielo parimenti e per le terre: ferite e strage e un cadavere smarrito tra le membra.
Il Caucaso situato tra il Mar Caspio e il Mar Nero significa un luogo selvaggio[47] che, indossato psicologicamente, rende la persona selvaggia :" un ambiente fisico reale - sorgente, primavera, albero, crocicchio - è animato…Le nostre anime sulla terra accolgono la terra nelle nostre anime…La vita ecologica è anche vita psicologica. E se l'ecologia è anche psicologia, allora il "Conosci te stesso" diviene impossibile senza il "Conosci il tuo mondo "[48].
A questo "et inhospitalem Caucasum mente indue" (Medea, v. 43) si può collegare il tovpo" del determinismo geografico, assai diffuso nella letteratura europea.
 
Anche Lady Macbeth con una preghiera nera, invoca gli spiriti che apportano pensieri di morte e vuole disfarsi della propria natura di donna:"unsex me here", snaturatemi il sesso ora, e riempitemi dalla testa ai piedi della crudeltà più orrenda (of direst cruelty).
Il sangue di cui gronda la tragedia, nel suo corpo deve addensarsi e chiudere ogni via di accesso al rimorso ( Macbeth, I, 5).
Come to my woman’s breasts, - and take my milk for gall, you murdering ministers” (Macbeth, I, 5), venite ai miei seni di donna, e prendete il mio latte in cambio del fiele, voi ministri di assassinio.
Quindi la donna chiama una densa notte (thick night) che giunga avvolta nel più tetro fumo d'inferno perché il suo pugnale non veda la ferita che produce .
 Poco più avanti questa creatura atroce immagina l'uccisione di un suo bambino piccolo:"Io ho dato latte: e so quanta tenerezza si prova nell'amare il bambino che lo succhia; ebbene io avrei strappato il capezzolo dalle sue gengive senza denti mentre egli mi avesse guardata in faccia sorridendo e gli avrei fatto schizzare via il cervello, se lo avessi giurato come tu hai giurato questo" (I, 7).
 "La sua voce dovrebbe indubbiamente sollevarsi fino a raggiungere in "schizzar via il cervello", un urlo quasi isterico"[49].
 
Pure la Cleopatra di Shakespeare vuole annientare la propria femminilità per fissare il proposito di uccidersi: “My resolution ’s placed, and I have nothing - Of woman in me: now from head to foot - I am marble - constant; now the fleeting moon - No planet is of mine” (Antonio e Cleopatra, V, 2), la mia risoluzione è fissata, e non ho niente di femminile in me: ora dalla testa ai piedi sono salda come il marmo; ora l’incostante luna non è il mio pianeta.
 
L’opposto di Medea è la mite Andromaca
La moglie silenziosa e sottomessa: Andromaca delle tragedie di Euripide Troiane e Andromaca.
L’Andromaca delle Troiane (del 415) di Euripide dice:" Io che mirai alla buona fama (ejgw; de; toxeuvsasa[50] th'" eujdoxiva", v.643) /dopo averla ottenuta in larga misura, fallivo il successo (th'" tuvch" hJmavrtanon, v. 644 ) [51]./Infatti quelle che sono le qualità conosciute di una sposa saggia/io le mettevo in pratica nella casa di Ettore./Là dunque per prima cosa - che vi sia o non vi sia/motivo di biasimo per le donne (yovgo" gunaixivn, v. 648) - la cosa in sé attira/cattiva fama se una donna non rimane in casa [52],/io, messo via il desiderio di questo, rimanevo in casa (" e[mimnon ejn dovmoi"", v. 650);/e dentro casa non facevo entrare scaltre chiacchiere di donne/, ma avendo come maestro il mio senno (to;n de; nou'n didavskalon, v. 652)/ buono per natura, bastavo a me stessa./E allo sposo offrivo silenzio di lingua e volto/ calmo ("glwvssh" te sigh;n o[mma q j h{sucon povsei - parei'con", vv. 654 - 655); e sapevo in che cosa dovevo vincere lo sposo,/e in che cosa bisognava che lasciassi a lui la vittoria" (vv. 643 - 656).
 
La totale abnegazione di Andromaca in favore del marito
Nella precedente tragedia Andromaca (427) la vedova di Ettore dice che addirittura allattava i bastardi del proprio sposo.
 La competizione va abolita per lasciare la vittoria all'uomo: "Bisogna infatti che la donna, anche se viene data in moglie a un uomo da poco/lo ami e non faccia gare di pensieri" (Andromaca, vv. 213 - 214).
In nome della sottomissione, Andromaca suggerisce di abbassare la testa e reprimere ogni sentimento e pensiero che non sia di devozione nei confronti dello sposo. Quindi, poco più avanti, aggiunge: "O carissimo Ettore, io per compiacerti / partecipavo ai tuoi amori[53], se in qualche occasione Cipride ti faceva scivolare,/e la mammella ho offerto già molte volte ai tuoi bastardi /, per non darti nessuna amarezza. / E così facendo attiravo a me lo sposo / con la virtù ; tu[54] neppure una goccia di celeste rugiada/ lasci che si posi sul tuo sposo per paura" (vv. 222 - 228).
 L'abnegazione di Andromaca arriva al punto di accettare le amanti di Ettore condividendo gli amori di lui, ossia amandole. Se questo le dava amarezza (pikrovn , v. 225) non importa: bastava toglierla allo sposo.
 
Infine menziono un terzo tipo di donna: la bisbetica domata di Shakespeare.
 Nell'ultima scena della commedia, la negatica e controversica Katharina, infine domata da Petruccio , proclama: l'obbedienza che un suddito deve al suo re, la donna deve a suo marito. Quindi, del tutto pentita, aggiunge:"I am ashamed that women are so simple/To offer war where they should kneel for peace,/Or seek for rule, supremacy, and sway,/When they are bound to serve, love, and obey", mi vergogno che le donne siano così sciocche da offrir guerra mentre dovrebbero chiedere la pace in ginocchio; o cerchino il governo, la supremazia, il predominio, quando sono destinate a servire, ad amare e a ubbidire"[55].
 
 
 
Gli uomini di Euripide
 
Sono inferiori alle loro donne. Giasone nella Medea è un uomo pragmatico, spietato e perdente.
 
Culture diverse nella Medea di Euripide
In una intervista a J. Duflot, Pasolini dichiara che nel suo film ha voluto mettere in evidenza il contrasto tra la cultura razionale e pragmatica di Giasone e quella arcaica e ieratica della barbara:
" Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti (...) Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a qualche citazione (...) Medea è il confronto dell'universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l'eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. E' il "tecnico" abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo (...) Confrontato all'altra civiltà, alla razza dello "spirito", fa scattare una tragedia spaventosa. L'intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due "culture", sull'irriducibilità reciproca delle due civiltà (...) potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio[56]".
 
"Ecco che cos'è il successo: una vita mistificata dagli altri, che torna mistificata a te, e finisce col trasformarti veramente"[57]
 
Giasone è un pragmatico: “l'interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azioni umane deriva in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica"[58].
 
Il pragmatismo di Giasone si manifesta chiaramente quando il seduttore dichiara alla sua ex moglie di avere voluto cambiare donna, prendendo la principessa di Corinto, non perché odiasse la madre dei suoi figli, o perché ne volesse altri, ma per la cosa più importante: vivere bene, lui con la famiglia, o le famiglie, e senza restrizioni (wJ" , to; men; mevgiston, oijkoi''men kalw'" - kai; mh; spanizoivmeqa), sapendo con certezza che il povero tutti lo sfuggono (vv. 559 - 560).
 Giasone insomma "dra'/ ta; sumforwvtata - ghvma" tuvrannon " (v. 876 - 877) fa quello che è più utile sposando la figlia di un re.
E’ la stessa Medea che lo dice a Giasone con ironia e disprezzo.
 
Medea ammazza i figli, ma tra i due amanti - antagonisti il personaggio odioso è senz'altro Giasone:"Medea si rivela fin dal principio come una donna non comune, di sinistra potenza, e di fronte ad essa il saggio e benpensante Giasone non è che un miserabile. Questa raffigurazione che Euripide ci dà dell'eroe del mito greco e della maga barbara, distribuendo luci ed ombre proprio all'opposto di come accadeva nella veneranda tradizione, ci permette di capire perché Aristofane rimproverasse al poeta di aver gettato nel fango le nobili figure del mito. Ma Euripide non lo fa per l'infame piacere di demolire ogni grandezza, al contrario (e qui Nietzsche ha visto più a fondo di Aristofane e di Schlegel) lo fa con un'intenzione morale: le credenze antiche vengono smascherate e demolite, ma per far posto a un senso di giustizia più vero e per porre un fondamento a questo nuovo dovere. E chi potrà sottrarsi all'impressione che questa Medea non abbia davvero la ragione dalla sua, di fronte a questo Giasone?"[59].
 
Già Epitteto apprezzava la sinistra potenza di Medea: “Egli, personalmente, odiava le vie di mezzo. Medea, nella sua efferatezza, gli riusciva più simpatica che non i tiepidi, che non fanno nulla ex abundantia cordis e professano princìpi filosofici senza mai applicarli”[60].
 
Giovenale considera meno grave il delitto pur atroce di Medea e Progne rispetto a quelli delle matrone romane dei suoi tempi le quali hanno ucciso i figli “sed/non propter nummos” (VI, 645 - 646) , non per i quattrini, bensì per ira e rabbia: “Illam ego non tulerim, quae compŭtat et scelus ingens/sana facit. Spectant subeuntem fata mariti/Alcestim, et similis si permutatio detur,/morte viri cupiant animam servare catellae” (651 - 654), io non posso sopportare quella che calcola e compie un crimine grande a mente fredda. A teatro guardano Alcesti che si sobbarca il destino di morte del marito, e se fosse concesso uno scambio simile, desidererebbero salvare la vita della cagnetta con la morte del marito.
 
Euripide canzona Admeto, uno dei suoi maschi deboli e stolti. Seguono Agamennone e Penteo.
Rimanendo sul dramma nell'Alcesti di Euripide, Admeto, nel dare l'addio alla moglie morente, auspica per sé la lingua e il canto di Orfeo ( eij d j jOrfevw" moi glw'ssa kai; mevlo" parh'n", v. 357) , mezzi con i quali, sostiene, potrebbe recuperare la sposa. E' interessante l'interpretazione di Jan Kott:"Anche quando Euripide rinuncia temporaneamente al tono di opera buffa, le sue allusioni al mito restano ironiche. In un momento particolarmente solenne, poco prima della morte di Alcesti, Admeto le assicura che se avesse la voce e la lira di Orfeo non esiterebbe a scendere nell'Ade con lei. Anche il più ignorante degli spettatori di Alcesti doveva sapere che Orfeo non era riuscito a portare Euridice fuori dagli Inferi"[61].
Admeto dunque è un ridicolo cretino oltre che un egoista.
 
Agamennone nell’ Ifigenia in Aulide di Euripide è un irrisoluto che non sa quello che vuole. Nel Prologo (1 - 163) scrive una lettera ingannevole a Clitennestra , perché gli porti Ifigenia, poi se ne pente.
Ora sono pentito, dice Agamennone e cambio quello che ho scritto (metagravfw, 109).
Questa metagrafhv sembra una correzione della persona, ma è solo momentanea perché poi lascerà che la figlia venga sacrificata.
Del resto la salverà Artemide.
Inoltre Agamennone invidia un vecchio servo che passa una vita ajkivndunon , priva di rischi, rimanendo ajgnw;~ ajklehv~ (18) sconosciuto e oscuro.
Invidia meno chi vive ejn timai`~, tra gli onori.
Il duce conclude il pologo dicendo che dei mortali nessuno è felice e beato (o[lbio~, eujdaivmwn[62]) fino al termine (ej" tevlo") e nessuno è immune da dolore (161 - 163)
In questa tragedia Euripide trova delle giustificazioni per l’adulterio e l’assassinio compiuti da Clitennestra che dice al marito: hai ucciso il mio primo sposo, Tantalo[63] e hai strappato dal mio seno e sfracellato al suolo il bambino avuto da lui.
I miei fratelli Dioscuri volevano punirti, ma mio padre Tindaro ti salvò e così mi sposasti. Quindi sono stata una moglie irreprensibile (a[mempto~ gunhv). Una fortuna per te: una moglie siffatta è spavnion qhvreum j (1162) raro bottino, mentre non c’è spavni~, penuria di spose cattive.
Ti ho dato un maschio, Oreste, e 3 figlie: Ifigenia, Elettra, Crisotemi.
Come credi che reagirò se me ne toglierai una; quali sentimenti pensi che avrò, vedendo vuoti i seggi di Ifigenia ? Lascerai odio (Ifigenia in Aulide, mi`so~, 1179) partendo, e al ritorno basterà un lieve pretesto per farti avere l’accoglienza che meriti.
 
Anche Dante biasima Agamennone: “e così stolto - ritrovar puoi il gran duca de’ Greci - onde pianse Ifigenia il suo bel volto” Paradiso, V, 68 - 70.
I voti, non vanno fatti “a ciancia”.
 
L’irrazionale non può essere eliminato.
Restiamo sulle ultime tragedie di Euipide e vediamo che Penteo nelle Baccanti cerca di reprimere le Menadi, poi ne rimane affascinato, quindi ne viene sbranato. Non capisce che l’irrazionale non può essere eliminato.
 
Sentiamo P. P. Pasolini su Dioniso e Penteo.
“Egli è venuto in forma umana a Tebe per portare amore (ma mica quello sentimentale e benedetto dalle convenzioni!), e invece porta il dissesto e la carneficina. Egli è l’irrazionalità che cangia, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dalla dolcezza all’orrore. Attraverso essa non c’è soluzione di continuità tra Dio e il Diavolo, tra il bene e il male. Dioniso si trasforma, appunto, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dal giovane pieno di grazia che era al suo primo apparire in un giovane amorale e criminale. Sia come apparizione “benigna” che come apparizione “maledetta”, la società, fondata sulla ragione e sul buon senso - che sono il contrario di Dioniso, cioè dell’irrazionalità - non lo comprende. Ma è la sua stessa incomprensione di questa irrazionalità che la porta irrazionalmente alla rovina, alla più orrenda carneficina mai descritta in un’opera d’arte. Sono gli I. M., per citare Elsa Morante, gli Infelici Molti, ossia la maggioranza, o la media, fondata sulla razionalità e sul buon senso, che non comprendono la grazia di Dioniso, la sua libertà, e, perciò, finiscono atrocemente nella strage: di cui peraltro la irrazionalità stessa è patrona. Quanti Péntei, nella nostra società… I Pentéi italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi ”[64].
 
Nemmeno la ragione del resto va negata.
 
La negazione della ragione non è collegata a una visione progressista, ma, il più delle volte, reazionaria: “Si nega la ragione o si proclama la sua impotenza (Scheler), in quanto la realtà stessa, la vita vissuta dal pensatore, non mostra alcun movimento progressivo verso un avvenire degno di approvazione, alcuna prospettiva di un futuro migliore del presente”[65].
Sentiamo Macbeth: “There is nothing serious in mortality, all is but toys”, non c’è niente di serio nella mortalità: tutto è solo una burla (Macbeth, II, 3)
 
Euripide lascia grande spazio all’irrazionale, tuttavia è pure reputato il tragediografo che ha portato sulla scena la filosofia e il ragionamento.
Concludo, per ora, la parte relativa a Euripide citando alcune parole La nascita della tragedia. “Socrate, l’eroe dialettico del dramma platonico, ci ricorda la natura affine dell’eroe euripideo, che deve difendere le sue azioni con ragioni e controragioni, e che per questo rischia tanto spesso di non suscitare più la nostra compassione tragica (…) La virtù è il sapere ; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice”[66].
Questo è Socrate piuttosto che Euripide, ma i due vengono assimilati da Aristofane e da Nietzsche.
A tale sottilizzare attribuito a Euripide contrappongo alcune parole del primo stasimo delle Baccanti dove il coro delle Menadi canta:
"Il sapere non è sapienza"(to; sofo;n d j ouj sofiva , Euripide Baccanti v.395).
 
La conclusione di questo canto del coro è
Antistrofe b
Il demone figlio di Zeus
gioisce delle feste,
e ama Irene che dona benessere,
dea nutrice di figli.                                                                          
Uguale al ricco e a quello di rango inferiore
concede di avere la
 gioia del vino che toglie gli affanni;
e porta odio a chi queste cose non stanno a cuore:
durante la luce e le amabili notti
passare una vita felice,
e saggia tenere la mente e l’anima lontane
dagli uomini straordinari;
ciò che la massa
più semplice crede e pratica,
questo io vorrei accettare (Baccanti, 418 - 432)
 
Tiresia, sempre nelle Baccanti di Euripide, dà a Penteo questo consiglio: “non presumere che il potere abbia potenza sugli uomini, ( mh; to; kravto" au[cei duvnamin ajnqrwvpoi" e[cein, v. 310). Il potere dunque non è potenza come il sapere non è sapienza.
 
Un’aggiunta a questi “il sapere non è sapienza” e “il potere non è potenza” delle Baccanti di Euripide.
Infine: il potere non è potenza
Nei Proverbi dell’Antico Testamento parla la Sapienza dicendo queste parole:
“Io, la Sapienza, possiedo la prudenza
E ho la scienza della riflessione.
Temere il Signore è odiare il male:
io detesto la superbia e l’arroganza,
la cattiva condotta e la bocca perversa.
A me appartiene il consiglio e il buon senso,
io sono l’intelligenza, a me appartiene la potenza” (Proverbi, 8)
 
 
 
Le identità fondate sul denaro o sul potere
Diversi autori le smontano
 
Partiamo da questa seconda che è meno volgare.
Sentiamo Sallustio: “Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat” (De coniuratione Catilinae (11), dapprima[67] tormentava i cuori più dell’avidità l’ambizione, un vizio, tuttavia più vicino alla virtù.
Nell’ambizione dunque c’è pure un pizzico di virtù. Bisogna vedere però a che cosa si ambisce. Ricordo la distinzione tra potere e potenza citata sopra dalle Baccanti.
 
Il non ambizioso nobile Otane
Ora rammento il caso di un nobile persiano, Otane, il quale poteva gareggiare per diventare il grande re e non volle farlo.
Nel terzo libro delle Storie di Erodoto si trova un dibattito costituzionale tenuto dai Sette che si erano ribellati ai Magi usurpatori Medi uccidendoli. Otane propose di affidare il potere al popolo propugnando l’isonomia, una costituzione e un governo che ha il limite e il pregio di dover subire controlli.
Sul suo parere, e quello di Megabizo favorevole all’oligarchia, ottenne la maggioranza dei sette nobili riuniti in consiglio quello di Dario con l'argomento che a loro la libertà era venuta da un monarca (Erodoto, III, 82) .
Allora Otane non entrò in lizza per diventare re dicendo parole molto belle, una specie di manifesto dell'antisado masochismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw" (III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato.
 
 Credo di avere riconosciuto un’eco di questa splendida affermazione nel film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel - Hitler, scambiato per il grande dittatore deve fare un discorso che legittimi ed esalti la prepotenza del tiranno, presentato alla folla come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch - Goebbels. Ebbene il barbiere non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice: “I’m sorry, but I don’t want to be an emperor. That’s not my business. I don’t want tu rule or conquer anyone”, mi dispiace, ma io non voglio essere imperatore, non è il mio mestiere, io non voglio governare o conquistare nessuno.
E continua: “I should like to help everyone…greed has poisoned mens’s souls”, mi piacerebbe aiutare tutti…l’avidità ha avvelenato le anime umane.
 
Smontature del potere
Una maledizione del "bene fallace" costituito dal potere si trova nell'Oedipus di Seneca:"Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum,/quantum malorum fronte quam blanda tegis "(vv. 6 - 7), qualcuno gioisce del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto un'apparenza così lusinghiera!
Nelle Fenicie , Seneca fa dire a Giocasta che Eteocle pagherà il fio a caro prezzo con il fatto di essere re:"poenas, et quidem solvet graves: regnabit "(v.645).
 
Nelle Fenicie di Euripide Eteocle adora il potere assoluto come la divinità più grande (“th;n qew'n megivsthn w{st j e[cein Turannivda”v. 506), e pur di averlo sarebbe disposto anche a salire sugli astri e a scendere sotto terra.
Sicché egli non cederà mai questo bene supremo: sarebbe un atto di viltà (ajnandriva, v. 509). Non solo: il figlio di Giocasta conclude la sua celebrazione del potere dicendo alla madre che poi lo contraddice :" ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri - kavlliston ajdikei'n, ta[lla d eujsebei'n crewvn", vv. 524 - 525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
 
 "Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più"[68], e Giocasta obietta:"tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j e[cei monon:/ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'" ge swvfrosin", vv. 553 - 554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi. Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi: quando vogliono, a turno, ce le portano via di nuovo.
 
Manzoni nell' Adelchi (V, 8) rappresenta il protagonista ferito che dice al padre sconfitto:"Godi che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v'è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto".
 
Il potere è razionale e morale solo se viene esercitato al servizio dei sudditi:
Zenone il fondatore della Stoà, quando fu invitato alla corte di Antigono, vi mandò i discepoli più cari, Perseo e Filonide .
Era il 276, quando Antigono Gonata sposò Fila.
Perseo scrisse Sulla monarchia la quale conteneva l’idea professata da Antigono del regnare come e[ndoxo" douleiva (Eliano[69], Var. hist. II 20), un onorevole servizio.
 
La lectio del 23 giugno a Ghedi è terminata qui
 
 
 
Nelle Epistole a Lucilio il maestro di Nerone già ripudiato dal discepolo imperiale ricorda che nell'età dell'oro governare era compiere un dovere non esercitare un potere assoluto:" Officium erat imperare, non regnum" (90, 5).
 
Luogo simile in I Promessi sposi :"Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle" (cap. XXII). Si tratta del cardinale Federigo Borromeo.
 
Concetto analogo si trova in Psicanalisi della società contemporanea di E. Fromm:"Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l'uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà" (p. 299).
 
 
Passiamo ora all’identità fondata sul denaro
Ebbene Seneca smonta tale identità coprendola di fango per usare un eufemismo
 
Quod contemptissimo cuique contingere ac turpissimo potest bonum non est; opes autem et lenoni et lanistae contingunt; ergo non sunt bona " (Epistole , 87, 15), quello che può toccare agli uomini più spregevoli e infami non è un bene; ora le ricchezze toccano a un lenone e a un maestro di gladiatori; dunque non sono un bene.
E, poco più avanti nella medesima lettera (16):"pecunia...sic in quosdam homines quomodo denarius in cloacam cadit ", il denaro cade nella tasca di certi uomini come una moneta in una fogna. Infine, utilizzando Posidonio:"quae neque magnitudinem animo dant nec fiduciam nec securitatem non sunt bona; divitiae autem...nihil horum faciunt; ergo non sunt bona " (35), le cose che non procurano all'animo né grandezza né coraggio né sicurezza non sono beni; ora le ricchezze non producono niente di questo; dunque non sono beni.
Le ricchezze ricevono molte maledizioni da autori non secondari della cultura europea
Seneca nel De ira ricorda che i re incrudeliscono e compiono rapine e distruggono città costruite con lunga fatica di secoli per cercare oro e argento dentro le ceneri delle città: "reges saeviunt rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum argentumque in cinere urbium scrutentur " (III, 33)
Virgilio nell'Eneide vede il desiderio dell'oro come motore di efferati delitti:" Polydorum obtruncat et auro/ vi potitur. Quid non mortalia pectora cogis , /auri sacra fames!", massacra Polidoro e con violenza si impossessa dell'oro. A cosa non spingi i cuori umani, maledetta fame dell'oro! (III, 55 - 57).
Properzio fa dipendere il tramonto degli dèi[70], della pietas, della fides, dei iura, della lex, del pudor, dal lusso e dalla lussuria di uomini e donne, e dalla maledetta fame dell'oro: "At nunc desertis cessant sacraria lucis:/aurum omnes victa iam pietate colunt./Auro pulsa fides, auro venalia iura,/aurum lex sequitur, mox sine lege pudor" (III, 13, 47 - 50), ma ora sono trascurati i santuari nei boschi deserti: vinta la devozione, tutti venerano l'oro. Dall'oro è stata messa fuori corso la lealtà, con l'oro si compra la giustizia, la legge obbedisce all'oro, presto il pudore sarà fuori legge.
C’è la teocrazia del denaro.
Tutto questo porterà alla caduta di Roma:"frangitur ipsa suis Roma superba bonis" (v. 60), la stessa Roma superba viene spezzata dalle sue ricchezze.
 
 Anche il Satyricon è ricco di anatemi del denaro:"quid faciant leges, ubi sola pecunia regnat? ", cosa possono fare le leggi dove comandano solo i quattrini? domanda Ascilto (14).
 Più avanti Eumolpo dice :"noli ergo mirari, si pictura defecit, cum omnibus dis hominibusque formosior videatur massa auri, quam quicquid Apelles Phidiasque, Graeculi delirantes, fecerunt " (88), non devi dunque stupirti se la pittura è morta, dato che a tutti, dèi e uomini, sembra più attraente un mucchio d'oro di quello che fecero Apelle e Fidia, Grechetti matti.
 
Marx, Goethe e Shakespeare sul denaro
Karl Marx analizza il significato del Denaro nel XLI capitolo del Terzo dei Manoscritti economico - filosofici del 1844.
“Il denaro, possedendo la caratteristica di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente”.
Quindi il filosofo cita Goethe, quando Mefistofele dice: “ Se posso pagarmi sei stalloni, le loro forze non sono le mie? Se mi faccio trainare , io divento un uomo superiore provvisto di ventiquattro gambe (Faust, parte prima, Studio II, 1824 - 1827).
Poi Marx commenta queste parole scrivendo: “quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali”
Segue la menzione di Shakespeare il quale rileva nel denaro soprattutto due proprietà:
1)" è la divinità visibile, la trasformazione di tutti le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l'universale rovesciamento delle cose. Esso fonde insieme le cose impossibili
2) è la meretrice universale, la mezzana universale degli uomini e dei popoli”
 
Shakespeare difatto nel Timone di Atene definisce l'oro "uno schiavo giallo" che "cucirà e romperà ogni fede, benedirà il maledetto e farà adorare la livida lebbra, collocherà in alto il ladro e gli darà titoli, genuflessioni ed encomio sul banco dei senatori" (IV, 3, 34 - 38) , e, poco sotto : “questa roba è l'universale mezzana che "profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello che un ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea".
Il misantropo Timone conclude l’invettiva contro this yellow slave, la gialla carogna deprecandola come maledetta mota, comune bagascia del genere umano - tou common whore of mankind - IV, 3, 43) che metti a soqquadro la marmaglia dei popoli".
 
Cito la conclusione umanistica di Marx : “Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto con il mondo come rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato, se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente (…) Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità”.
 
Chiudo con Leopardi che nella Palinodia al Marchese Gino Capponi (1835) scrive: “e già dal caro - sangue de’ suoi non asterrà la mano - la generosa stipe: anzi coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar, fresca nutrice - di pura civiltà sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni"(vv. 61 - 67).
 
 
 
Tucidide e l’identità imperialista
 
Tucidide considera la forza e la capacità di imporla il segno principale dell’identità dell’uomo, della polis e perfino degli dèi, se pure esistono.
Lo dicono gli Ateniesi per indurre alla resa gli abitanti della piccola isola di Melo.
Nel V libro lo storiografo racconta che gli Ateniesi presentarono agli abitanti di Melo, una piccola isola delle Sporadi, rimasta neutrale, la richiesta di entrare nella loro alleanza. Siamo nell'estate del 416, quando i dominatori del mare fecero una spedizione contro l'isoletta con circa trentotto navi e tremila opliti. I Meli erano coloni dei Lacedemoni (Lakedaimonivwn...a[poikoi, V, 84, 2) e non volevano sottomettersi all'impero marittimo come gli altri isolani:"tw'n d j jAqhnaivwn oujk h[qelon uJpakouvein w{sper oiJ a[lloi nhsiw'tai".
In un primo tempo erano rimasti tranquilli senza schierarsi, ma poi, siccome gli Ateniesi li costringevano ( e[peita wJ" aujtou;" hjnavgkazon oiJ jAqhnai'oi) devastando il loro territorio, scesero in guerra. Prima di aprire le ostilità però gli strateghi Cleomede e Tisia mandarono ambasciatori per trattare. Stratego quell'anno era anche Alcibiade che nel frattempo operava ad Argo, sempre in favore della ripresa della guerra. Nel 421 era stata stipulata una pace malsicura.
I Meli non introdussero gli ambasciatori ateniesi in presenza dell'assemblea, ma li fecero parlare davanti ai magistrati e ai maggiorenti ( "ejn de; tai'" ajrcai'" kai; toi'" ojlivgoi"", V, 84, 3), secondo l'uso oligarchico della non trasparenza garantita da quell'opacità nebbiosa interposta tra il palazzo e la piazza di cui parla Guicciardini. Gli ambasciatori Ateniesi dunque proposero che si parlasse non con un discorso continuato (" eJni; lovgw/", V, 85) ma che si potesse intervenire e interrompere davanti ad affermazioni non adeguate.
Come nella tragedia il coro fa risaltare il significato dell'azione, così nella storia di Tucidide i discorsi, e soprattutto questo drammatizzato, servono a chiarificare la successiva prassi traducendola in espressione dell'intelligenza.
Ho qualificato la prassi come “ successiva” perché il logos, la parola la precede.
Il parlare comunque precede l’agire: “touv~ te lovgou~ o{sti~ diamavcetai mh; didaskavlou~ tw`n pragmavtwn givgnesqai h] ajxunetov~ ejstin h] ijdiva/ ti aujtw`/ diafevrei” (III 42, 2), chiunque contesti che i discorsi siano maestri delle azioni, o è stupido, oppure ne ha qualche vantaggio personale.
 E’ Diodoto che parla in uno scontro oratorio con Cleone.
 
I consiglieri (xuvnedroi) dei Meli risposero che le proposte di pace erano in contrasto con i preparativi di guerra già presenti ("ta; de; tou' polevmou parovnta h[dh", V, 86) e che, quindi, l'esito della discussione era scontato.
Seguono venticinque interventi senza didascalie, come se si trattasse di una composizione drammatica in prosa. Gli Ateniesi avvertono che quanto verrà detto riguarda la salvezza della città ("peri; swthriva"", V, 87). A questa condizione, dicono allora i Meli:"oJ lovgo" w/| prokalei'sqe trovpw/, eij dokei', gignevsqw"(V, 88) il dibattito si svolga, se vi pare nel modo che proponete voi.
Gli Ateniesi quindi affermano il principio che il giusto nel linguaggio umano si giudica partendo da una pari necessità ("divkaia me;n ejn tw'/ ajnqrwpeivw/ lovgw/ ajpo; th'" i[sh" ajnavgkh" krivnetai"), altrimenti i più forti fanno quanto possono e i deboli cedono ("oiJ ajsqenei'" xugcwrou'sin", V, 89).
 
Le parole “ideologiche” definitive della prepotenza dell’impero ateniese sono queste:
"Riteniamo infatti che la divinità, per quanto si può suppore, e l'umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura - ujpo; fuvsew~ ajnagkaiva~ - , dove sia più forte, comandi. Noi non abbiamo imposto questa legge né l'abbiamo utilizzata per primi quando vigeva, ma dopo averla ricevuta che c'era, e pronti a lasciarla rimanere per sempre, ce ne avvaliamo". (Tucidide, V, 105, 2)
 
Nietzsche ribadisce questo concetto :"Laddove domina il diritto, è mantenuto in piedi un certo stato e grado di potenza, e sono impediti una diminuzione e un accrescimento. Il diritto di altri è la concessione che il nostro sentimento di potenza fa al sentimento di potenza di questi altri. Se il nostro potere si mostra profondamente scosso e infranto, cessano i nostri diritti: al contrario, se noi siamo divenuti molto più potenti, cessano i diritti degli altri nei nostri riguardi, come glieli avevamo riconosciuti fino a questo momento".[71]
 
Leopardi nell'Ultimo canto di Saffo (vv. 50 - 54) identifica il diritto del più forte con il diritto del più bello, sopravvalutando l'aspetto fisico.
Alle sembianze il Padre,/alle amene sembianze eterno regno/diè nelle genti; e per virili imprese,/per dotta lira o canto,/virtù non luce in disadorno ammanto," (vv. 50 - 54),
La bellezza è una grande forza e, conseguentemente al principio del diritto del più forte, il poeta di Recanati sostiene pure che i belli, come altri avvantaggiati dalla natura o dalla società, sono cattivi: “Pure è certo che i belli sono per lo più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi naturali o acquisiti. Chi li possiede non è buono. Un brutto, un uomo sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s’incammina alla virtù (…) L’uomo insuperbisce del vantaggio che si accorge di avere sugli altri, e cerca di trarne per sé tutto quel partito che può. S’egli è più forte, fa uso della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la strada che più giova e piace agli altri, per accattivarseli. Il forte non abbisogna di questo. Ecco l’abuso de’ vantaggi. Abuso inevitabile e certo, posta la società. Così dico de’ potenti che non possono essere virtuosi ”[72].
Io credo piuttosto che i cattivi siano gli scontenti di sé: quanti fanno un lavoro che considerano inferiore alle proprie capacità, quanti non ricevono alcun contraccambio né riscontro di ciò che dicono e fanno.
Nella seconda commedia della Trilogia pirandelliana[73] del teatro nel teatro, Ciascuno a suo modo (1924), l'attrice Delia Moreno afferma:"Sapete che cosa significa "amare l'umanità"? Soltanto questo:"essere contenti di noi stessi". Quando uno è contento di se stesso "ama l'umanità"[74].
 
Acibiade e la presunzione del potere
Ma torniamo a Tucidide dove Alcibiade attribuisce alla propria persona il diritto del più forte e del più bello
Nel VI libro lo storiografo presenta questo giovane come un tipo umano straordinario che inquietava anche ai suoi stessi compagni di partito: aveva passioni più grandi di quanto consentissero le sue ricchezze, sia per l'allevamento dei cavalli, sia per le altre spese, e molti lo temevano per le sue stravaganze, per la grandezza e l'eccentricità delle sue vedute[75].
Egli caldeggia con forza la spedizione in Occidente e presenta dinanzi all'assemblea popolare il disegno vertiginoso della conquista di tutta la Sicilia e del dominio sull’intera Grecia, dichiarando che lo sviluppo di una potenza come quella d'Atene non deve limitarsi: chi la detiene, non può conservarla che con l'estenderla sempre più, giacché la sosta significa pericolo di decadenza.
Meritano di essere trascritte alcune parole di Alcibiade :" kai; th;n povlin, eja;n me;n hJsucavzh/, trivyesqaiv te aujth;n w{sper kai; a[llo ti"(VI, 18, 6) e la città, se rimarrà tranquilla si logorerà da sola, come qualsiasi altra cosa. Egli rivendica alla propria persona il comando dell’impresa - kai; proshvkei moi ma`llon ejtevrwn, w\ jAqhnai`oi, a{rcein (VI, 16, 1) tocca a me comandare più che ad altri.
Alcibiade arriva a vantare “La mia giovinezza e follia che pare oltrepassare i limiti della natura” (hJ ejmh; neovth~ kai; a[noia para; fuvsin dokou`sa ei\nai - VI, 17, 1).
 
Che la logica dell’impero ateniesi fosse quello della tirannide lo dicono tanto l’aristocratico e democratico Pericle tutore di Alcibiade quanto il demagogo Cleone.
 
Pericle, nell’ultimo discorso che Tucidide gli attribuisce, dice agli Ateniesi: “turannivda ga;r h[dh e[cete aujth;n, h}n labei'n me;n a[dikon dokei' ei\nai, ajfei'nai ejpikivndunon” (II, 63, 2) avete un potere che è oramai una tirannide che può sembrare ingiusto prendere ma pericoloso abbandonarla.
 

Tucidide quindi fa dire a Cleone succeduto a Pericle quale beniamino del popolo "turannivda e[cete th;n ajrchvn", (III 37, 2), avete un impero che è una tirannide la quale per reggersi deve usare la forza e bandire la compassione.

 
 
 
L’identità gregaria
 
La maggior parte delle persone trae identità identificandosi con altri: dalla squadra di calcio, al singolo campione, sportivo o militare, da un capo politico, dal padre o da chiunque rappresenti ai suoi occhi la forza che lui non ha e il successo che non può raggiungere. Pensate agli scalmanati che sbraitano e gesticolano per ore dopo una vittoria di una squadra di calcio: il loro amore per quel club costituisce il più e il meglio della loro personalità purtroppo -
Non so se il riso o la pietà prevale.
 
Contrappongo a tali dipendenze quanto scrive Seneca: Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non quo eundum est sed quo itur[76], niente allora dobbiamo fare con cura maggiore che evitare di seguire il gregge di coloro i quali ci stanno davanti, alla maniera delle bestie, dirigendoci non dove dobbiamo andare ma dove si va.
 
Voi lettori potreste dirmi: “anche tu pedante mezzo orbo di mente, non fai che appropriarti di trovate altrui”.
Rispondo: io cerco negli autori che mi sono congeniali un aiuto per trovare le parole più belle e più funzionali a esprimere quello che ho dentro di me.
Gli autori dei quali mi avvalgo non sono tanti né pochissimi. Scelgo quelli che sento congeniali alla mia sensibilità.
E pure di questi mi permetto di criticare quanto non mi piace.
Mi riservo il diritto di critica anche verso quelli che mi hanno dato di più.
Così ho sempre fatto con ogni potere e perfino con le donne amate.
Insomma con tutti quanti hanno cercato di negare la mia identità invece di aiutarmi a conoscerla, a definirla, a potenziarla.
Il gregario invece echeggia sempre i versi del suo idolo poiché, in sintesi e in conclusione è un idolatra.
 
 
 
Tucidide, Polibio e l’identità della costituzione.
 
Tucidide nel logos epitafios definisce l’identità degli Ateniesi attraverso la costituzione che è l’anima della loro città.
 
Nel secondo libro della Guerra del Peloponneso Tucidide racconta i primi tre anni di questa guerra, dal 431 al 429.
Dopo avere riferito come iniziarono le ostilità e avere narrato le operazioni del primo anno , l’autore ricostruisce il famoso lovgo~ ejpitavfio~, il secondo discorso di Pericle (II, 35 - 46), quello sui caduti in battaglia.
 
Leggiamone alcune parole
In effetti ci avvaliamo di una costituzione - Crwvmeqa ga;r politeiva/ - che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio - paravdeigma - a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. E di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia, però secondo le leggi, riguardo alle controversie private, c’è una condizione di uguaglianza per tutti, mentre secondo la reputazione, per come ciascuno viene stimato in qualche campo, non per il partito di provenienza più che per il suo valore, viene preferito alle cariche pubbliche, né, d’altra parte secondo il criterio della povertà, se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale. (Tucidide, II, 37, 1.
 
I nostri padri costituenti, tra i quali c’era l’antichista Concetto Marchesi hanno echeggiato queste parole nel redarre il testo della nostra costituzione
 La Costituzione Della Repubblica Italiana
Princìpi fondamentali
 Articolo 3 - Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”
 
Liberamente (ejleuqevrwς) viviamo da cittadini nei rapporti con la comunità e, riguardo al sospetto reciproco nei confronti delle abitudini quotidiane, noi non ci adiriamo con il vicino , se fa qualche cosa a piacer suo, né infliggiamo molestie che senza recare danno, sono però pesanti ai nostri occhi (II, 37, 2)
 
ejleuqevrwς: la libertà suprema, la quintessenza di tutte le libertà di cui gli Ateniesi andavano fieri è la parrhsiva.
Nello Ione[77] di Euripide il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma - dou'lon pevpatai[78] koujk e[cei parrhsivan", vv. 674 - 675).
 Analogo concetto si trova nelle Fenicie[79] quando Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa.
"La parresìa è l'elemento che il Greco avverte come ciò che massimamente lo distingue dal barbaro. L'esule soffre della perdita della parresìa come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391). Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo decisivo nell'Annuncio neo - testamentario. E dunque entrambe le componenti della cultura europea vi trovano fondamento"[80]. -
 
Mentre trattiamo le faccende private senza recare offese, nella sfera pubblica non trasgrediamo le leggi soprattutto per rispetto dei magistrati che sono via via al governo, delle leggi, e soprattutto di quelle che sono poste a tutela di chi subisce ingiustizia e quante, pur non essendo scritte, portano un disonore sul quale tutti concordano (II, 37, 3)
Don Milani scrive: “non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate” (L’obbedienza non è più una virtù, pp. 37 - 38)
 
Difatti amiamo il bello filokalou`men con semplicità te ga;r met j eujteleiva~ - e amiamo la sapienza senza mollezza kai; filosofou`men a[neu malakiva~ ci serviamo della ricchezza più quale occasione per agire che come vanteria di parole, e l’essere povero non è vergognoso ammetterlo per alcuno di noi, ma è vergognoso piuttosto non evitarlo con l’operosità (II, 40, 1).
filokalou`men: è la fortissima componente estetica della cultura greca, soprattutto ateniese. Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione (tw/' pavqei mavqo" [81]), ma anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei kavllo" :"Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore…la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore… quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[82].
 
C’è nelle medesime persone la cura degli interessi privati e nello stesso tempo degli affari pubblici, e per altri, rivolti ad altre attività, c’è la possibilità di conoscere i problemi politici in modo sufficiente: solo noi infatti consideriamo non pacifico, ma inutile - oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei`o n nomivzomen - chi non prende parte alla vita politica, e siamo noi che o decidiamo oppure esaminiamo bene i fatti, non considerando i discorsi un danno per le azioni, ma che lo sia piuttosto non essere informati con la parola prima di arrivare a ciò che si deve all’azione (II, 40, 2.)
ajcrei`on: risale a una legge di Solone il biasimo per chi non prende posizione politica.
Plutarco racconta che tra le leggi dell’antico nomoqevthς era soprattutto singolare e sorprendente oJ keleuvwn a[timon ei\nai to;n ejn stavsei mhdetevraς merivdoς genovmenon (Vita di Solone, 20, 1), quella che sanciva che fosse privato dei diritti chi in caso di sedizione non si schierava per nessuna delle due fazioni
 
E anche per quanto riguarda la nobiltà d’animo, noi siamo il contrario dei più: infatti non ricevendo il bene, ma facendolo ci procuriamo gli amici. E’ più sicuro chi ha fatto del bene, nella misura in cui conserva la gratitudine che gli è dovuta con la benevolenza per la quale ha donato; mentre chi è debitore è più lento, in quanto sa che deve ricambiare l’atto generoso, non per fare un dono gratuito, ma per dovere.
 E siamo i soli che non più per il calcolo di un vantaggio che per fiducia nella liberalità portiamo aiuto senza timore
 (II, 40, 4 - 5)
Riassumendo dico che l’intera città è la scuola dell’Ellade e mi sembra che ciascun uomo singolarmente da noi possa presentare la propria persona indipendente a moltissimi generi di formazione anche con la massima eleganza - kai; meta; carivtwn mavlist j e con versatilità ( II, 41, 1)
 
 
 
Polibio e il ritorno ciclico delle Costituzioni
 
Passiamo ora a Polibio (206 - 118) che celebra la costituzione della repubblica romana della metà del II secolo a. C.
Nel VI libro lo storiografo di Megalopoli analizza le tre forme costituzionali fondamentali (monarchia, aristocrazia, democrazia) con il loro degenerare nella versione deteriore (tirannide, oligarchia, oclocrazia)
Au{th politeiw'n ajnakuvklwsi" questo è il ciclo delle costituzioni, au[th fuvsew~ oijkonomiva, questa la disposizione della natura kaq j h}n metabavllei kai; meqivstatai kai; pavlin eij~ auJta; katanta`/ ta; kata; ta;~ politeiva~ - secondo cui mutano, le forme costituzionali si trasformano e tornano alla loro forma originaria (VI, 10).
L'anakyklosis si configura come un passaggio dallo stato ferino alla monarchia , quindi alla "degenerazione" di questa (la tirannide), poi alla aristocrazia e alla "degenerazione" di questa (oligarchia), infine alla democrazia e alla "degenerazione" di questa (ochlokratìa).
Migliori sono le forme miste, come a Sparta o Cartagine e soprattutto a Roma.
La costituzione mista presenta il l'eminente vantaggio di conservazione di forme monarchiche (a Roma l'imperio consolare) ed aristocratiche (l'autorità senatoria) nella sopravvenuta democrazia.
 
La mikth; politeiva (costituzione mista) , quella romana in particolare, riunisce in sè le caratteristiche delle tre forme sane di governo: quello monarchico rappresentato dai consoli, quello aristocratico dal senato, quello democratico dai comitia e dai tribuni della plebe. Tale commistione dei poteri bene armonizzati consente una stabilità maggiore rispetto ai regimi non misti: i monarchici, nati da uno stato selvaggio, e privi del consenso del popolo, prima si evolvono in regni che hanno il consenso del popolo, poi tendono a degenerare in tirannidi, cui reagiscono gli a[ristoi dando vita ai governi aristocratici appunto, che però declinano nelle oligarchie, il prepotere dei pochi, ai quali reagisce il popolo instaurando le democrazie che dopo qualche tempo decadono nelle oclocrazie dove la folla, abituata a vivere sfruttando gli altri, quando trova un capo audace e intraprendente (si può pensare al Cleone di Tucidide o di Aristofane), instaura il dominio della forza bruta, commette massacri, manda in esilio e spartisce le terre ("poiei' sfagav", fugav", gh'" ajnadasmouv"", VI, 9, 9) finché, la gente ricaduta in uno stato completamente ferino, non trova di nuovo un padrone e un monarca .
 
Arnaldo Momigliano si domanda “come mai Polibio abbia avuto così grande reputazione fin dal Rinascimento come interprete dello Stato romano e teorico della costituzione mista.
La risposta è che quanto Polibio scriveva sulla costituzione mista (corrispondesse o no alle realtà romane) serviva ai bisogni dello Stato moderno. E’ lo Stato assolutistico moderno, con il suo problema di bilancia dei poteri tra i vari organi costituzionali e con il suo altro problema del dove risieda la sovranità, che diede autorità a Polibio. Per di più Polibio combinava le doti di un teorico politico con quelle di un maestro dell’arte militare , e ciò di nuovo fu essenziale per la sua reputazione in un tempo in cui la formazione di ufficiali educati per eserciti professionali diventò una esigenza di prima importanza”[83].
 
Che cosa c’entra la costituzione mista che ha una componente democratica con “lo Stato assolutistico moderno” ?
Vediamo nel testo di Polibio il limite assegnato da questo autore alla democrazia: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (VI, 4 - 6), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua lo storiografo, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia.
Il fatto che Polibio più avanti scriva (IX, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.
Aristotele nella Politica (1292a) scrive che dove non comandano le leggi non c’è costituzione: o{pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva.
Nella Costituzione degli Ateniesi (41) Aristotele passa in rassegna 11 regimi succeduti in Atene. Biasima la riforma di Efialte che ridusse i poteri dell’Areopago. Da allora i governi commisero più errori a causa dei demagoghi. Dopo la tirannide dei Trenta, il popolo della restaurata democrazia si è reso padrone assoluto di ogni cosa.
La democrazia diventa spesso prepotenza dei non abbienti. Aristofane nelle Vespe presenta tale kravto~ del dh`mo~ in veste comica.
 
 Anche Cicerone biasima questo potere eccessivo: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep., 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
Si tenga conto che in gran parte della storiografia classica è presente un pregiudizio antipopolare che ne limita l'obiettività. I promotori della lotta di classe sono spesso giudicati con formule moralistiche al servizio di una tendenza conservatrice.
“Lo storico tendeva normalmente ad appoggiare, o almeno a presupporre come validi, quegli aspetti della società intorno ai quali la maggioranza dei Greci e dei Romani in età pagana tendeva ad essere conservatrice: pratiche religiose, vita familiare, proprietà privata”[84].
 
 
 
Un’altra considerazione: a Roma poche famiglie potevano concorrere al potere che in alcune stirpi si tramandavano di generazione in generazione ed era molto difficile per un homo novus ascendere alle più alte cariche.
 
La casta
Sentiamo Orwell: “ A ruling group is a ruling group so long as it can nominate its successors”, una classe dirigente continua ad essere tale soltanto fino a quando è in grado di nominare i propri successori”[85].
 
A proposito del passaggio dalla democrazia all’ oclocrazia, ossia dal potere del popolo a quello della feccia cito Luciano Canfora:"E' un genere di distinzione caratteristico del pensiero antidemocratico nella sua forma più evoluta. Altrimenti vi è il mero rifiuto del regime dei "molti", in quanto di certo "ignari", incapaci di pienamente intendere: è la veduta di Megabizo nel dibattito costituzionale erodoteo, nonché dello pseudo - Senofonte)".
 
Megabizo è il nobile persiano che vuole l'oligarchia poiché, dice, non c'è nulla di più stupido e insolente di una moltitudine buona a nulla che non ha neppure la capacità di discernimento ("tw'/ de; oujde; ginovskein e[ni", III, 81, 2) siccome non ha imparato da altri né conosce da sé niente di buono.
Un pensiero che troviamo anche nel dramma Un nemico del popolo di Ibsen dove
il dottor Stockmann dice:"La maggioranza non ha mai ragione. Mai, ho detto. Da chi è costituita la maggioranza degli abitanti di un paese? Dalle persone intelligenti, o dagli imbecilli? Saremo tutti d'accordo, credo, nell'affermare che sulla faccia della terra gli imbecilli costituiscono l'enorme maggioranza. Ma non per questo è giusto che gli imbecilli debbano comandare sugli intelligenti!...La maggioranza ha il potere, purtroppo, ma non ha ragione. Io, e pochi altri, abbiamo ragione. Le minoranze hanno ragione...Tutte le verità maggioritarie possono venir paragonate alle conserve dell'anno scorso, a dei prosciutti rancidi[86]".
 
 Ma torniamo a Canfora :"Non a caso l'immagine che, sulla scia delle sue fonti, Polibio propone della forma "non degenerata" di democrazia è in realtà la negazione di quello che nel tardo V secolo a. C. appariva il cardine del regime democratico: il riconoscimento cioè del valore sovrano della volontà popolare (to;n dh'mon pravttein o{ a}n bouvlhtai).
"Che il demo possa fare ciò che desidera" è ad esempio, al tempo del processo popolare contro i generali vincitori alle Arginuse, la parola d'ordine con cui vengono liquidate le eccezioni di illegalità contro la procedura adottata (Elleniche , I, 7, 12); ed è appunto la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione della democrazia (VI, 4, 4:"Quando il popolo è padrone di fare quello che vuole"). Alla sovranità popolare ed alla volontà popolare come unica fonte della sovranità e dell'autorità, Polibio oppone - quando tratteggia la "buona" democrazia - la sovranità della legge : è democrazia - osserva - quel regime nel quale, fermi restando l'indiscussa autorità delle leggi e l'impegno a rispettarle, le decisioni vengono prese in base al principio maggioritario (VI, 4, 5), un regime cioè nel quale il prevalere della volontà della maggioranza non pone comunque in discussione, né può intaccare, le leggi esistenti. Vi è insomma "buona" democrazia - secondo Polibio - quando tra volontà popolare e legge (magari preesistente all'affermarsi del regime democratico) prevale la legge"[87].
 
La costituzione romana dunque è la migliore per la collaborazione, il controllo, e la limitazione che i poteri possono esercitare reciprocamente, tuttavia è soggetta al decadimento fisiologico di tutte le altre. Infatti tutti gli esseri sono soggetti alla corruzione e al mutamento ("pa'si toi'" ou\sin uJpovkeitai fqora; kaiv metabolhv", VI, 57, 1) e le costituzioni si corrompono per cause esterne ed interne.
Polibio assisté, tra l'altro alla distruzione di Cartagine, nella primavera del 146, e al pianto del suo amico Scipione Emiliano il vincitore che, citando due versi dell'Iliade [88] con i quali Ettore prevede la caduta di Troia, e riflettendo sul rapido destino delle cose umane, pronunciò il nome della sua patria per la quale temeva.
 
L’ ajnakuvklwsi" di Polibio (VI, 9, 10), riappare nell’orbis di Tacito [89] , nel "cerchio" di Machiavelli[90] e nell'"eterno ritorno" di Nietzsche[91].
 Leopardi lo chiama "circuito" mutuandolo dal circuitus di Cicerone[92]
 
Per concludere leggiamo alcune parole dello Zibaldone: “Del resto s'egli è proprio carattere sì della società primitiva come della più corrotta l'essere ambedue per natura monarchiche di governo, non è questo il solo capo in cui si veda che le cose umane ritornano dopo lungo circuito e dopo diversissimo errore ai loro principii, e giunte (come or pare che siano) al termine di lor carriera, o tanto più quanto a questo termine più s'avvicinano, si trovano di nuovo in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo luogo, stato ed essere che nel cominciar d'essa carriera" (3517 - 3518).
 
 
 
Ovidio e il cultus
La cura dell’aspetto, parte non insignificante dell’identità
Il cultus può potenziare l’identità ma può anche mistificarla
 
 Premessa: Platone considera il trucco non un'arte, ma una prassi irrazionale, la forma di adulazione che sta sotto (uJpovkeitai), si sostituisce, alla ginnastica, per quanto riguarda la cura del corpo, come la culinaria è subordinata alla medicina.
La cosmesi ("hJ kommwtikhv") dunque è "kakou'rgov" te kai; ajpathlh; kai; ajgennh;" kai; ajneleuvqero""(Gorgia[93], 465b), malvagia e fallace, ignobile e servile, poiché inganna attraverso l'apparenza, i colori, la levigatezza e i vestiti, in modo da indurre a trascurare la bellezza naturale che si ottiene con la ginnastica, mentre con i cosmetici ci appiccichiamo una speciosità esterna.
 
C'è del resto anche un punto di vista favorevole al trucco , ed è quello di Ovidio.
 Il poeta peligno legittima i cosmetici per le donne con un poemetto ad essi dedicato poiché "culta placent "(Medicamina faciei femineae[94], v. 7) , ciò che è curato piace.
 
Nell'Ars Amatoria[95] Ovidio afferma che è proprio l'eleganza a fargli preferire l'età moderna all'antica, presunta aurea:"prisca iuvent alios, ego me nunc denique natum/gratulor: haec aetas moribus apta meis" (III, 121 - 122), i tempi antichi piacciano ad altri, io mi rallegro di essere nato ora, dopo tutto: questa è l'età adatta ai miei gusti, non perché, continua il Sulmonese, terre mari e monti sono stati domati dall'uomo,"sed quia cultus adest nec nostros mansit in annos/rusticitas priscis illa superstes avis " Ars, III, 127 - 128), ma perché c'è eleganza e non è rimasta fino ai nostri anni quella rozzezza sopravvissuta agli avi antichi.
 Un cultus che include la coltura del corpo e dello spirito.
I gusti di Ovidio sono condivisi da gran parte dei Romani, al di là della propaganda del regime augusteo che voleva ripristinare gli antiqui mores.
"Benché venisse da Sulmona, infatti, nessun altro poeta della generazione augustea ha rappresentato meglio di lui lo spirito della città. Da tempo a Roma la società ricca aveva sviluppato il gusto per la cultura elegante, per l'ironia, per la raffinata trasgressione - in una parola, per quel complesso di atteggiamenti che in latino venivano indicati proprio con il nome di urbanitas, parola che designa il "carattere cittadino" e la "raffinatezza ironica" nello stesso tempo"[96].
 
"Ordior a cultu[97]. Così Ovidio inizia, dopo il lungo proemio, la precettistica riservata alle donne nel terzo libro dell'Ars .
 
Cultus , riferito come qui alla vita della donna, indica più o meno la "cura della persona" e quindi la "raffinatezza"[98].
 
Il cultus rende le donne più attraenti e seduttive ed è una di quelle parole che possono prendere significati differenti, dando luogo a comportamenti contrastanti. Secondo le esigenze.
 Qualora ci si voglia liberare dai lacci delle donne e trovare rimedi all'amore converrà vederle al naturale arrivando all'improvviso di mattina:"Auferimur cultu: gemmis auroque teguntur/omnia; pars minima est ipsa puella sui " (Remedia Amoris vv. 343 - 344), siamo sedotti dall'acconciatura: tutti i difetti sono coperti dalle gemme e dall'oro; la donna in sé, è una parte minima di sé. - ipsa puella : con questo stilema platonico[99] applicato all'amore Ovidio intende distinguere non tanto l'anima della donna dal suo corpo, quanto il suo vero aspetto da tutto l'apparato esteriore. Qui il cultus , come la cosmesi in Gorgia 465b, è una forma di adulazione e di inganno.
 Infatti, prosegue Ovidio, "Saepe, ubi sit quod ames, inter tam multa, requiras:/decipit hac oculos aegide dives Amor " (vv. 345 - 346), spesso tra tante contraffazioni uno può chiedersi dove sia ciò che ama: Amore arricchito con questo scudo inganna gli occhi. - tam multa : sono gli orpelli dell'apparato esterno e della cosmesi che inganna (decipit ). Platone nel luogo citato sopra la definisce ajpathlhv, ingannevole appunto.
Altrove Ovidio approva il cultus, ma nel contesto dei Remedia amoris è utile eliminarlo dalla donna per ridurla ai suoi termini.
Cultus dunque è una di quelle parole chiave cariche di significati anche contrastanti.
Un mezzo demistificatorio è quello di arrivare all'improvviso:"improvisus ades: deprendes tutus inermem;/ infelix vitiis excidet illa suis " (Remedia amoris, vv. 347 - 348), presentati inaspettato: tu, al sicuro, la sorprenderai disarmata; quella, disgraziata, cadrà per i suoi difetti.
Lucrezio aveva già suggerito questa tattica agli uomini infelicemente innamorati nel IV libro del De rerum natura.
Se vogliamo liberarci da una donna che ci fa soffrire dunque sorprendiamola ridotta ai minimi termini; se invece vogliamo conquistarla, aduliamola, se desideriamo essere conquistati ammiriamola nella sua veste migliore che comprende il cultus.
 
Il cultus comunque caratterizza positivamente i tempi moderni
"La trattazione del libro dedicato alle donne", il terzo, "incomincia, dopo il lungo proemio, con una specie di inno al cultus (Ars III 101 - 128). Il passo è celebre...Senza cultus non avremmo i frutti della terra, il vino e le messi. La forma , la bellezza, è dono divino; è il cultus che dà la bellezza anche a chi non l'ha. Si obietta che le donne dei tempi antichissimi non ricorsero al cultus: è perché i mariti, duri soldati, erano rozzi, senza gusto. La rudis simplicitas caratterizzò la Roma arcaica; ma nunc aurea Roma est (v. 113), e alla splendida Roma di oggi, coi suoi superbi edifici, corrisponde meglio il cultus. " [100], Ovidio è il primo scrittore latino che osa negare apertamente il mito del buon tempo antico per affermare la superiorità della Roma moderna.
 E' un ribaltamento del mito dell'età dell'oro: il presunto "paese guasto" è più piacevole e gradito del "mondo casto"[101].
Anche all'inizio dei Medicamina faciei Ovidio proclama:"culta placent " (v. 7), piace ciò che è curato: i palazzi, la terra, la lana, le donne.
 
Il cultus deve comunque coniugarsi con il buon gusto, cioè evitare lo sfarzo
Vesti sfacciatamente lussuose vengono sconsigliate alle donne eleganti (Ars III 169 sgg.): Quid de veste loquar? Nec nunc segmenta requiro/nec quae de Tyrio murice, lana, rubes./Cum tot prodierint pretio leviore colores,/ quis furor est census corpore ferre suos? " , che devo dire della veste? Io non chiedo le frange d'oro, né te, lana, che rosseggi per la porpora di Tiro. Dal momento che sono venuti fuori tanti colori a prezzo più basso, che pazzia è portare sul corpo il proprio patrimonio?
Si può aggiungere: l'esibizione che puzza di soldi è il furor tipico del liberto arricchito scandalosamente, come Trimalchione, il " signore tre volte potente" il quale viene descritto al suo ingresso nella sala del banchetto con indosso un pallio scarlatto e un fazzoletto orlato di rosso, da senatore, intorno al collo con frange pendenti da una parte e dall'altra.
 
Il lusso esibito dal cafone
"Habebat etiam in minimo digito sinistrae manus anulum grandem subauratum " (Satyricon , 32), inoltre portava al mignolo della mano sinistra un grosso anello indorato, da cavaliere; nell'ultima falange del dito seguente un altro anello tutto d'oro ma cosparso come da stelline di ferro "et ne has ostenderet tantum divitias, dextrum nudavit lacertum armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente conexo ", e per non mettere in mostra soltanto queste ricchezze, denudò il braccio destro ornato da un braccialetto d'oro e da un cerchio d'avorio intrecciato con una lamina brillante, "deinde pinna argentea dentes perfōdit " (33), quindi si stuzzicò i denti con una stecca d'argento.
 
Né lusso dunque né rusticitas
"E' in Ovidio che troviamo l'irrisione aperta della rusticitas , è Ovidio che della negazione della rusticitas fa un aspetto essenziale del suo mondo galante. In alcuni casi egli ci presenta la negazione in modo ambiguo", attribuendola a personaggi poco attendibili. "Per esempio, una contrapposizione fra le formosae audaci di oggi e le sporche sabine delle origini di Roma è elaborata da una lena[102] nel suo discorso esortativo (Amores I 8. 39 sgg.):"Forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae/noluerint habiles pluribus esse viris;/nunc Mars externis animos exercet in armis,/at Venus Aeneae regnat in urbe sui./Ludunt formosae: casta est quam nemo rogavit;/aut si rusticitas non vetat, ipsa rogat "[103], forse le sporche Sabine sotto il regno di Tazio non avranno voluto essere disponibili per più uomini; ora Marte tiene occupati gli animi in guerre straniere, ma è Venere che regna nella città del suo Enea. Le belle si divertono: è casta quella cui nessuno ha fatto proposte; oppure se non lo impedisce la selvatichezza, è lei che fa le proposte.
 
E ovviamente non sono sempre proposte decenti.
Seneca, notando la diffusione dell'adulterio nel De Beneficiis [104] , ripropone l'idea contenuta in casta est quam nemo rogavit con altre parole sarcastiche e sdegnate:"Argumentum est deformitatis pudicitia" (III, 16, 3), la pudicizia è indizio di bruttezza. La pudicizia rende manifesta (arguit) la deformità.
"Altrove - continua La Penna - negli Amores è la stessa impostazione di giuoco sofistico che toglie aggressività all'irrisione della rusticitas: cito, per esempio, un passo di III 4 (37 sgg.), l'elegia dove si vuole dimostrare che è meglio lasciare le puellae senza sorveglianza: Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx ,/et notos mores non satis Urbis habet,/in qua Martigenae non sunt sine crimine nati,/Romulus Iliades Iliadesque Remus " (p. 186).
Aggiungo la traduzione e un poco di commento.
 E' davvero rozzo quello che una moglie adultera offende, e non conosce bene i costumi di Roma nella quale i figli di Marte non sono nati senza colpa, Romolo figlio di Ilia e il figlio di Ilia Remo.
 Insomma il marito che, tradito, si adonta, è un ignorante integrale.
 “D’altra parte il Marito ahi quanto spiace!
E lo stomaco move ai dilicati
Del vostr’orbe leggiadro abitatori,
qualor de’ semplicetti avoli nostri
portar osa in ridicolo trionfo
la rimbambita Fe’, la Pudicizia
Severi nomi!” (Parini)
"Per Ovidio Roma non è la regina delle città che detta legge al genere umano: è invece principalmente la città dell'amore. Tutto invita ad amare: strade, piazze, portici offrono mille bellezze giunte dai quattro punti cardinali per conquistare i loro vincitori…Persino l'antico Foro diventa luogo di appuntamenti e tende trappole ai giureconsulti:"et fora conveniunt - quis credere possit - amori"[105]"[106].
Ma il luogo più indicato per corteggiare le belle donne è il teatro.
Le donne più raffinate si precipitano agli spettacoli ben frequentati:"Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae/; ille locus casti damna pudoris habet" (Ars, I, vv. 99 - 100), vengono per osservare, vengono per essere loro stesse osservate; quel luogo contiene perdite del casto pudore.
A questo proposito non posso tacere che c'è tutta una letteratua moralistica contro il teatro da Platone ai Puritani di Oliver Cromwell il Lord Protector (1653 - 1658) che fece chiudere i teatri.
Il buon teatro fa pensare e proprio per questo il popolo non riceve un’educazione teatrale né i drammi rappresentati sono alla portata di tutti
 
 
 
L’identità della decadenza
 
Nel capitolo precedente abbiamo visto il liberto Trimalchione che mette in mostra i suoi anelli, un simbolo dello stato sociale che ha raggiunto, da schiavo quale era.
"La storia degli anelli d'oro: il più interessante capitolo di storia del costume dell'epoca imperiale, particolarmente dell'epoca giulio - claudia (…) Claudio eredita da Caligola, ed affina e organizza, il predominio dei liberti imperiali nella corte. Ma dietro questi tre potentissimi liberti[107] c'è la grande massa di tutti i liberti, imperiali o non, in tutto l'impero. Sono una borghesia affaristica e prepotente. Affrontano talora i rischi della legge, pur di portare l' anulus aureus, gabellandosi per cavalieri. La pressione di questa borghesia significa soprattutto una cosa: l'intensificazione dell'economia monetaria (…) burocrazia (questa burocrazia dei liberti imperiali) significa economia monetaria, intensità di circolazione dei mezzi legali di pagamento. L'economia naturale delle grosse domus senatorie è colpita a morte"[108].
 
Gli anelli preziosi sfoggiati dai servi sono uno dei motivi che spingono Giovenale a scrivere satire: “cum pars Niliacae plebis, cum verna Canopi/Crispinus Tyrias umero revocante lacernas[109]/ventilet aestivum digitis sudantibus aurum/nec sufferre queat maioris pondera gemmae,/difficile est saturam non scribere” (Satira I, 26 - 30), quando un pezzo della plebe del Nilo, quando una canaglia di Canopo, Crispino, mentre si tira sulle spalle il mantello di porpora di Tiro, sventola l’anello d’oro estivo con le dita sudate né potrebbe sopportare il peso di una gemma più grande, è difficile non scrivere satire!
 
Veniamo allo sfoggio di proprietà difficili da misurare e perfino da conoscere.
Sentiamo di nuovo Trimalchione quando vanta i suoi latifondi smisurati :"deorum beneficio non emo, sed nunc quicquid ad salivam facit, in suburbano nascitur eo, quod ego adhuc non novi. dicitur confine esse Tarraciniensibus et Tarentinis. nunc coniungere agellis Siciliam volo, ut cum Africam libuerit ire, per meos fines navigem" (48, 2), grazie a dio non compro niente, ma ora tutto quanto fa venire l'acquolina in bocca nasce in quel podere vicino alla città che io ancora non conosco. Si dice che fa da confine con le terre di Terracina e quelle di Taranto. Ora con dei campicelli voglio unire la Sicilia, in modo che, quando mi andrà di recarmi in Africa, possa navigare lungo le mie terre..
 
La tendenza al latifondo, che Augusto cercò di contrastare senza riuscirvi, rovinò l'agricoltura italica:" latifundia perdidere Italiam" scrive Plinio il Vecchio[110].
 
Risibili sfoggi di cultura
Segue un altro sfoggio, quello di presunta e fantasiosa cultura letteraria, che Trimalchione indirizza al retore Agamennone:"ego autem si causas non ago, in domusionem tamen litteras didici. et ne me putes studia fastiditum, tres bybliothecas habeo, unam Graecam, alteram Latinam. dic ergo, si me amas, peristasim declamationis tuae".
Cum dixisset Agamemnon:"pauper et dives inimici erant", ait Trimalchio:"quid est pauper?"
 "Urbane" inquit Agamemnon, et nescio quam controversiam exposuit. Statim Trimalchio: "hoc" inquit "si factum est, controversia non est; si factum non est, nihil est".
Haec aliaque cum effusissimis prosequeremur laudationibus:"rogo" inquit "Agamemnon mihi carissime, numquid duodecim aerumnas Herculis tenes, aut de Ulixe fabulam, quemadmodum illi Cyclops pollicem poricino extorsit? solebam haec puer apud Homerum legere. nam Sybillam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: "Sivbulla tiv qevlei" ;" respondebat illa: " jApoqanei'n qevlw" (48, 4 - 8), « io anche se non tratto cause, tuttavia ho studiato le lettere per uso della casa. E perché tu non pensi che sia schifato degli studi, ho tre biblioteche, una greca, l'altra latina. Dimmi allora, per piacere, il tema della tua declamazione”.
Avendo detto Agamennone: “un povero e un ricco erano nemici” , Timalchione fece: “che cosa è un povero?”
 “Bravo” disse Agamennone ed espose non so quale controversia.
E subito Trimalchione: “questo se è un fatto, non è una controversia; se non è un fatto, non è niente”.
Mentre accompagnavamo con sperticatissimi elogi queste e altre battute, Trimalchione disse: “ti prego, Agamennone mio carissimo, ti ricordi le dodici fatiche di Ercole, o la storia di Ulisse, come il Ciclope gli storse il pollice con la tenaglia? Io ero solito da ragazzo leggere questo e altro in Omero. Infatti la Sibilla di sicuro a Cuma l'ho vista io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i fanciulli:'Sibilla, cosa vuoi?' rispondeva lei.'morire voglio' “.
In un mondo dalla cultura così degradata i profeti vogliono morire.
 
La siccità dal Satyricon a The waste land di T. S. Eliot
Le parole di Trimalchione sul desiderio di morte della profetessa sono da associare a queste che le precedono, ponunciate da Ganimede, un altro liberto: "ego puto omnia illa a diibus fieri. nemo enim caelum caelum putat, nemo ieiunium servat, nemo Iovem pili facit, sed omnes opertis oculis bona sua computant. antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris, et Iovem aquam exorabant. itaque statim urceatim plovebat: aut tunc aut numquam: et omnes redibant udi tamquam mures. itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus, agri iacent…" (Satyricon, 44, 17 - 18), io credo che tutto questo derivi dagli dèi. Nessuno infatti considera il cielo cielo, nessuno rispetta il digiuno, nessuno stima un pelo Giove, ma tutti a occhi chiusi fanno il conto dei loro possessi. Prima le matrone in stola salivano a piedi nudi sul colle del Campidoglio, con i capelli sciolti, i cuori puri, e supplicavano Giove per l'acqua. E così subito pioveva a catinelle: o allora o mai più: e tutti tornavano bagnati come topi. ora gli dèi hanno i piedi felpati. Poiché non abbiamo religione, i campi sono abbandonati.
 
Per quanto concerne il nesso tra siccitò ed empietà, nel quotidiano “la Repubblica” del 22 giugno scorso leggevo questo titolo: “Finita l’acqua per i campi. La preghiera per la pioggia del vescovo di Milano” (pagina 14)
 
Sentiamo anche T. S. Eliot:
“Here is no water but only rock
Rock and no water and the sandy road
The road winding above among the mountains
Which are mountains of rock without water
If there where water we should stop and drink
Amongst the rock one cannot stop and think
Sweat is dry and feet are in the sand
If there were only water amongst the rock
Dead mountain mouth of carious teeth that cannot spit
Here one can neither stand nor lie or sit
There is not even silence in the mountains
But dry sterile thunder without rain
There is non even solitude in the mountains
But red sullen faces sneer and snarl
From doors of mudcracked houses
If there where water
And no rock
If there were rock
And also water
And water
A spring
A pool among the rock
If there were the sound of water only
Not the cicada
And dry grass singing
But sound of water over a rock
Where the hermit - thrush sing in the pine trees
Drip drop drip drop drop drop drop drop
But ther is no water
(The Waste Land, What the thunder said, 331, 358)
Traduzione
Qui non c’è acqua ma soltanto roccia
Roccia e non acqua e la strada di sabbia
La strada serpeggiante lassù tra le montagne
Che sono montagne di roccia senza acqua
Se ci fosse acqua ci fermeremmo a bere
Fra la roccia non ci si può fermare né pensare
Il sudore è secco e i piedi nella sabbia
Vi fosse almeno acqua tra la roccia
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare,
qui non si può stare in piedi né ci si può sedere
non c’è neppure silenzio nelle montagne
ma secco sterile tuono senza pioggia
Non c’è neppure solitudine nelle montagne
Ma rosse facce accigliate sogghignano e ringhiano
Da porte di case di fango screpolato
 
E niente roccia
Se ci fosse roccia
 E anche acqua
E acqua
Una sorgente
Una pozza tra la roccia
Se ci fosse il suono di acqua almeno
Non la cicala
E l’erba secca che canta
Ma suono d’acqua sopra una roccia
Dove il tordo eremita canta nei pini
Drip drop drip drop drop drop drop
Ma non c’è acqua
 
L’assenza di acqua è una caratteristica della terra desolata.
Nell’ Oedipus di Seneca il protagonista eponimo, entrato in scena, sottolinea l'aridità, la siccità e lo scolorimento della terra tebana volendo significare sterilità e morte:"Deseruit amnes humor atque herbas color,/aretque Dirces; tenuis Ismēnos fluit,/et tingit inǒpi nuda vix undā vada "( vv.41 - 43), l'acqua ha lasciato i fiumi e il colore le erbe, è disseccata Dirce; l'Ismeno scorre vuoto, e con la povera onda bagna a stento i guadi nudi.
 
Le parole relative alla Sibilla sono comunque molto belle. Non per niente T. S. Eliot le ha proposte come epigrafe al suo poema del 1922 The Waste Land.
Il modello odissiaco degradato è ricorrente nel Satyricon che in questo senso anticipa l'Ulisse di Joyce dove "la vita moderna appare come una degradata ripetizione circolare dell'archetipo"[111].
 La presenza dell' Odissea nella letteratura europea è continua. Il poema omerico rimane uno di quei grandi modelli archetipici che nessuna innovazione può ignorare. Omero è uno di quei giganti sulle cui spalle sono saliti in tanti; Petronio è uno di questi osservatori dall'alto sebbene sicuramente non un nano.
 
Il Satyricon delinea anche l’identità parassitaria diffusa largamente in una civiltà moribonda. Lo stesso Trimalchione ha iniziato la propria “carriera” facendo i comodi della sua padrona :"Scintilla, noli zelotypa esse. crede mihi, et vos novimus. sic me salvum habeatis, ut ego solebam ipsumam meam debattuere, ut etiam dominus suspicaretur et ideo me in vilicationem relegavit " (69, 3), Scintilla non essere gelosa. Credimi, conosciamo anche voi. Mi venga un colpo se non ero solito sbattermi proprio la mia padrona, al punto che anche il padrone sospettava e per questo mi confinò in campagna.
 - zelotypa è un grecismo, traslittera zhlovtupo" , e fa parte del sermo plebeius dei liberti arricchiti. Come ora l’acronimo inglese sfoggiato da chi non conosce questa lingua, né altre
Scintilla è la moglie di Abinna, il lapidarius incaricato del monumento funebre di Trimalchione.
Il tema della morte è ubiquo in questo romanzo.
 
 
 
L'dentità di una civiltà morente
 
Viene meno il cultus minimus: lavarsi, e anche l'identitità umana diventa minima: inferiore a quella delle mosche.
Sparisce il "so bene di essere uomo" di Sofocle, l' homo sum di Terenzio. L' homo lupus di Plauto è oramai minor quam musca.
 
Durante la chiacchierata dei liberti, Seleuco esordisce con un'affermazione contraria alla forma di cultus minima che è il lavarsi:"ego - inquit - non cotidie lavor; baliscus enim fullo est, aqua dentes habet, et cor nostrum cotidie liquescit" (42), io, disse, non faccio il bagno tutti i giorni; infatti il bagno è un lavandaio, l'acqua ha i denti, e il nostro cuore si liquefa ogni giorno. Potrebbe essere una posa di origine cinico - socratica[112]: infatti questo liberto procede con qualche velleità filosofica tornando sul tema della vanitas ispirato da un funerale dal quale è appena tornato:" heu, eheu. utres inflati ambulamus. minoris quam muscae sumus, <muscae> tamen aliquam virtutem habent, nos non pluris sumus quam bullae" (Satyricon, 42, 4), ahi ahi, giriamo come otri gonfiati. siamo meno delle mosche; le mosche almeno qualche capacità ce l'hanno, noi non siamo più che bolle.
 
La virtus delle mosche sembra anticipare il cavallo geniale che "matura in Ulrich la convinzione di essere un uomo senza qualità". Il protagonista del romanzo di Musil "Con meravigliosa acutezza vedeva in sé - ad eccezione del saper guadagnare denaro, che non gli occorreva - tutte le capacità e qualità che il suo tempo apprezzava di più, ma aveva perduto la capacità di applicarle; e poiché in fin dei conti, se ormai anche i giocatori di calcio e i cavalli hanno genio, soltanto l'uso che se ne fa può ancora salvarne il carattere particolare, decise di prendersi un anno di vacanza dalla vita per cercare un uso appropriato delle sue capacità"[113].
Anche questo romanzo di Musil dipinge la fine di una civiltà: la finis Austriae.
Noi oggi stiamo naufragando in un oceano di ignoranza, di volgarità di menzogne.
 
Sentiamo Huysmans:
“L'autore che amava davvero, che gli faceva bandire per sempre dalle sue letture le roboanti tirate di Lucano, era Petronio. Ecco finalmente un acuto osservatore, un fine analista, un pittore meraviglioso (….) Questo romanzo verista, questa fetta di vita romana tagliata nel vivo, che non si preoccupa, checché si dica, né di riformare né di satireggiare i costumi; che fa a meno d'una conclusione e d'una morale; questa storia senza intreccio, dove non succede nulla, che mette in scena le avventure della selvaggina di Sodoma che analizza con imperturbabile acutezza gioie e dolori di codesti amori e di codeste coppie; che senza che l'autore faccia mai capolino, senza che si lasci andare a un solo commento, senza che approvi o maledica gli atti o i pensieri dei suoi personaggi, dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita, d'un impero che si va sfasciando - conquideva Des Essaintes, il quale nella raffinatezza dello stile, nell'acutezza dell'osservazione, nel fermo piglio con cui la narrazione veniva condotta, intravvedeva singolari parentele, curiose analogie con i pochi romanzi del tempo suo che non gli dispiacevano"[114].
 
La morte di “una civiltà decrepita” è ovunque nel Satyricon , e se vogliamo scegliere un’epigrafe significativa di quest’opera possiamo usare la frase che il poeta Eumolpo recita davanti al cadavere del monoftalmo, arcipirata Lica, morto annegato :"si bene calculum ponas, ubique naufragium est " (115, 17), se fai bene i conti, il naufragio è dappertutto.
 
L’ultima parte del Satyricon si svolge a Crotone una specie di anti - città dove si sono pervertiti i sancti mores e annullati i litterarum studia , come spiega un contadino ai tre sopraggiunti - Encolpio, Eumolpo e Gitone che osservano da un colle non lontano l' oppidum impositum arce sublimi (116, 1), posto sopra un' altura.
 Se siete capaci di mentire sistematicamente, dice il vilicus agli errantes, vi arricchirete: "in hac enim urbe non litterarum studia celebrantur, non eloquentia locum habet, non frugalitas sanctique mores laudibus ad fructum perveniunt, sed quoscumque homines in hac urbe videritis, scitote in duas partes esse divisos. nam aut captantur aut captant" (116, 6 - 7), infatti in questa città non vengono onorati gli studi letterari, l'eloquenza non ha posto, l'onestà e i pii costumi non fruttano elogi, ma tutti gli uomini che vedrete in questa città, sappiate che sono divisi in due categorie: o sono cacciati o danno la caccia.
Al contrario nessuno riconosce i figli "in hac urbe nemo liberos tollit, quia quisquis suos heredes habet, non ad cenas, non ad spectacula admittitur, sed omnibus prohibetur commodis, inter ignominiosos latitat. qui vero nec uxores umquam duxerunt nec proximas necessitudines habent, ad summos honores perveniunt, id est soli militares, soli fortissimi atque etiam innocentes habentur" (116, 7 - 8), poiché chiunque abbia i suoi eredi non viene invitato a cene, non a spettacoli, ma viene escluso da tutti i vantaggi e vive nascosto tra i malfamati. Quelli poi che non hanno mai preso moglie e non hanno parenti prossimi, raggiungono le cariche più alte, cioè solo loro sono considerati degli strateghi, solo loro fortissimi e irreprensibili.
 
Qui si vede il fallimento della legislazione augustea che cercava di penalizzare i celibi.
 
Il poeta Eumolpo è un libertino vecchio e incallito; si fa credere ricco e può invitare ad pygesiaca sacra, ai sacri riti delle natiche[115], la speciosissima filia affidatagli da una matrona di Crotone, inter primas honesta, di primissimo rango, una che da giovane aveva estorto personalmente multas hereditates, ma poi, divenuta anus et floris extincti, vecchia e appassita, portava i figli a compiacere i vecchi senza eredi et per hanc successionem artem suam perseverabat extendere, e attraverso questa successione continuava a sviluppare il suo mestiere (Satyricon 140).
 
L’ultima parte che ci è giunta di questo romanzo o satira menippea che sia, verte ancora sulla morte
 Nell'ultimo capitolo, tra gli excerpta conclusivi c'è il testamento di Eumolpo:"omnes qui in testamento meo legata habent praeter libertos meos hac condicione percipient quae dedi, si corpus meum in partes conciderint et astante populo comederint" (141, 2), tutti quelli che nel mio testamento hanno dei lasciti , ad eccezione dei miei liberti, riceveranno i beni che ho lasciato a questa condizione, a patto cioè che taglino a pezzi il mio corpo e lo mangino in presenza del popolo.
E poco dopo:"his admoneo amicos meos ne recusent quae iubeo, sed quibus animis devorarint spiritum meum, eisdem etiam corpus consumant" (141, 3), con questo raccomando ai miei amici di non rifiutare le mie volontà ma che con la stessa disposizione con cui mi hanno divorato l'anima mi consumino il corpo.
L'ultimo frammento ricorda esempi di cannibalismo nella storia, forse per persuadere Gorgia, l'heredipeta esitante, a inghiottire la carne del cadavere del vecchio Eumolpo:"quod si exemplis quoque vis probari consilium, Saguntini obsessi ab Hannibale humanas edere carnes nec hereditatem expectabant. Petelini idem fecerunt in ultima fame, nec quicquam aliud in hac epulatione captabant nisi tantum ut esurirent. cum esset Numantia a Scipione capta, inventae sunt matres quae liberorum suorum tenerent semesa in sinu corpora" (141, 9 - 11), che se tu vuoi che il mio progetto sia avvalorato da esempi, ti ricordo che i Saguntini assediati da Annibale mangiavano carne umana e nemmeno si aspettavano un'eredità. Lo stesso fecero i Petelini ridotti alla fame estrema, e in questo banchetto non andavano a caccia di altro che di non morire di fame. Quando Numanzia fu presa da Scipione , si trovarono madri che tenevano in seno corpi mezzi rosicchiati dei propri figlioli.
Questo esempio tripartito (Sagunto, Petelia e Numanzia) ci ricorda che la storia umana è un mattatoio dove si macellano esseri umani di ogni età.
 
 
 
La metamorfosi dell’identità: Apuleio. Prima parte
L’asino d’oro o Metamorfosi - di Apuleio (125 - 170)
 
In questo romanzo un ragazzo, Lucio, diventa un asino.
La vita da asino è vita senza religione. Si ricordi , quia nos religiosi non sumus, agri iacent…" del Satyricon (44, 18)
La vita consacrata a Iside invece è sacra alla conoscenza.
 
Sentiamo Plutarco in De Iside et Osiride. Il sacerdote delfico sostiene che la divinità - to; qei`on - non è beata per argento e oro ma ejpisthvmh/ kai; fronhvsei (351d) , per conoscenza e intelligenza.
Questa è l’identità di Dio.
Plutarco etimologizza il nome Iside con oi\da - so - ; più precisamente il tempio jIsei`on con il futuro ei[somai - saprò - poiché vi conosceremo to; o[n, l’essere 352).
Inoltre \Isin kalou`si para; to; i{esqai met j ejpisthvmh~ kai; fevresqai, kivnhsin ou\san e[myucon kai; frovnimon
 (375c) la chiamano Iside per il lanciarsi con sapere e da essere mosso in quanto ella consiste in un movimento animato e sapiente.
 
Lucio arriva a sognare Iside e torna uomo dopo avere preso su di sé la tragicità dell’esistere e avere raggiunto il culmine della disperazione.
 
Pinocchio di Collodi va nel paese dei balocchi “dove c’è un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato da doversi mettere il cotone negli orecchi per non restare assordati.
 Passavano le giornate in questa bella cuccagna di baloccarsi e divertirsi, senza mai vedere in faccia un libro, né una scuola”.
Ma poi i ragazzi si trasformano in somarelli.
 
Il tema di fondo delle Metamorfosi è come si diventa uomini. Il modello è Odisseo, ajnhvr il quale pollw`n d’ ajnqrwvpwn i[den a[stea kai; novon e[gnw (Odissea, I, 3). Ulisse è ricordato come affamato di conoscenza, curioso di conoscere. La curiosità consente di aprirsi all’alterità ed è una spinta all’individuazione.
L’innata curiosità di Lucio lo apparenta a Ulisse che non affonda mai. Ingenita mihi curiositate recreabar (Metamorfosi, 9, 13).
La curiositas è re - creatio, ridà vita.
 
H. Hesse Demian: "La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l'accenno di un sentiero. Nessun uomo è mai stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità (…) Certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l'uomo"[116].
Ancora De Iside et Osiride di Plutarco
Tifone è un demone cattivo: rossiccio e con pelle d’asino. Gli Egiziani di Copto, durante certe feste, maltrattano gli uomini dai capelli rossi e gettano un asino in un precipizio per il fatto che Tifone era rossiccio e aveva la pelle d’asino ( dia; to; purro;n gegonevnai Tufw`na kai; ojnwvdh th;n crovan, 362F).
 Gli abitanti di Busiride e di Licopoli, sempre in Egitto, non usano le trombe perché il loro suono ricorda il raglio dell’asino. Pensano che l’asino sia immondo e di essenza demoniaca ouj kaqaro;n ajlla; daimonikovn dia; th;n pro;~ ejkei`non oJmoiovthta per la sua somiglianza con Tifone.
Tifone è figlio di Gea e di Tartaro. Lancia rocce contro il cielo. E’ ucciso da Zeus e sepolto sotto l’Etna.
 L’asino paga il fio della somiglianza con Tifone dia; th;n ajmaqivan kai; th;n u{brin (363C) per l’ignoranza e la dismisura insensata non meno che per il pelo rossiccio.
Tifone rappresenta la brutalità, l’emotività incontrollata, tutto quanto in natura è smisurato e disordinato to; a[metron kai; a[takton (377), in eccesso e in difetto. Invece tutto quanto è ordinato (kekosmhmevnon) e buono (ajgaqovn) e giovevole (wjfevlimon) è opera di Iside e immagine di Osiride.
 Tifone rappresenta la parte dell’anima soggetta a passioni (to; paqhtikovn e l’a[logon e il titanikovn, 371B).
Tifone viene chiamato anche Seth e impersona ogni turbamento e turbolenza, mentale e corporea. Porta le cattive stagioni, le intemperie, le eclissi di luna, terremoti, tempeste. Seth significa ciò che tiranneggia e ciò che violenta.
Osiride invece presiede all’ordine mentale e naturale.
Tra gli animali domestici to; ajmaqevstaton, il più stupido, l’asino, lo assegnano a Tifone e tra le belve gli attribuiscono le più selvagge: krovkodeilon kai; to;n potavmion i{ppon (371C).
Insomma pavnta ta; fau`la kai; blabera; Tufw`no~ e[rga (371E). Tutto quanto è stupido e dannoso è opera di Tifone.
Tifone non ha ordine tavxi~,gevnesi~ generazione, né movimento dotato di misura e ragione kivnhsi~ mevtron e[cousa kai; lovgon (372). Perciò sono da disprezzare quelli che assegnano a Tifone la sfera del sole.
Plutarco confuta quelli che identificano il Sole con Tifone cui non si addice lamprovn, splendore, né capacità di salvare.
Il sole è piuttosto immagine di Osiride vestito con un colore di fiamma.
 
Platone nella Repubblica descrive gli inesperti di saggezza e virtù - oij fronhvsew~ kai; ajreth`~ a[peiroi. Costoro passano il tempo in banchetti e simili, sono tratti in basso –kavtw - ed errano tutta la vita senza mai guardare in alto - a[nw ou[te ajnevbleyan - , ma si rimpinzano, si accoppiano, ingrassano per l’avidità smodata, laktivzonte~ scalciando e cozzando tra loro con unghie e corni di ferro, fino ad ammazzarsi di j ajplhstivan per la loro insaziabilità, in quanto non possono riempirsi di vera realtà (586ab).
 
Nel Fedone, Socrate parla delle anime che non si sono liberate dall’elemento carnale, greve e terrigno. Quelli che praticarono gozzoviglie, dismisure e ubriacature, probabilmente si calano nelle razze dei somari (eij~ ta; tw`n o[nwn gevnh) e di altri animali del genere (82).
 Dante denuncia come vita bestiale quella di Vanni Fucci: è lo stesso brigante pistoiese che dichiara come tale la propria: “
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana” (Inferno, XXIV, 124 - 126)
Si trova tra i ladri :
“in giù son messo tanto perch’io fui
Ladro alla sagrestia de’ belli arredi” (137 - 138)
 
Nell’Asino d’oro , Iside chiama l’asino pessima mihique detestabilis belua iam dudum (XI, 6). Alla fine Lucio potrà uscire da quella pelle. Eppure è grato asino meo che lo ha reso multiscĭum, ricco di esperienze (9, 13). Queste lo hanno aiutato a capire. La condizione miserevole di questa bestia conduce a prestare attenzione alle altre miserie.
 
Apuleio vuole docere, ma sa che per questo è necessario anche delectare. L’io narrante dice di essere greco (attico, corinzio, spartano) e di avere imparato il latino che forse praticherà con qualche frase esotica o popolaresca.
 
Orazio : “aut prodesse volunt aut delectare poetae,/aut simul et iucunda et idonea dicere vitae” (Ars poetica, 333 - 334), i poeti vogliono o giovare o dilettare, e dire cose insieme piacevoli e appropriate alla vita.
 Inoltre il poeta di Venosa suggerisce la brevità (esto brevis, v. 335), la verosimiglianza e, di nuovo, l’unione di utilità e piacevolezza: “omne tulit punctum qui miscuit utile dulci,/lectorem delectando pariterque monendo” (343 - 344), ha preso punteggio pieno chi ha mescolato l’utile al piacevole, dilettando il lettore e nello stesso tempo, ammaestrandolo.
 
La varietà di espressione corrisponde alla sua desultoria scientia, scienza acrobatica (Prologo).
E’ un sapere mobile, non dogmatico.
Può essere la magia, la non fedeltà a un solo genere. Può alludere alla pratica amorosa del donnaiolo[117].
Quindi incipimus fabulam graecanicam. Poggia dunque sulla letteratura greca.
Abbiamo Lucio o l’asino di Luciano e c’era pure una Metamorfosi di Lucio di Patre.
Lector, intende: laetabĕris (1, 1). In questa laetitia c’è una componente ludica e pure una beatificante.
 
 
 
Lasino d’oro seconda parte
 
L’io narrante del romanzo di Apuleio, Lucio di Patre, andava in Tessaglia per affari (Thessaliam ex negozio petebam I, 2)
 La Tessaglia è la terra degli incantesimi, della magia, delle streghe già nella Pharsalia di Lucano.
Lucio quando vi giunge considerava ogni cosa con curiosità curiose singula coniderabam (II, 1). Il giovane diventa subito trasognato: tutto gli pare soggetto a incantesimo: ut et lapides quos offenderem de homine duratos crederem, tanto che pensavo che le pietre in cui inciampavo derivassero da uomini induriti, e che gli uccelli fossero uomini piumati.
Cfr. Ovidio che nel XV libro delle Metamorfosi dà voce a Pitagora il quale proibisce di mangiare gli animali: nella fortunata età dell'oro le bocche umane non erano contaminate dal sangue (v. 98). Inoltre il filosofo di Samo vieta di sacrificare creature viventi agli dèi, e insegna che l'anima non muore ma trasmigra in altri corpi e altre regioni: "Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago" (v. 178), tutto scorre e ogni immagine si forma fluttuando
Tutto è animato, tutto subisce metamorfosi.
 
Lucio gironzolava dappertutto cuncta circumibam (II, 2).
In questo circumire c’è l’idea del labirinto presente già nel Satyricon: “Quid faciamus homines miserrimi et novi generis labyrintho inclusi? (73). E’ l’io narrante Encolpio che pone la domanda.
 
Il cambio di identità dell’io narrante avviene quando Lucio origliando da una fessura di una porta vede Panfile, la padrona di casa, mutarsi in un gufo “Fit bubo Pamphile” (III, 21) dopo essersi cosparsa di un unguento. Lucio continua a provare quella incertezza della propria identità che la Tessaglia, la culla dell’arte magica, gli aveva infuso fin dal primo momento e chiede all’ancella Fotide, formā scitula et moribus ludĭcra et prorsus argutula [118] belloccia e scherzosa e piuttosto intelligente (II, 6) di dargli un poco di quell’unguedo.
Fotide teme che Lucio sparisca e lo chiama Vulpinarius amasio (III, 22). La priverebbe dell’ amore che lei sottratto con fatica alle lupe tessaliche - vix a lupulis thessalis - ma Lucio promette di tornare ad meum nidulum.
Dopotutto la ragazza decenter undabat (II, 7) ancheggiava in modo appropriato e Lucio aveva fatto l’amore molto bene con lei.
 
Cito alcune frasi per rilevare l’acume e la creatività di alcune metafore come questa marina che di solito si rferisce a una città travagliata –cfr. Sofocle, Edipo repovli~ gavr - a[gan h[dh saleuvei - 22 - 23) mentre Apuleio la applica a una giovane callipigia. Frontone consigliava di usare insperata atque inopinata verba.
 
Sicché Lucio promette di tornare dalla sua Fotide che poi gli renderà la forma umana. La ragazza gli fornisce l’unguento ma sbaglia barattolo e il giovane diventa un asino con tanto di coda, enormis facies, orecchie smisuratamente pelose e un grosso pene, senza però che potesse abbracciare Fotide.
L’asino è emblematico della sfacciataggine e della lussuria.
 
In Fedro I, 29, un asellus, demisso pene, dice al cinghiale: “simile si negas - tibi me esse, certe simile est hoc rostro tuo” questo coso di sicuro assomiglia al tuo grugno.
 
Dunque Lucio considera le parti del suo corpo e “non avem me sed asinum video” (III, 25). Quindi l’uomo imbestiato va incontro a una serie di disavventure che lo mettono a durissima prova
Il romanzo consta di undici libri. La parte centrale (da IV 28 a VI 24) è occupata dalla favola bella di Amore e Psiche.
Psiche è una ragazza che con la sua avvenenza suscita l’invidia e l’ira di Venere e pure l’amore di Cupido. Dovrà anche lei superare quattro difficilissime prove per salvarsi e vivere nella propria identità cioè con il suo amore.
Nel momento di massima difficoltà Cupido dopo una dolorosa scottatura si è ritirato su un monte mentre sua madre Venere si era immersa nell’Oceano. Un gabbiano, bianchissimo uccello - avis peralba gavia - si reca da Venere e le riferisce quanto dicono le genti a proposito dell’appartarsi dal mondo delle due divinità che presiedono all’amore : “ per hoc non voluptas, non gratia, non lepos, sed incompta et agrestia et horrida cuncta; non nuptiae coniugales, non amicitiae sociales, non liberum caritates, sed enormis eluvies, et squalentium foederum insuāve fastidium (5, 28), per questo non c’è più voluttà, non fascino, non piacevolezza, ma tutto è rozzo, e selvatico e volgare, non ci sono più unioni coniugali, non amicizie che associano, non affetti filiali, ma un enorme inondazione di sporcizia e uno sgradevole fastidio di rapporti squallidi.
La verbosa et satis curiosa avis borbottava queste parole.
Mi sembra che siano adatte a descrivere gli attuali rapporti umani.
 
La conquista dell’amore e della propria identità richiede il superamento di prove molto difficili
 
Venere depreca le impares nuptiae tra Psiche e Cupido: queste non possono essere legittime.
Quindi la dea impone a Psiche quattro prove
Mettere ordine in una congerie di semi ( verrà aiutata da una formica)
Tosare le pecore dal vello d’oro (canna)
Raccogliere l’acqua dello Stige (l’aquila)
Discesa agli Inferi (torre).
La prima prova dunque è quella di mettere ordine in una confusa congerie di semi. Discerne seminum istorum passivam congeriem (6, 10). Le si chiede la capacità di discernimento. Un mucchio caotico di semi può significare la confusione interna. Viene aiutata da una formicula ruricola che ne chiama altre.
Psiche comincia a entrare nella dimensione iniziatica poiché la mystica vannus Iacchi (Georgica I, 166), il mistico vaglio di Iacco è connesso ai misteri di Eleusi e distingue il grano dalla pula. Nella processione dell’ultimo libro (11, 10) un sacerdote regge un’aurea vannus.
La formica è un animale molto ben reputato: è il simbolo quorum virtus exhĭbet solidum decus” (Fedro, XXIV, Formica et musca) mentre la mosca di quelli che se falsis ornant laudibus.
 
Seconda prova: tosare le pecore dal vello d’oro (6, 11). Viene aiutata da una arundo viridis, una canna verde, la sua voce interiore che le insegna ad aspettare, a raggirare la matta bestialità delle pecore. L’arundo simplex et humana salutem docebat (6, 13). Le consiglia di prendere tempo, come suggerisce Seneca di fronte all’ira. Dandum est tempus: veritatem dies aperit (De ira 2, 22). Maximum remedium irae mora est (2, 29).
 La canna è flessibile ma non rinuncia alla sua forma.
 
Terza prova: la ragazza deve raccogliere l’acqua stigia. Viene aiutata da un’aquila che rappresenta l’elevazione del pensiero. L’aquila raccoglie l’acqua con un’ampollina.
 
Quarta prova: la discesa agli Inferi con una fiala per Proserpina. Dovrà metterci un poco della sua bellezza. Prove sempre più difficili ma il difficile aiuta la crescita. Eraclito: “eja;n mh; e[lphtai ajnevlpiston oujk ejxeurhvsei, se non spera l’insperato, non troverà (65 Diano).
Psiche in un primo momento dispera e sale su una torre per gettarsi giù ma la Torre stessa le dà dei consigli indicandole il cammino. La Torre può significare introversione o elevazione.
Nelle Rane di Aristofane, Eracle consiglia a Dioniso, che vuole scendere all’Ade per prendere Euripide, di salire sulla torre più alta del Ceramico e poi kavtw, di buttarsi giù (130).
La torre dunque suggerisce a Psiche di andare al Tenaro e di entrare nello spiraglio di Dite con 2 focacce e 2 monetine. Non dovrà aiutare un asinaio zoppo che conduce un claudum asinum. Presto giungerà allo Stige. Darà una monetina a Caronte lo squallido vecchio, ma non prenderai le putride mani tese verso di te. Sarebbe una inlicita pietas. Dante Inf. XX, 28 - 30. “Qui vive la pietà quand’è ben morta/chi è più scellerato che colui/ che al giudicio divin passion porta?”. Bolgia degli indovini VII, 4 Tiresia e Manto.
Pietà inquietante: Deianira prova un deino;~ oi\kto~ per Iole (Trachinie, 298).
Attraversato lo Stige, P. dovrà lanciare un’ offula a Cerbero, quindi arriverà da Proserpina la quale le offrirà un prandium opĭpare sontuoso (opes e paro). Ma P. deve sedersi per terra e mangiare solo panem sordidum (6, 19).
 
E’ il tabù del pranzo con i morti: Inno omerico A Demetra e Don Giovanni di Mozart - Da Ponte.
Sentiamo Raffaelli:"Quello che vieta ai vivi di mangiare nel mondo dei morti è un tabù molto antico e molto diffuso: ne conosciamo numerosissimi esempi, che si collocano nei tempi più vari e nei paesi più diversi. Un esempio che appartiene alla grecità arcaica è presente nell'Inno omerico A Demetra (VII sec. a. C.). La vicenda è assai nota: Ade, il signore dei morti, ha rapito la giovinetta Persefone e l'ha portata come consorte agli Inferi. La madre di Persefone, la grande dea Demetra, dopo un'aspra contesa, ha finalmente ottenuto da Zeus che la fanciulla possa ritornare tra gli dei superi. Ma prima di lasciarla partire Ade, ancora entro i confini del suo regno, le diede da mangiare il seme del melograno, dolce come il miele, - furtivamente guardandosi intorno - affinché ella non rimanesse per sempre lassù, con la veneranda Demetra dallo scuro peplo"[119]….Il significato antropologico di questo racconto è estremamente chiaro e su di esso…vi è un larghissimo consenso. Persefone, per aver mangiato nel mondo dei morti un cibo dei morti, resta indissolubilmente legata a quel mondo, al punto che neppure Zeus, questa volta, può sottrarla al suo destino: può soltanto ottenere un compromesso che riporti Persefone per otto mesi nel mondo degli dèi superi, ma per gli altri quattro mesi la dea apparterrà ineluttabilmente al suo sposo e al mondo dei morti. Il tabù di mangiare nel mondo dei morti, se infranto, comporta come s'è visto sanzioni inesorabili"[120].
 
Quindi Psiche dovrà rifare il percorso a ritroso. Non dovrà aprire la fiala curiosius, troppo curiosamente. Proserpina va e torna, ma viene presa temeraria curiositate e apre la fiala resĕrat pyxidem (6, 20). Allora fu presa da un infernus somnus, un sonno infernale dal quale la svegliò Cupido il quale è fedele, in controtendenza: the boy love is perjured everywhere dice Helena in Midsummer night’s dream (I, 2) as waggish boys in game themselves forsweare.
Psiche va da Venere, e Cupido da Giove il quale gli ricorda che per colpa sua ha trasgredito la lex Iulia, tuttavia lo aiuta con la speranza che il dio dell’amore lo aiuterà a peccare ancora.
Nelle Nuvole di Aristofane il Discorso Ingiusto per coonestare l’adulterio dice che Zeus è h{ttwn e[rwto~ kai; gunaikw`n (1081).
La lex Iulia de adulteriis coercendis è del 18 a. C.
Giove quindi approva il matrimonio di Amore e Psiche. I due si sposarono in pompa magna e generarono una figlia che chiamarono Voluptas. Torna tra gli uomini il Piacere che era tramontato. Qui (6, 24) finisce la favola raccontata da una temulenta anicula e Lucio si rammarica di non avere avuto pugillares et stilum per annotare tam bellam fabellam. In fondo Psiche è un alter ego di Lucio.
 
p. s. Per conquistare questa attuale identità di modesto studioso e conferenziere ho dovuto studiare quasi ogni giorno per decenni rinunciando a tante altre attività e integrando qualche altra identità acquistata in precedenza, da bambino e da ragazzo.
Non ne sono dispiaciuto. Anzi, sono molto contento quando tengo una conferenza, o scrivo un post, e vedo, dalle reazioni di chi mi ascolta e mi legge, che le mie fatiche umanamente e lietamente spese aiutano altre persone.
 Il 20 giugno parlerò a Siracusa dell’ Edipo re di Sofocle dalle 17, 30 nel salone Paolo Vi della chiesa San salvatore, e il 23 giugno presenterò un percorso su FARE IO, dalle 21, nella Piazzale della Biblioteca Comunale di Ghedi, nel Bresciano.
Ringrazio chi mi ha invitato e chi verrà ad ascoltarmi. Se qualcuno vuole vedere percorsi, glieli invierò.
 
 
 
LIBRO XI, l’ultimo del romanzo. Prima parte
Iside e Osiride.
 
Dopo una serie di vicende anche terribili, Lucio ancora asino si sveglia di notte presso Corinto e vede la luna, immagine di Iside e la prega, attribuendole molti nomi. Chiede di deporre diram faciem quadripedis e di renderlo a se stesso redde me meo Lucio (11, 2), rendimi al Lucio che sono.
 
E’ il diventa, o ridiventa, quello che sei di Pindaro gevnoio oi\o~ essiv (Pitica II, 72). L’uomo è ajeikhv~, sconcio, quando non assomiglia a se stesso, quando tradisce la propria identità.
 “L’infelicità è l’avvertimento dello squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto” (Ortega y Gasset, Meditazioni sull’infelicità).
 
“Nella natura nessuna creatura è più ripugnante e squallida dell’uomo che è sfuggito al suo genio e sbircia a destra e a sinistra, indietro e dovunque. Tale uomo è tutta esteriorità senza nocciolo, uno spettro agghindato che non può suscitare paura né compassione” (Nietzsche, III Inattuale, Schopenhauer come educatore).
 
La dea viene invocata con molti nomi Cerere, Venere Celeste, Diana, Proserpina.
 Nel sonno appare a Lucio una divina figura, una dea con foltissimi, lunghi capelli, con una veste di lino sottile, dal colore cangiante , ora candida, ora gialla come fiore di croco, ora rossa. Era coperta da una sopraveste di un nero splendente.
 
Lino e lana
La lana è il correlativo vestiario dell’obesità: nel De Magīa Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un pigrissimo corpo segnissimi corporis excrementum (56).
Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle vesti dei profani.
Invece mundissima lini seges, la purissima pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi sacerdoti d’Egitto e gli oggetti sacri.
 
 
Erodoto scrive che gli Egiziani considerano empio entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II, 81).
 
In De Iside et Osiride Plutarco spiega che il lino spunta dal seno della terra immortale e produce una veste semplice e pura parevcei kaqara;n ejsqh`ta che non pesa ma offre riparo dal calore ed è adatta ad ogni stagione e non genera insetti 352F.
 
Nel De Magīa Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un pigrissimo corpo segnissimi corporis excrementum (56).
Le vesti di Iside sono di colore screziato, stolaiv poikivlai, poiché la potenza della dea accoglie tutto e in tutto si trasfigura (De Iside, 76).
 
 Iside teneva nella destra un sistro di bronzo aereum crepitaculum (L’asino d’oro, XI, 4) e nella sinistra un piccolo recipiente d’oro a forma di barchetta cymbium aureum dal suono argentino sul cui manico levava la testa un aspide.
 
Il sistro
Il sistro secondo Plutarco serve a mettere in fuga Tifone.
To; sei`stron o{ti seivesqai dei` ta;; o[nta kai; mhdevpote pauvesqai fora`~ (De Iside, 376D), il sistro viene scosso perché le cose che sono vanno mosse e non devono mai cessare dal moto, ma essere svegliate e spinte quando dormono. Il sistro può essere paragonato al campanello della messa. Attira l’attenzione dei fedeli e tiene lontano i profani[121].
 
Iside parla, chiama Lucio per nome ed enumera tutti i propri nomi.
 Minerva, Cibele, Venere, Diana, Proserpina, Cerere, Giunone, Bellona, Ecate. Ma gli Egizi che sono di antica dottrina, la chiamano Iside. Prisca doctrina pollentes Aegyptii ( Metamorfosi, 11, 5).
E’ dunque la grande madre: “pollw`n ojnomavtwn morfh; miva” ( Eschilo, Prometeo Incatenato, 2010.).
Platone nel Timeo racconta che quando Solone era in Egitto, un sacerdote molto vecchio gli disse: “Solone, voi Greci siete sempre fanciulli, e un Greco vecchio non esiste; voi siete giovani d’anima perché in essa non avete riposto nessuna vecchia opinione (22b ss.).
Essi non hanno ricordo delle vicende più antiche a causa dei diluvi che periodicamente ne sconvolgono la civiltà. Il diluvio celeste lascia sopravvivere solo gli ignari di lettere e di Muse, sicché si perde il ricordo dei tempi antichi. Gli Ateniesi novemila anni prima avevano le stesse leggi degli Egiziani e si opposero all’imperialismo di Atlantide ma poi ci fu una catastrofe per la quale i guerrieri di Atene sprofondarono dentro la terra e Atlantide fu assorbita dal mare (Timeo, 25d).
 
Iside dice che il suo sacerdote porterà nella destra, vicino al sistro, una corona di rose. Lucio potrà mangiarne una e così liberarsi dalla cotenna dell’orribile animale odioso a Iside. Quindi l’uomo ripristinato dovrà dedicare la sua vita alla dea.
Per questo dovrà essere casto[122].
 Iside apparirà splendente anche nell’Acheronte[123].
Serapide
Lucio si alza in preda a una trepida gioia e vede una natura primaverile, rinnovata. Quindi una processione di uomini mascherati con vari componenti, tra cui dicati magno Sarāpi tibicĭnes (11, 9) i flautisti sacri al dio Serapide.
 
Plutarco sostiene che non bisogna formalizzarsi con i nomi; comunque Osiride è un nome greco, mentre Sarapide è egiziano (De Iside 61). Gli dei non sono diversi essenzialmente: hanno solo nomi diversi da popolo a popolo, come il sole e la luna (67). Il culto di Serapide era diffuso a Roma: in Catullo (10) c’è uno scortillum che chiede dei portantini al poeta: “nam volo ad Serāpin deferri”.
 
 
Identità XXI L’asino d’oro
La processione e l’iniziazione a Iside

 

Ed ecco gli iniziati e i sommi sacerdoti con vesti di lino strette alla vita e lunghe fino ai piedi. Portavano vari arnesi: uno un attrezzo a forma di barchetta, uno degli altarini, uno una palma e il caducĕo la verga di Mercurio sormontata da due serpenti, un altro un’immagine di una mano sinistra con la palma aperta, simbolo di equità, in quanto la sinistra è nulla calliditate nulla sollertia praedita, non ha scaltrezza né artificio. Questo portava anche aureum vasculum in modum papillae, un vasetto d’oro a forma di mammella, Il quinto reggeva un’auream vannum (11, 10).

 Questa vannus, il vaglio che separa il grano dalla pula, è il simbolo di Osiride che muore e risorge come il grano[124].

Poi gli dèi: Anubi con la testa canina, il caduceo, lo scettro di Mercurio, e una palma.
Seguiva una vacca, simbolo della fecondità e della Magna Mater. Poggiava le zampe anteriori sulle spalle di un sacerdote. Un altro portava la cista con gli oggetti segreti del culto. Un altro ancora recava un simbolo ineffabile: una piccola urna d’oro con un aspide.
Arriva il momento della grazia. Un sacerdote si avvicina con le rose.
Nel De Platone et eius dogmate Apuleio scrive che si diventa perfetti d’un tratto e repentinamente (248).
Insufficiente è il criterio della razionalità.
Il sacerdote dunque offre la corona di rose a Lucio che torna a essere uomo.
La nuova metamorfosi consiste soprattutto nell’assottigliarsi e nel raffinarsi, umanizzarsi, delle parti grossolane: mihi delabitur deformis et ferina faciescutis crassa tenuatur, venter obesus resĭdet…dentes saxei redeunt ad humanam minutiam…cauda nusquam (11, 13).
Lucio tornato uomo si vergogna di essere nudo e chiede un panno di lino.
Il sacerdote lo saluta. Gli dice che spinto dall’età e ad serviles delapsus voluptates (11, 15) ha riportato un sinistrum praemium (bell’ossimoro) per la curiositas inprospera non corrispondente alle speranze.
 Eppure la Fortunae caecitas[125] tormentandoti inprovida malitia, con cattiveria priva di chiaroveggenza, ti ha portato ad istam beatitudinem. Questa era una nefaria Fortuna, empia, ma ora sei in tutelam Fortunae, sed videntis che con il suo splendore illumina anche le altre divinità.
La mala fortuna è stata una provvida sventura.
 
Lucius de sua Fortuna triumphat (11, 15). Trionfare sul proprio destino, significa prima di tutto riconoscerlo, poi identificarsi con lui.
 
Eschilo, Agamennone: το; mevllon h{xei (1240), il futuro giungerà.
 
"Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[126].
Cfr. h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[127] di Eraclito.
Questo predominio del fato non risparmia nessuno, e Prometeo si consola del suo martirio dicendo, che nemmeno Zeus "potrebbe in alcun modo sfuggire alla parte che gli ha dato il destino (th;n peprwmevnhn)" Eschilo, Prometeo incatenato, v. 518).
 
Lucio ora deve sottomettersi al giogo della disciplina religiosa.
Il sommo sacerdote gli spiega i gradi dell’iniziazione: il donarsi del fedele alla dea è una forma di voluntaria mors (11, 21).
E’ la rinuncia a una identità gregaria, fondata sui luoghi comuni, brutale.
“Il bruto è più tenace servo dell’assuefazione”[128].
 
Seneca scrive: “si ad naturam vives, numquam eris pauper, si ad opiniones, numquam eris dives. Quindi dobbiamo evitare di seguire antecedentium gregem, pecorum ritu, pergentes non quo eundum est, sed quo itur (Ep. 16, 7).
 
La dea fa rinascere quelli che abbandonano la vita precedente. Intanto Lucio deve astenersi da cibi impuri e interdetti. Ora attende senza impazienza miti quiete et probabili taciturnitate (11, 22) in encomiabile silenzio.
Finalmente arriva il giorno della rinascita. Lucio deve astenersi per dieci giorni dai piaceri della tavola. Il sacerdote lo copre con un panno di lino. Le parole che furono dette devono restare segrete per non soddisfare alcuna temeraria curiositas. Lucio può dire che giunse sulla soglia di Proserpina e a metà della notte vide il sole risplendere in presenza degli dèi inferi e superi. L’iniziato non può raccontare tutto.
Cfr. N. T. Matteo 13, 44 “simile est regnum caelorum thesauro abscondito in agro, quem qui invēnit homo abscondit ”.
 
Lucio però continua a osservare. Si è salvato perché invece di rassegnarsi a essere un asino, osservava, ascoltava quanto gli accadeva intorno e rifletteva. Se si fosse lasciato andare con la mente dentro il corpo dell’asino, non sarebbe tornato indietro.
Lucio viene abbigliato come il dio sole in una oJmoiwvsi~ qew`/, assimilazione a dio (cfr. Platone, Teeteto, 176b). Quindi se ne sta immobile come una statua e il popolo gli gira intorno. Così l’iniziazione è compiuta.
Lucio prega Iside, la dea del to; i[esqai met j ejpisthvmh~ (De Iside 59c) lanciarsi con sapienza. La salvezza è uno slancio dello spirito. Il male è la morta gora, l’acqua stagnante della palude ferma. La preghiera a Iside si rivolge a una forza della vita che sconfigge il male e la morte.
 
Identità XXII. Conclusione: Lucio va a vivere a Roma
 
Lucio torna a casa, quindi va a Roma, nella sacrosancta civitas (11, 26). Iside a Roma è venerata nel Campo di Marte. Era dicembre e giunse il nuovo anno. All’io narrante manca il fatto di essere iniziato a Osiride.
 
Plutarco scrive che [Osiri~ trae il nome dalla fusione di o{sio~ santo e iJerov~, sacro, la sintesi del santo celeste e del sacro infero. Il nome Osiride è greco, quello egiziano Sarapide (De Iside, 61). Osiride sbranato da Set corrisponde allo sparire della luna.
 
 Lucio sogna, poi da sveglio vede un pastòforo un sacerdote con immagini sacre che gli ricorda l’immagine onirica - nocturnae imagini congruentem - e si chiama Asinio Marcello, reformationis meae non alienum nomen (11, 27), un nome associato alla metamorfosi di Lucio. Anche questo sacerdote era stato preavvisato da un sogno: il grande dio Osiride gli aveva detto mitti sibi Madaurensem sed admodum pauperem, cui sacra sua deberet ministrare che gli era stato inviato un uomo di Madaura molto povero cui doveva somministrare i suoi sacri misteri. A quest’uomo - Apuleio - sarebbe derivata grande gloria negli studi. Lucio dunque rinnega l’origine greca vantata nei primi capitoli. Diventa quello che è. Apuleio era nato a Madaura.
Lucio viene consacrato anche a Osiride. E’ molto povero e deve vendere il suo vestito. L’ordine del dio è di abbandonarsi alla povertà. Quindi si astenne da carni animali e si rasò. Poi poté alzare il suo tenore di vita patrocinando cause in lingua latina (28) .
 
Infine una terza iniziazione. Gli viene ordinata nel sonno - cogor tertiam quoque telĕtam sustinere (XI, 29) . Lucio si astenne dai cibi animali per più di dieci giorni, spontali sobrietate con spontanea temperanza (30) I suoi guadagni di avvocato comunque crescevano. Infine gli apparve in sonno Osiride invitandolo a continuare le sue arringhe senza curarsi delle calunnie dei malevoli che la faticosa dottrina dei suoi studi suscitava in quel luogo malevolorum disseminationes quas studiorum meorum laboriosa doctrina ibīdem exciebat (11, 30). E’ la provocazione del genio sui mediocri, del colto sugli ignoranti. Osiride lo elesse tra i pastofori, il collegio dei sacerdoti che portavano l’immagine del dio dentro dei pastoiv, dei tempietti. Fu rasato e inserito anche tra i decurioni quinquennali, un antichissimo collegio che risaliva al tempo di Silla.
 
Fine dell’Asino d’oro di Apuleio
 
 
 
Prima Appendice
Lo stile di Apuleio secono Huysmans.
 
La collezione di des Esseintes “saltava Frontone (…) scavalcava le Notti Attiche di Aulo Gallio, discepolo di Frontone e amico suo: mente sagace e indagatrice, ma, come scrittore, impegolato in una melma attaccaticcia; e sostava davanti ad Apuleio, presentato nell’edizione principe, in –folio, stampata a Roma nel 1469.
Questo africano gli richiamava in volto il sorriso.
Nelle sue Metamorfosi il latino raggiungeva la pienezza: travolgeva seco limi, acque diverse, affluite da tutte le province; e tutte si mescevano, si confondevano in una tinta bizzarra, esotica, quasi nuova. Vezzi, particolari nuovi della società latina trovavano la loro piena espressione in neologismi scaturiti, in quell’’angolo d’Africa romano, dalle necessità della conversazione.
Inoltre lo divertiva quella sua esuberanza d’uomo evidentemente pingue, quella sua esuberanza meridionale. Apuleio gli appariva così come un gaio e salace mattacchione vicino agli apologisti cristiani che fiorivano nello stesso suo secolo” (p. 46).
Quindi viene menzionato “il soporifero” Minucio Felice, e Tertulliano che “mentre le follie d’Asia, le sozzure del paganesimo scorrevano come un fiume in piena…raccomandava con la maggiore serietà l’astinenza carnale, la frugalità nel cibo, la modestia nel vestire, quando Elagabal[129], incedendo su polvere d’argento e sabbia d’oro, cinto di tiara il capo, i paludamenti tempestati di gemme, accudiva nel cerchio dei suoi eunuchi a lavori donneschi; si faceva chiamare Imperatrice e mutava ogni notte Imperatore, eleggendoselo di preferenza tra i barbitonsori, i rovinasalse ed i cocchieri del circo. Questo contrasto estasiava Des Esseintes. Aggiungi che il latino, giunto con Petronio all’apice della perfezione, cominciava a corrompersi; la letteratura cristiana, imponendosi, introduceva con le nuove idee nuove parole, costrutti inusitati, verbi sconosciuti, aggettivi di senso lambiccato, vocaboli astratti: rari sin allora nella lingua romana, e che Tertulliano era stato il primo ad adottare ” ( Huysmans, A ritroso, p. 47)
Nel “De cultu feminarum Tertulliano scongiura le donne di non pararsi di gioielli e di stoffe preziose ed interdice l’uso dei cosmetici perché s’arrogano di emendare la natura e di abbellirla. Queste idee, diametralmente opposte alle sue, lo facevano sorridere” (A ritroso, p. 46)
 
Testi consultati
Aldo Carotenuto, Le rose nella mangiatoia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994.
Silvia Mattiacci (a cura di) Apuleio, Le novelle dell’adulterio, Casa editrice, Le Lettere, Firenze, 1996.
Gigliola Maggiulli e Franca Buffo, L'altro Apuleio, Loffredo Napoli, 1996.
Marie - Louise Von Franz, L’asino d’oro, trad it. Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
Giuseppina Magnaldi e Franco Gianotti (a cura di) Storia del testo e interpretazioni, Edizioni dell'Orso, Alessandria, 2000.
Soprattutto ho utilizzato le mie conoscenze delle letterature europee, a partire da quella greca e quella latina.
 
 
 
Seconda appendice
 
L’Asino di Machiavelli 1515 - 1516
Un poemetto satirico in terzine dantesche
 
Capitolo I. E’ un prologo
L’io narrante dichiara che canterà “i vari casi, la pena e la doglia - che sotto forma d’un asin soffersi”. Non invoca l’acqua d’Elicona né Apollo che accompagni i sui versi con la lira “ch’al suon d’un raglio non bisogna cetra”.
Né “mi curo che mi morda un detrattore palese o coperto”.
 
Un giovinetto di Firenze correva sempre sanza alcun rispetto
Ultimamente un certo Cerretani (ciarlatano?) promise al padre suo direnderlo sano.
Ai medici si presta tanta fede poiché promettono il bene anche quando fanno il male “e questa sol tra l’altre sètte - par che del mal d’altrui si pasca e viva”. Cfr. Catone il Censore
Per un mesetto il ragazzo si comportò bene “ma giunto un dì ne la via de’ Martelli - onde puossi via Larga vedere - cominciaro arricciarglisi i capelli” (via Larga oggi si chiama via Cavour).
Vedendo la via dritta e spaziosa il giovane non si poté più tenere e “di correre gli tornò la fantasia”
Disse: “qui non mi terrà Cristo” e corse via”. 84. E seguitò a correre finché visse. Dagli istinti non c’ è difesa.
Dal canto suo l’asino ha l’istinto di mordere e ragliare.
 
Capitolo II
L’asino raglia, poi ride con voce tonante e arguta se vede cosa che gli piace o fiuta. E’ la sua natura.
L’autore si trovò in un luogo oscuro tanto “ch’io non vedeva punto ov’io mi andassi”. Poi sentì un suon di corno feroce e forte
L’aria era “di folta e grossa nebbia tinta - la via di sassi, bronchi e sterpi piena - avean la virtù mia prostrata e vinta”
Apparve una donna piena di beltate fresca e frasca - giovane e volubile - con le sue trecce bionde e scapigliate. Con la sinistra portava un gran lume, con la destra un corno e lo suonava. La seguivano molti animali. L’io narrante si spaventò ancora di più. La donna gli si avvicinò “sopragiunse ella, e con un modo astuto - e, sogghignando, ‘Buona sera’ disse”.
 L’io narrante ne trasse conforto ma non sapeva dire com’era finito lì. Allora la donna gli raccontò che Circe fuggendo ogni consorzio umano” non ritrovando alcuno albergo fido, - né gente alcuna che la ricevesse - tanto era grande di sua infamia il grido (103 - 105), si rifugiò in quella selva. Questa donna chiarisce di essere una delle ancelle di Circe. Le bestie del suo seguito erano stati uomini . Circe li ha trasmutati - Circe ha questa virtù che in varie forme faccia convertire appena guarda fisso il volto di un uomo.
Poi invita l’uomo a seguirla con la promessa di salvarlo
 
Capitolo III
Nel capitolo tre la fanciulla guida l’uomo al palazzo di Circe e lo informa circa il suo futuro: il destino lo ha colpito con particolare ferocia, ma questa sofferenza non è perenne e un giorno egli sarà di nuovo felice. Perché ciò accada è necessario tuttavia, così la provvidenza ha decretato, che egli si muti in asino e sotto forma di questo animale giri per il mondo («gir ti conviene/ cercando il mondo sotto nuova pelle», vv. 116 - 17). Prima che la metamorfosi si compia, gli è comunque concesso di trattenersi «alquanto tempo» nel regno di Circe, per prendere esperienza di quel luogo.
Il poemetto però si interromperà prima che l’uomo diventi asino secondo questa profezia. Incontreremo invece un altro personaggio che, trasformato in un porcellotto grasso, vuole rimanere tale.
 
L’io narrante va dietro “a le piante della mia duchessa tra quella turba d’animali spessa”. Andava carponi con le spalle volte al cielo e si toccava le braccia per sentire se avevano cambiato pelle o pelo. “per discrezion pensate com’io stava”. Si sente cigolare una porta poi appare un palazzo di mirabile altura. C’era un fossato da passare a guazzo (guado) Solo la donna poté avvalersi del ponticello. Il lume si spenge e l’autore spaventato si trova in un ampio cortile, tutto smarrito. La donna bella, alta e gentile riassettava le bestie nel loro ovile. Quindi porta l’uomo in sua camera, accese un fuoco “col qual cortesemente rasciugommi - quell’acqua che m’avea tutto bagnato” nel passare il fossato.
L’autore rasciutto e riposato ringrazia la donna
Questa gli spiega che lui ha subito ingratitudine e senza colpa brutti colpi dalla Fortuna ma “si debbe a’ colpi de la sua fortuna - voltar il viso di lagrime asciutto” (86 - 87). Il cielo muta aspetto spesso “e così nulla in terra vien ne lo stato suo perseverando” 92 - 93. Di qui pace e guerra
Gli umori cattivi e a te nemici non sono ancor purgati.
Torneranno tempi felici , tanto lieti e giocondi “che ti darà diletto la memoria - e del passato e del futuro danno” (110 - 111)
Cfr. Lucrezio quibus a malis careas…cernere suave est (II, 4)
 
Perfer et obdura: dolor hic tibi proderit olim: /saepe tulit lassis sucus amarus opem” Ovidio, Amores III, 11, 7 - 8
 
La donna dice all’io narrante che deve cambiare pelle “prima che si mostrin queste stelle - liete verso di te”.
“adunque fa che tu non ti sconforti - ma prendi francamente questo peso - sopra gli omeri tuoi solidi e forti - ch’ancor ti gioverà l’averlo preso”.
 
Capitolo IV
L’autore accetta il suggerimento e la donna aprì le braccia “e con un bel sembiante tutta lieta - mi baciò dieci volte e più la faccia”
Quindi apparecchiò una sua tovaglietta su un certo desco vicino al focolare. Vi mise “pane, bicchieri e coltella, - un pollo, una insalata acconcia e netta” (29 - 30). Poi arriverà il vino.
 
Il vino è stimolatore e armigero di Venere nell’Asino d’oro di Apuleio
Ecce. Inquam, Veneris hortator et armĭger Liber. Vinum istud hodie sorbamus omne, quod nobis restinguat pudoris ignaviam et alacrem vigorem libidinis incutiat dice Lucio, ancora uomo, a Fotide. Poi aggiunge: “la barca di Venere ha bisogno di questo solo approvvigionamento hac enim sitarchĭā navigium Veneris indiget solā (II, 11). A proposito di navigium ricorderete che Fotide decenter undabat ( II, 7) ancheggiava mica male.
Cfr. anche Euripide Baccanti oi[nou de; mhkevt j o[nto~ oujk estin Kuvpri~ - oujd j a[llo terpno;n oujde;n ajnqrwvpoi~ (773 - 774).
Terenzio, Eunuco, 732: Sine Cerere et Libero friget Venus.
Ovidio Vina parant animum Veneri, nisi plurima sumas - et stupeant multo corda sepulta mero” (Remedia, 807 - 8).
Macbeth “Much drink may be said to be an equivocator with lechery: makes him stand to and not stand to (II, 3).
Tacito Liber festos laetosque ritus posuit, Iudaeorum mos absurdus sordidusque (Historiae V, 5).
 
Ora torniamo all’Asino di Machiavelli
“Godiamo adunque” “E quando viene il mal, mandalo giù come una medicina; ché pazzo è chi lo gusta o l’ assapora” 40 - 42)
“Così, lasciando gli affanni e i dolori - lieti insieme cenammo: e ragionossi - di mille canzonette e mille amori” (46 - 48)
Poi i due vanno a letto ma l’uomo esita “era la mente mia stupida e incerta, - frigida, mesta, timida e dubbiosa, non sapendo la via quanto era aperta” (94 - 96)
“ma poi che fu la donna un pezzo stata - a riguardarmi, sogghignando disse: - sare’ io d’ortica o pruni armata? Puoi avere quello che ha fatto gridare e rissare mille uomini. Ma tu hai poca virtù e non nuoteresti mai come Leandro infra Sesto e Abido.
Cfr. Ovidio e Museo con questa storia di amore e morte.
 
Allora l’uomo prese ardire e valore “ e a lei m’accostai - stendendo fra’ lenzuol la fredda mano”
“non in un loco la man si ritenne,
ma discorrendo per le membra sue,
la smarrita virtù tosto rinvenne”
Infine l’uomo gustò tutte le dolcezze
 
Capitolo V
La donna deve andare a pascere gli animali e chiede all’uomo di aspettarla senza uscire e senza rispondere a nessuno.
L’uomo sente la mancanza dell’amoroso aspetto “che lucea più di tutti gli altri volti”. Poi pensa “al variar delle mondane cose”.
Cfr. Svevo: “Non so se a questo mondo vi siano dei dotti che saprebbero dire perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e fosse perciò un vero organo per guardare le persone e le cose e non per sbalordile” (La coscienza di Zeno, parte VII)
 
Quel che ruina da’ più alti colli, - più ch’altro, i regni, è questo: che i potenti - di lor potenza non son mai satolli (37 - 39).
“San Marco impetuoso ed importuno - credendosi aver sempre il vento in poppa, non si curò di ruinare ognuno - (49 - 51) - si tratta di Venezia -
né vide come la potenza troppa - era nociva, e come il me’ sarebbe - tener sott’acqua la coda e la groppa” (52 - 54) quella del Leone di san Marco
“Atene e Sparta, di cui sì gran nome - fu già nel mondo, allor sol ruinorno, - quando ebber le potenze intorno dome” (58 - 60)
Cfr. il metus hostilis di Sallustio[130].
 
Arrigo VII non fece paura a Firenze quando la assediò tra 1311 e 1312 con tutta la sua possa. Allora la nostra città aveva confini presso le mura. Ora che è diventata grande teme ogni cosa.
“Chi vuol toccare e l’uno e l’altro polo, - si truova ruinato in sul terreno, - com’Icar già dopo suo folle volo”
“al fin convien che si consumi - e ponga sempre la sua mira in fallo, chi ha buone leggi e cattivi costumi” (85 - 87)
Cfr. Tacito Germania, 19 plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges ".
 
“Chi le passate cose legge, sallo - come gl’imperii comincian da Nino, - e poi finiscon in Sardanapallo” (88 - 90). Il quale fu trovato fra l’ancille com’una donna a dispensare il lino.
L’ozio arde i paesi e le ville. Dopo i disordini torna la virtù.
“Quest’ordine così permette e vuole - chi ci governa, acciò che nulla stia - o possa star mai fermo sotto’l sole” (100 - 102).
Ricorda quanto si è detto sopra del sistro, il sonaglio sei`stron da collegare a seivw, scuoto.
 
Il male succede al bene e il bene al male e l’uno è sempre cagione dell’altro.
 L’un (Savonarola) crede che l’usura o qualche peccato carnale sia cosa mortale per i regni, mentre la cagione della grandezza sarebbero digioni, limosina, orazione (11)
Un altro più discreto e savio non la pensa così. Molti regni e Stati sono diventati guasti perché vi prevaleva il credere che Dio combatta per te mentre stai ozioso e ginocchioni. Le orazioni sono sì necessarie perché da quelle si miete unione e buono ordine e da questi –buona fortuna poi dipende e lieta - 123
“Ma non sia alcun di sì poco cervello - che creda, se la sua casa ruina. - che Dio la salvi senz’altro puntello: - perché e’ morrà sotto quella ruina” (124 - 127)
“Di qui nacque che tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono” (Il Principe, VI, 6)

 

Capitolo VI
Poi l’uomo sente tornare la donna tutta umana che lo abbracciò.
La donna riposò le membra angosciate e si ricreò con il cibo, quindi condusse l’amante in un gran dormitorio tipo quello dei conventi.
Dietro delle porte dormivano varie bestie. Leoni “co’ denti acuti e con gli adunchi unghioni”. Circe trasforma in leoni chi ha cor magnanimo e cortese. Gli orsi sono uomini che avevano vita rozza e violenta e abbondavano di troppa furia e rabbia. (61)
Dietro il terzo uscio voraci lupi e affamati stanno, dietro un altro uscio buffoli e buoi, poi becchi, cervi, pantere e leopardi “e maggior bestie assai che leofanti”. Si trovano animali bruti divisi nelle varie celle del chiostro ma c’è una cella dove si può entrare liberamente e lì vanno a riunirsi fiere di maggior conoscenza, di maggior grado e di maggior fortuna. Ti parranno bestie in apparenza ma le conoscerai meglio
Sopra l’arco che sovrastava l’uscio c’era la statua del grande abate di Gaeta sul dorso di un elefante, Giacomo Baraballo, un poetastro che volevano incoronare per burla con un serto fatto di foglie di cavolo e di bietola ma l’elefante lo gettò prima a terra (era il 27 settembre 1514)
è il «grande abate di Gaeta» (v. 118), poeta e giullare della corte di Leone X. ( papa dal 1513 al 1521, era Giovanni de’ Medici figlio di Lorenzo il Magnifico e di Clarice Orsini)
 
La statua simboleggiava la gente che si radunava in quella cella
 
Capitolo VII
La porta si aprì e mostrò il serrato convento. La donna attivò la luce lucida e presta, al che “più che due mila bestie alzar la testa. La donna lo invitò a guardare “il copioso drapello - che ‘n questo loco insieme si ritruova. Non mancava tra tante bestie qualche uccello.
Vengono descritti alcuni animali: un gatto che perdeva la preda per troppa pazienza, un drago tutto travagliato che si voltava senza posa alcuna, una volpe maligna e importuna e un cane che abbaiava alla luna. Rappresentano forse i maggiorenti della corte pontificia. Poi c’è un leone con denti e artigli tratti da se medesmo. Poi animali disfatti senza coda qual senza orecchi vidi musando starsi quatti quatti con il muso in aria accucciati: era un miscuglio di conigli e becchi. Una giraffa chinava il collo a ciascheduno e un orso stanco che russava. Un pavone col suo leggiadro ammanto si pavoneggiava.
 Un asino pareva un citriuol d’agosto. Un sorcicciuol, un sorcetto avea per male d’esser sì piccoletto e bezzicando andava or questo or quell’altro animale - Li rosicchiava. Un bracco andava fiutando a questo il ceffo, a quell’altro la spalla, come s’andasse del padron cercando.
Un cervio vidi che temeva forte e veniva variando il cammino tanto aveva paura della morte. Poi una scimia che facea lo ‘mbocchi - faceva le boccacce
Fabi e Catoni apparenti erano diventati pecore e montoni Molti che siedono nei più alti scanni sono finiti in questi duri greppi “quanti nasi aquilin riescono gheppi!” 105 falchetti invece che aquile
Voleva parlare ma ci volevano i torcimanni (interpreti). La donna promise e gli indicò “tra ‘l fango involto un porcellotto grasso
La donna disse che quel porco non voleva tornare uomo ma gli avrebbe parlato
 
Capitolo VIII
l’ultimo dell’Asino d’oro di Machiavelli
Parla un porcellotto grasso” che non vuole tornare a essere uomo
 
Alzò quel porco al giunger nostro il grifo
Tutto vergato di meta e di loto
Tal che mi venne nel guardarlo schifo.
Mi conosceva e si mosse verso me mostrando i denti
Io fui cortese e dissi Dio ti mantenga se tu ti contenti.
Poi gli disse che la donna poteva farlo ritornare uomo
“e fe’ questa risposta - tutto turbato il fangoso animale”
Il quale rifiuta l’offerta: “vanne a tua posta”, per i fatti tuoi.
Vi sbagliate per amore di voi stessi credendo che non ci sia niente di meglio della vita umana
Noi animali giriamo e andiamo dove stiamo meglio.
 voi uomini invece
Voi, infelici assai più che non dico,
gite cercando quel paese e questo,
non aere per trovar freddo od aprico
ma perché “l’appetito disonesto
de l’aver non vi tien l’animo fermo
nel viver parco, civile e modesto;”
e spesso in aere putrefatto e infermo,
lasciando l’aere buon, vi trasferite;
non che facciate al viver vostro schermo.
Noi l’aere sol, voi povertà fuggite,
cercando con pericoli ricchezza,
che v’ha del bene oprar le vie impedite.
Siete più deboli di tanti animali: un toro, un fer leone, un leofante e ‘nfiniti di noi Molti sono coraggiosi e generosi. Molti sono temperanti
“In Vener noi spendiamo e breve e poco - tempo; ma voi, senza alcuna misura, - seguite quella in ogni tempo e loco -
Mangiamo cose naturali mentre voi “volete quel che non può far natura
Per soddisfare voglie ingorde andate fino in oriente
Non basta quel che ’n terra si ricoglie,
ché voi entrate a l’Oceano in seno
per potervi saziar de le sue spoglie” (L’Asino, VIII, vv. 100 ss.).
Contro la nostra incontentabilità.
 
Sentiamo Massimo Cacciari: “ E’ l’agitazione invincibile del nostro stesso animo , l’impotenza a stare che abita in noi, a risultarci fatale E’ la nostra stessa natura a colpirci, poiché essa ci ha fatto “animale irrequieto e impazientissimo do suo stato alcuno e condizione”. Sempre mutiamo, senza mai mutare noi stessi.
E tale inquietudine si trasforma necessariamente nell’incapacità di lasciare in pace. “Di quivi nasce la pace e la guerra.” (L’Asino, III, v. 94).
Impossibile che un’anima per se stessa agitata sopporti o tolleri di non travolgere con sé ogni altro essente. La sua violenza non è errore o vizio emendabile, ma espressione della natura. “Vitia erunt donec homines” (Tacito, Historiae, IV, 74). Così possiamo diventare lupi agli altri (il filologo sa che viene da Plauto l’homo homini lupus…), volere asservire e soggiogare ogni essente, fare quasi del nostro ventre “pubblica sepoltura di tutte le cose”.
 Dirà l’amarissimo porco incontrato dall’Asino machiavellico (Asino d’oro, che attraverso la sofferenza viene iniziato al duro sapere, non afflitto dalla ‘asinità’ bruniana): “Non basta quel che ’n terra si ricoglie, /ché voi entrate a l’Oceano in seno/ per potervi saziar de le sue spoglie” (L’Asino, VIII, vv. 100 - 102). La nostra natura è la vera matrigna, la sua ontologica stultitia che mai ti rende di alcuna natura contento né sazio”. Questa colpa è iscritta tragicamente nella costituzione del nostro esserci, fino a farci apparire gli infelicissimi tra tutti i viventi” ( La mente inquieta Saggio su l’Umanesimo, capitolo quarto, p. 58)
 
Ogni animal tra noi nasce vestito…”sol nasce l’uom d’ogni difesa ignudo - e non ha cuoio, spine o piume o vello, - setole o scaglie, che li faccian scudo (121 - 123)
Nasce piangendo, poi la sua vita è poca”al paragon di quella - che vive un cervo, una cornacchia, un’oca.
La natura vi ha dato la mano e la favella ma l’ambizione e l’avarizia cancellano quel bene. L’avarizia genera scabbia - rogna
“Nessun altro animal si trova ch’abbia
Più fragil vita e di viver più voglia,
più confuso timore o maggior rabbia.
Non dà un porco a l’altro porco doglia,
l’un cervo a l’altro; solamente l’uomo
l’altr’uomo ammazza, crocifigge e spoglia
Pens’or come tu vuoi ch’io ritorni uomo,
sendo di tutte le miserie privo,
ch’io sopportava nentre che fui uomo
E s’alcuno infra gli uomin ti par divo
Felice e lieto, non gli creder molto.
Ché in questo fango più felice vivo,
dove senza pensier mi bagno e volto”

(139 - 151 - Fine)

 
 
Appunti
Altri autori contro il conformismo dei benpensanti
Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".
Leopardi: “Il bruto è il più tenace servo dell’assuefazione”[131].
Riporto una espressione di O. Wilde nella cui filigrana si può leggere Seneca: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità”[132].
L’uomo privo di bisogni spirituali ha un’identità gregaria ed è terrorizzato dall’idea di perderla. Il borghese fonda la propria identità sul denaro e ha una grande paura che glielo portino via.
 L’identità conferita dalla cultura invece non è espropriabile.
 
Il personaggio Edipo è denso di significati come le parole di Sofocle
 Nella sua vita tribolata attraversa varie identità: il bambino reietto, il principe dubitoso, l'assassino, il salvatore, il re adorato, il contagiatore, il farmakov", il santo: perciò la sua umanità è vastissima e ciascuno di noi può identificarsi con lui. Ecco perché questo dramma è una delle grandi opere prodotte dall'umanità.
 
Rafforzare l’identità
Tiriamo quindi le conclusioni: l’intenzione degli sforzi terapeutici è quella “in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super - io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es. Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. E’ un’opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee”[133].
Tuttavia:“Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante”[134].
Tiresia allude a Giocasta e ai figli. A causa della cecità mentale, Edipo non si è reso indipendente: non vive in autonomia, ma convive con la madre dalla quale non si è mai staccato per diventare adulto. E' alienato poiché non è riuscito a sperimentare la propria identità. A questo proposito cfr. Fromm, Marx e Freud: “Il fallimento derivante dalla mancata sperimentazione della propria identità che è il fenomeno centrale alla base delle forme psicopatologiche, è anch’esso un risultato dell’alienazione” (p. 65)
 Cfr. anche C. Pavese Il mestiere di vivere, 25, XII,1937:"C'è qualcosa di più triste che invecchiare ed è rimanere bambini".
Non staccarsi dalla madre è il sintomo più evidente di tale alienazione,
 

L'Edipo di Cesare Pavese dice:" ho saputo sempre di agire come lo scoiattolo che crede d’inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabboa. E mi domando: chi fu Edipo? (…) Ma viene il giorno che ritorni al Citerone e tu più non ci pensi, la montagna è per te un'altra infanzia, la vedi ogni giorno e magari ci sali. Poi qualcuno ti dice che sei nato lassù. E tutto crolla" (i Dialoghi con Leucò , La strada)



[1]Questa alta valutazione del cuore e del sentimento si ritroverà, com'è noto, negli autori dello Sturm und drang e del romanticismo: Goethe ne I dolori del giovane Werther scrive(9 maggio 1772):"egli apprezza la mia intelligenza ed i miei talenti più del mio cuore, che è pure l'unica cosa della quale sono superbo, che è pure la fonte di tutto, di ogni forza, di ogni beatitudine e di ogni miseria. Ah, quello che io so, lo può sapere chiunque - ma il mio cuore lo possiedo io solo".
[2] Un limite alla facundia, come del resto alla pietas, lo suggerisce Orazio:" Cum semel occideris et de te splendida Minos/ fecerit arbitria,/ non Torquate, genus, non te facundia, non te/restituet pietas" (Carm. IV, 7, vv. 21 - 24), una volta che sarai morto e Minosse avrà dato sul tuo conto chiare sentenze , non la stirpe, Torquato, non la facondia, non la devozione ti restaurerà. Questo limite dunque è la morte, solo la morte.
[3] Ovidio, Ars Amatoria , II, 123 - 124. Bello non era ma era bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del mare. Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore .
[4]Cfr. Satiricon , 115.
[5]M. Detienne - J. P. Vernant, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia , p. 3 e sgg.
[6]Orazio, Odi , I, 6, 5 - 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta ira di Achille incapace di cedere.
[7] Iliade , XIX, v. 423.
[8] Cfr. Medea e Alcesti dove è il mobile più importante della casa.
[9] Cfr. Iliade VI, 146 - 149 (Glauco a Diomede).
[10] JaegerPaideia , I vol., p.279
[11] Sofocle, delfico ortodosso, scriverà che l’u{bri~ è madre e nutrice del tiranno: "u{bri" futeuvei tuvrannon, (Edipo re , v. 873), la prepotenza fa crescere il tiranno.
[12] 340 - 397
[13] Cotidie Nabuthae sternitur, cotidie occiditur…Nescit natura divites, quae omnes pauperes generat. Neque enim cum vestimentis nascimur, cum auro argentoque generamur. Natura omnes similes creat, omnes similes gremio claudit sepulchri (Ambrogio, De Nabuthae,1 - .2)
[14] Dodds, The ancient concept of progress, p. 50.
[15] L'eroe sofocleo in La tragedia greca, guida storica e critica, a cura di C. R. Beye, pag.85
[16] Bernard M. Knox L’eroe sofocleo in La tragedia greca. Guida storica e critica a cura di Charles R. Beye; Laterza, Roma - Bari, 1974, pagina253.
[17]S. Kierkegaard, Enten - Eller , Tomo Secondo, p. 24 e p. 30.
[18] "La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa , ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno è a conoscenza del suo dolore" (Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in Enten Eller, tomo II, pp.33 - 34).
[19] e[rhmo" (v. 255): l' aggettivo a due uscite torna, sempre riferito a Medea, al v. 513 (fivlwn e[rhmo", su;n tevknoi" movnh movnoi" , priva di amici, sola con i figli soli) e al v. 604.
[20] a[poli" (v. 255): per un Greco, o per uno che viva in mezzo ai Greci, essere apolide è una tragedia. Sofocle nell'Antigone coniuga la mancanza di città con la carenza di bellezza:"e le leggi della terra unendo/e degli dei la giurata giustizia/è grande nella città (uJyivpoli"); bandito dalla città (a[poli" ) è quello con il quale /coesiste la negazione del bello morale (to; mh; kalo;n) per la sfrontatezza./Non mi stia accanto sul focolare/né abbia lo stesso pensiero/chi compie queste azioni" (vv. 368 - 375). -
[21] I Ciclopi non hanno assemblee per consigliarsi né leggi ma vivono sulle cime di alti monti in caverne profonde, ognuno governa i figli e le donne e non si curano l'uno dell'altro (oujd j ajllhvlwn ajlevgousi, Odissea, IX, 112 - 115).
[22] 342 - 291 a. C.
[23] Il quale, come vede Sostrato davanti alla porta di casa sua, invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!"( ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou' tucei'n, v.169). Sembra un'anticipazione del monachesimo.
[24] Ecce homo, Perché sono così accorto, 10.
[25] Di là dal bene e dal male, Lo spirito libero, 26
[26] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I discorsi di Zathustra, Delle mosche del mercato
[27] J. K. Huysmans, Controcorrente (del 1884) p. 77.
[28] Il mestiere di vivere , 24 novembre 1938
[29] Del 1903.
[30]Tonio Kröger , p.237.
[31] Cfr. Seneca che nel De beneficiis consiglia:"demus beneficia, non feneremus "(I, 9), facciamoli i benefici, non prestiamo ad interesse
[32] L'uomo e il divino , pp. 268 - 269.
[33]E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea , p. 68.
[34] Ottativo aoristo secondo di uJpeivkw, "cedo".
[35] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 249.
[36] Io mi ritrovo…sono io, sono Medea…sono ridiventata Medea
[37] "Ma che puoi tu in quest'isola nemica? Colco è lontana e anche da Colco tu sei cacciata. E Giasone pure ci lascia, ora. Che ti resta dunque?: Me stessa!"
[38] Ecco, è adesso che devi essere te stessa…Io sono Medea, infine, per sempre.
[39]F Citti, C. Neri, Seneca nel Novecento , p. 104.
[40] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, pp. 84 - 85.
[41] "I am Antony yet ", Antonio e Cleopatra (del 1606 - 1607) , III, 13.
[42]Da La duchessa di Amalfi (del 1614) , di J. Webster (1580 - 1625).
[43]Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, (del 1927) in T. S. Eliot Opere , p. 800.
[44] "Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est ", 2, 4, , quello è dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso.
[45]Lo stile "drammatico" del filosofo Seneca , p. 13.
[46] Secondo Tito Livio questo attecchire del nefas a Roma dove poi dilagherà avviene nel 186 a. C. con l’introduzione dei Baccanali dall’Etruria. La schiava Ispala costretta dal console Postumio a denunciare questi riti osceni rivela che la perfetta iniziazione era non considerare nulla come illecito: “ nihil nefas ducere, hanc summam inter eos religionem esse” (39, 13)
[47] Si pensi alla sciagurata strage di bambini del 3 settembre 2004.
[48] J. Hillman, Variazioni su Edipo , p. 96.
[49]A. C. Bradley, La tragedia di Shakespeare, p. 403. Qualche pagina prima (370) Bradley scrive: "I versi più terribili della tragedia sono quelli del suo grido raccapricciante "Ma chi avrebbe mai pensato che quel vecchio avesse dentro tanto sangue?" (V, 1).
[50] L'ottima sposa si presenta, metaforicamente, come un arciere toxovth" che con il suo arco (tovxon) mira alla buona reputazione cui si accompagna la felicità nella culture of shame
[51] Euripide sembra indicare l'insufficienza "della cultura di vergogna"
[52] Nell'Elettra di Euripide il contadino che ha sposato la figlia di Agamennone senza del resto consumare il matrimonio, dopo avere visto la moglie che parla con Oreste davanti alla casupola, le dice:"gunaikiv toi - aijscro;n met' ajndrw'n eJstavnai neaniw'n" ( vv. 343 - 344), per una donna certo è una vergogna stare fuori con uomini giovani.
[53] Cfr. Amarcord di Fellini.
[54] Andromaca sta istruendo la più giovane Ermione che è anche la moglie di Neottolemo il quale la pospone alla vedova di Ettore.
[55] W. Shakespeare, The taming of the shrew, V, 2.
[56]J. Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro, Roma 1983, in Naldini, Pasolini, una vita , p. 81.
[57] P. P. Pasolini, , dai “Dialoghi con Pasolini” su “Vie Nuove” (1960) in Pasolini saggi sulla politica e sulla società, p. 910.
[58] P.P. Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
[59] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , pp. 178 - 179.
[60] Pohlenz, La Stoa, 2, 109.
[61]Mangiare Dio, pp. 132 - 133.
[62] Cfr. Medea 1227 - 1230. Nessuno è eujdaivmwn, uno può essere eujtucevstero~, più fortunato di un altro quando passa un’onda di prosperità, ma felice nessuno. Sono le parole conclusive del Messo che ha raccontato la fine di Creonte e della figlia uccisi dai doni di Medea
[63] Un figlio di Tieste
[64] Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società,p p. 1142 - 1143
[65] G. Lukács, La distruzione della ragione, II, p. 767.
[66] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 14
[67] Da quando Carthago aemula imperii Romani ab stirpe interiit (De coniuratione Catilinae 10) , e con la fine del metus hostilis (Bellum Iugurthinum 41)
[68]Lanza, op. cit., p. 53.
[69] Claudio Eliano ( Preneste, 165/170 circa – 235) è stato un filosofo e scrittore romano in lingua greca. Ποικίλη iJστορία (Varia historia): in quattordici libri, di cui sono giunti interi i primi due e in forma di compendio parti dei rimanenti, come evidente dalle difformità di stile e lunghezza dei capitoli. Essa è costituita da una serie di aneddoti, aforismi e notizie su personaggi famosi della storia e della cultura antica. Le notizie che egli riporta sono tutt'altro che attendibili, e quasi mai ne è citata la fonte. Ciò nonostante l'opera è importante per ricostruire il formarsi dei nuclei narrativi e leggendari che si sarebbero tramandati nel medioevo riguardo ad Alessandro Magno, Pericle, Alcibiade, Semiramide e altri. Tra le decine di favole che i mirabilia raccolti da Eliano trasmisero alla diffusione orale dei secoli successivi, abbiamo una delle prime versioni del "tema di Cenerentola", ambientata in contesto egiziano (si veda a proposito la storia di Rodopi).
[70] Cfr. Edipo re:"Infatti già estirpano/gli antichi vaticini di Laio consunti/e in nessun luogo Apollo/risplende per gli onori/e tramontano gli dei (e[rrei de; ta; qei'a), 907 - 910. 
[71]Aurora , Libro secondo, 112
[72] Zibaldone, 1594 - 1595.
[73] Le altre due sono Sei personaggi in cerca di autore e Questa sera si recita a soggetto
[74] L. Pirandello, Ciascuno a suo modo (del 1924), atto I.
[75]VI, 15.
[76] Seneca, De vita beata, 1, 3.
[77] Del 411 a. C.
[78] Forma poetica equivalente a kevkthtai.
[79]Rappresentata poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.
[80] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.
[81] Eschilo, Agamennone, 177. E, poco più avanti :"goccia invece del sonno davanti al cuore/il penoso rimorso, memore delle pene inflitte; e anche/sui recalcitranti arriva il momento della saggezza" ( kai; par j a[ - konta" h\lqe swfronei'n , Agamennone, vv. 179 - 181).
[82] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), capitolo 4 e capitolo 25
[83] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 270.
[84] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 61.
[85] G. Orwell, 1984, p. 219.
[86]H. Ibsen, Un nemico del popolo , atto IV. E' un dramma del 1881.
[87]Canfora, op. cit., p. 342.
[88] VI 448 - 449 dove Ettore dice alla moglie: verrà il giorno in cui andrà distrutta la sacra Ilio (" e[ssetai h\mar o{t j a[n pot j ojlwvlh / [[Ilio" iJrh;";) e Priamo e il popolo di Priamo buona lancia.
[89]Annales , III, 55.
[90]Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio , I, 2.
[91]Crepuscolo degli idoli , p. 128. Inoltre : “L’eterno orologio a polvere dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolto - e tu con esso, granello di polvere dalla polvere venuto!” (La gaia scienza, n. 341)
[92] De republica (del 51 a. C.) , I, 45.
[93] Fa parte del gruppo dei dialoghi socratici, composti fra il 396 e il 388 circa.
[94] Uscito verso l'1 d. C,
[95] L'Ars amatoria (in distici elegiaci) costituisce una precettistica erotica in tre libri: nei primi due il poeta fa il maestro d'amore agli uomini, nel terzo alle donne. Questa raccolta a sfondo didascalico fu completata nell'1 o nel 2 d. C, come i Remedia amoris e i Medicamina faciei femineae. Ovidio, nato a Sulmona, e morto in esilio a Tomi sul Mar Nero, visse tra il 43 a. C. e il 17/18 d. C.
[96] M. Bettini (introduzione a) Poesia classica Latina, p. 11.
[97] Ars amatoria , III, 101.
[98]Conte - Pianezzola, Il libro della letteratura latina, Edizione Modulare, 8 , p. 513.
[99] Cfr. aujth; kivnhsi" di Sofista 256b, il moto in sé.
[100]La Penna, op. cit., p. 188.
[101]Cfr. Dante, Inferno , XIV, 94 e 96.
[102] Una mezzana, illa monebat/ talia (Amores, I, 8, 21 - 22), lei dava tali consigli.
[103] A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, p. 186.
[104] Del 64 d. C.
[105] Ars amatoria, I, 79. Anche i fori si confanno all'amore, chi potrebbe crederlo?
[106] P. Grimal, L'amore a Roma, trad. it. Aldo Martello, Milano, 1964, p. 140.
[107] Callisto, Pallante e Narcisso.
[108] S. Mazzarino, L'impero romano, 1, pp. 215 - 216.
[109] Nella Satira IV Crispino, che ha comprato una triglia per seimila sesterzi, è chiamato purpureus…scurra (v. 31), buffone porporato. Ha molto in comune con Trimalchione.
[110] Naturalis historia, XVIII, 7.
[111] M. Barchiesi, Op. Cit., P. 144.
[112] Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a lavarsi:"oujd& eij" balanei'on h'jlqe lousovmeno"" (Nuvole[112] , v. 837). il Coro degli Uccelli [112] più specificamente qualifica Socrate come a[louto" (v. 1553), non lavato.
[113] R. Musil, L'uomo senza qualità , pp. 42 - 43.
[114] J.K. Huysmans, Controcorrente, p. 43 e sgg.
[115] Cfr l'Ulisse di Joyce:" Yes peccavi! I have paid homage on that living altar where the back changes name”, Sì ho peccato! Ho reso omaggio su quell'altare vivente dove la schiena terminando cambia nome " (p. 737).
[116] H. Hesse, Demian (del 1919), p. 54.
[117] Cfr. la negazione ironica dell’essere donnaiolo di Ovidio: “ Non mihi mille placent, non sum desultor amoris” ( Amores I, 3, 15).
[118] Cfr. animula vagula blandula dell’imperatore Adriano
[119].Inno a Demetra, 372 - 374; la traduzione è di F. Cassòla, Inni omerici, a cura di F. C. , Valla - Mondadori, Milano 1975, p. 67.
[120] R. Raffaelli, "Verrai tu a cenar meco?" Il nucleo della leggenda di Don Giovanni e del Convitato di pietra in Il Convitato di pietra Don Giovanni e il sacro dalle origini al Romanticismo, Edizioni dell'Orso 2002, pp. 35 - 37.
[121] Pascoli in L’assiuolo sente il sistro nelle cavallette: “squassavano le cavallette finissimi sistri d’argento/tintinni a invisibili porte/che forse non s’aprono più/e c’era quel pianto di morte chiù”.
[122] Ovidio espone i consigli di una mezzana: fatti desiderare, négati. Il pretesto sarà il mal di testa, oppure Isis erit (Amores, I, 8, 74).
[123] Nelle Rane di Aristofane, Eracle descrive il luogo degli iniziati come una zona dove Dioniso vedrà fw`~ kavlliston (v. 155).
[124] Al pari di Adone ucciso dal cinghiale in Ammiano Marcellino: quod in adulto flore sectarum est indicium frugum (22, 9), è il simbolo delle messi recise quando sono mature.
[125] Cfr. 7, 2.
[126]Nietzsche, Umano troppo umano , II, Il viandante e la sua ombra, 61 Fatalismo turco..
[127] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo.
[128] G. Leopardi, Zibaldone, 1762.
[129] 218 - 222 ndr. Gli succedette il cugino Alessandro Severo 222 - 232
[130] Bellum Iugurthinum:" Nam ante Carthaginem deletam...metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere" (41), infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si fecero avanti.
[131] Zibaldone, 1762.
[132] Il ritratto di Dorian Gray, p. 88.
[133] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Sigmund Freud, Opere, 1930 - 1938, p. 190.
[134] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Prefazione di Zarathustra, 5.

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