lunedì 25 luglio 2022

Eracle di Euripide. Quarta parte (vv. 236-347)


 

Il coro nota che i buoni –ajgaqoiv, anche se sono lenti nel parlare, hanno risorse per le parole ajforma;" toi'" lovgoisin (236)

Lico replica che risponderà alle parole cattive agendo- ejgw; de; dravsw-239, io invece farò.

Quindi ordina ai suoi di andare sull’Elicona e nelle valli del Parnaso a tagliare tronchi da ardere bwmo;n pevrix (243) tutt’intorno all’altare  perché imparino chi comanda. Poi minaccia il coro di vecchi che devono ricordare dou'loi gegw'te" th'" ejmh'" turannivdo" (251) di essere schiavi del mio potere

Il Coro  ricorda la semina dei denti compiuta da Ares.

 

 In altre versioni è Cadmo, in Stesicoro è Atena;  nelle Fenicie di Euripide Atena aveva consigliato a Cadmo di farlo (v.666)  

 

Dunque Ares seminò i denti dopo avere reso deserta  la vorace mascella del drago  lavbron dravkonto" ejxerhmwvsa" gevnun (253).  

I vecchi sono sdegnati perché gli Sparti, figli della terra non portano aiuto e accettano la sottomissione a uno straniero (kavkisto~ e[phlu", 257), e vigliacco. Poi lo mandano in malora Lico gli ricordano che Eracle non è nascosto tanto profondamente sotto terra.  La città di Tebe non è saggia (ouj eu\ fronei', 272) anzi è malata per la discordia stavsei nosou'sa (273) e pure per i cattivi consigli kai; kakoi'" bouleuvmasin.

 Tebe è l’antipolis malfamata dai tragici.

Interviene Megara consigliando una nobile rassegnazione alla morte. Inoltre suggerisce ai vecchi del coro di non esporsi troppo.

Dice al suocero che ama i propri figli che ha generato e per i quali ha tribolato –ejgw; filw` me;n tevkna: pw`~ ga;r ouj filw`-tevkna a{tikton, aJmovcqhsa; (281).

 

La sofferenza del parto. Una breve rassegna

Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli

 in casa, mentre loro combattono con la lancia,

 pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo

 preferirei stare che partorire una volta sola.

 (Euripide, Medea, vv, 248-251). Medea dunque avverte gli uomini che il parto può essere più tremendo della guerra.

 

 

 Medea risponde che preferisce la guerra al parto  inaugurando un tovpo" che arriva alle soldatesse di oggi ed è  passato attraverso Ennio (239-169 a. C.) il quale fa dire alla sua Medea exul :"nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel parere, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi che partorire una volta sola.

 

 Le sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra quando tenta di giustificarsi per il tradimento e l'assassinio del marito il quale sacrificò Ifigenia dopo averla seminata senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk i[son kamw;n[1] ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" (Elettra, vv. 531-532).

 

Nelle Fenicie di Euripide la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv,-kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è amante dei figli.

Giocasta lo è stata anche troppo (di Edipo); Medea evidentemente fa eccezione.

 

Nell' Ifigenia in Aulide di Euripide la corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola  ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia comune a tutte, tanto da soffrire oltremodo per i figli. 

 

Nei Memorabili di Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i benefici dei genitori alle proprie creature e il loro dovere di gratitudine, fa presente che il nascimento del figlio è rischio di vita della madre:" hJ de; gunh; uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te kai; kinduneuvousa peri; tou' bivou" (II, 2, 5), la donna dopo avere concepito porta questo peso, aggravata e con rischio della vita.  

    

In Anna Karenina c'è  il parto doloroso della giovane moglie di Levin il quale partecipa, mentalmente, alla sua sofferenza, forse ingrandendola :" La faccia di Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima, c'era qualcosa di terribile e per l'aspetto di tensione e per il suono che di là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L'orribile urlo non taceva, si era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato all'ultimo limite dell'orrore, a un tratto si spense" [2].

 

Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe, soffrì e morì di parto nel dare alla luce la seconda creatura: “Quando il dolore travalicò ogni limite umano, ella gridò e fu un gridare terribilmente selvaggio, che non si accordava con il suo volto e non si addiceva alla piccola Rachele. In quell’ora, infatti, in cui ancora una volta fu giorno, ella non era più in sé, non era più lei, lo si udiva da quel suo orrendo muggito: non era più lei, la sua era una voce completamente estranea…Erano doglie spasmodiche che non affrettavano l’opera, ma serravano soltanto in una morsa di tormenti infernali quella povera santa, così che la maschera del suo volto contratta nell’urlo era divenuta cianotica e le sue dita artigliavano l’aria…E poi da Rachele si levò un ultimo grido, come l’esplosione estrema di una furia demoniaca, quale non si può lanciare una seconda volta senza morire, quale non si può udire una seconda volta senza perdere la ragione…il figlio di Giacobbe era uscito, il suo undicesimo e il suo primo, venuto fuori dall’oscuro grembo insanguinato della vita, Dumuzi-Absu, il vero figlio dell’abisso”[3].

 

    Megara considera to; katqanei'n deinovn (282), ma chi si oppone alla necessità credo che sia skaio;n brotw'n (283 ottuso tra i mortali, cfr. scaevus, sinistro, incapace).

Non dobbiamo morire consumati dal fuoco dando motivo di riso ai nemici (ejcqroi'sin gevlwn-didovnta", Eracle,  285-286), cosa che per me è più grave della morte (ouJmoi; tou' qanei'n mei'zoin kakovn)

 

L’orrore della derisione

Il riso dei nemici.

Alla fine del I episodio Medea dice a se stessa:

“Su via, non risparmiare nulla di quello che sai,

Medea, nel progettare e nell'ordire:

procedi verso l’orrore: adesso è una prova di ardimento.

Vedi quello che subisci?  non devi esporti alla derisione –ouj gevlwta dei` s j ojflei`n-

 dei discendenti di Sisifo per queste nozze di Giasone,

tu che sei nata da nobile padre e discendi dal Sole.

E poi lo sai: oltretutto noi donne siamo

per natura assolutamente incapaci di nobili imprese,

ma le artefici più sapienti di tutti i mali. (401- 409)

L'orrore di essere derisa è un motivo, che ricorre  ed è tra quelli che scatenano la furia di Medea la quale non sopporta il disonore. Fallire non le dispiacerebbe tanto per il danno costituito dalla propria morte, quanto per la beffa subita dai nemici.

 

 Il riso come il pianto e il sorriso "non vengono appresi nel corso dell'infanzia ma sono innati. Le culture modulano diversamente le loro espressioni, possono indurre alla loro esibizione o alla loro inibizione, ma l'universalità di ciò che manifesta gioia, piacere, felicità, divertimento, tristezza, dolore, testimonia l'unità affettiva del genere umano. I grandi sentimenti sono in effetti universali: amore, tenerezza, affetto, amicizia, odio, rispetto, disprezzo"[4].

 

In questo caso Medea è mossa dal risentimento per il disprezzo che legge in quel gevlw" .

 

Anche la Medea di Apollonio Rodio, quando teme di essere lasciata da Giasone poco dopo averlo aiutato a conquistare il vello d’oro, lo minaccia dicendo che lui e gli altri Argonauti, se la abbandoneranno violando i patti, non resteranno lungo tempo tranquilli a schernirla (moi ejpillivzonte~, Argonautiche, 4, 389). Giasone allora si prese paura, e i due sciagurati ordirono l’assassinio di Assirto.

 

 

Nell' Aiace di Sofocle il Coro dei Marinai di Salamina dichiara il suo dolore per la degradazione dell'eroe resa evidente e penosa dal fatto che tutti sghignazzano (pavntwn kacazovntwn, v. 198). In questa tragedia il riso dei nemici è un Leitmotiv: poco più avanti (v. 367). lo stesso Telamonio lamenta di avere subito dai nemici l’ u{bri" della derisione-

 

  Nell’ Elettra di Sofocle, Oreste è spinto alla vendetta anche dal desiderio di togliere il riso dalla faccia dei nemici con la sua venuta:"gelw'nta" ejcqrou;" pauvsomen th'/ nu'n oJdw'/ " (v. 1295).

 

Quando Alessandro Magno si apprestava a fondare Alessandria  jescavth, l’ultima, sul fiume Tanai, gli Sciti d’Asia al di là del fiume lanciavano insolenze barbariche “barbarikw`~ ejqrasuvnanto[5] contro il comandante macedone per offenderlo, gridando che non avrebbe osato attaccarli. Quindi  Alessandro ordinò dei sacrifici che però non venivano bene; li fece ripetere e l’indovino Aristandro spiegò che essi indicavano un pericolo per  lui. Il condottiero macedone allora disse che era meglio affrontare l’estremo pericolo[6] (krei'sson e[fh ej" e[scaton kinduvnon ejlqei'n)  piuttosto che, dopo avere sottomesso quasi tutta l’Asia, gevlwta ei\nai Skuvqai~  (4, 4, 3),  essere oggetto di riso per gli Sciti, come era stato una volta Dario, il padre di Serse[7].

Questi re persiani sono due contromodelli.

Successivamente Alessandro attaccò xu;n ojrgh`/ , con ira, una fortezza impervia della Sogdiana provocato dall’altezzosità dei barbari. Questi, a una proposta di resa onorevole, gli avevano risposto ridendo (su;n gevlwti)  di cercarsi soldati con le ali per conquistare quel luogo impervio: “pthnou;~ ejkevleuon zhtei`n stratiwvta~” (4, 18, 6).

 

Nell’Olimpo rimpicciolito delle Argonautiche di Apollonio Rodio Era vuole aiutare Giasone perché prevalga sullo zio usurpatore  “affinché  non rida di me Pelia, sfuggendo alla sorte cattiva” (Argonautiche, 3, 64), dice ad Afrodite, chiedendole di mandare Eros a fare innamorare Medea del figlio di Esone.

 Giasone aveva aiutato la dea trasformatasi in una povera vecchia ad attraversare il fiume Anauro prendendola sulle spalle e portandola al di là dell’acqua impetuosa (vv. 72-73).

 

Nella Carmen di Bizet (libretto di Meilhac e Halévy tratto dal racconto di Mérimée) don José prima di uccidere la donna le dice che non sopporta di vederla correre entre ses bras rire de moi (IV, 2), tra le braccia del torero a ridere di me. Nell’ultima scena della trasposizione cinematografica di Otto Preminger ( Carmen Jones, 1954) Harry Belafonte dice a Dorothy Dandrige: “ I’ll have no man laugh at me while you’re rolling around in his arms”, non voglio subire alcun uomo che rida di me mentre tu ti rotoli tra le sue braccia.

Credo che una persona matura e cosciente del proprio valore possa valutare il riso sei suoi nemici quanto la sghignazzata delle iene in una gabbia.

Fine excursus

 

Noi prosegue Megera rivolta aa Anfitrione, siamo debitori alla nostra casa di molti atti nobili ojfeivlomen ga;r polla; dwvmasin kalav (297).

 Quelli dal buon gevno~  (oij eugenei'" 292) soffrono per l’ignominia dei figli e io non devo rinnegare l’esempio del mio uomo. Il quale del resto, nonostante la tua  speranza, non può tornare indietro dall’Ade. Lico è un nemico skaiov", ottuso e bisogna evitarlo, non si può trattare con lui, mentre si potrebbe trattare e fare concessioni sofoi'si kai; teqrammevnoi" kalw'" a quelli saggi e bene educati (300).

Implorare l’esilio significa cercare di ottenere una compassionevole indigenza (peniva oijktrav, 304), poi dicono che quelli che ti ricevono hanno il volto degli ospiti ta; xevnwn provswpa, 305 con gli amici in esilio feuvgousin fivloi", per un solo giorno  e}n hmar movnon (306)  

Dunque il consiglio è tovlma meq j hJmw'n qavnaton, o}" mevnei s j o{mw", devi osare con noi affrontare la morte che ti attende comunque.

 La proqumiva, il coraggio di chi lotta contro la sorte voluta dagli dei è  insensato, infatti nessuno potrà mai rendere non dovuto quelle che è necessario (311).

Dunque prokaloumeq j eujgevneian, w\  gevron, sevqen (308), faccio appello alla tua nobiltà o vecchio.

Il coro ribadisce la propria impossibilità di agire per la vecchiaia e la debolezza: nu'n  d j oujdevn esmen (314). Forse Anfitrione può fare qualcosa

Anfitrione chiede a Lico di ucciderlo prima dei bambini per non vedere tale spettacolo empio ajnovsion qevan (323)

Megara invece chiede di poter entrare nel palazzo dal quale sono chiusi fuori per prendere gli ornamenti funebri-kovsmon nekrw'n- 329- dei bambini.

Lico accoglie la richiesta: ouj fqonw' pevplwn (333). Una volta fatti belli, dice il tiranno, verrò per consegnarli alla terra  infera- h{xw dwvswn nertera/ cqoniv (335). 

 

Megara rivendica il palazzo paterno: figli, seguite il piede disgraziato della madre al palazzo paterno: ou| th'" oujsiva"-a[lloi kratou'si, to; dj o[nom j  [sq j hJmw'n e[ti ( Eracle, 337-338), del quale altri hanno la proprietà, ma il nome è ancora nostro[8].

 

Anfitrione lancia accuse a Zeus: “Zeus, invano ti ebbi come marito collega , w\ zeu', mavthn a[r j oJmovgamovn s j ejkthsavmhn  (339), e invano ti chiamavamo condivisore del figlio. Tu eri meno amico di quanto sembravi. Io che sono un mortale supero in virtù te che sei un dio grande -ajreth'/ se nikw' qeo;n mevgan (342): infatti i figli di Eracle non li ho traditi (pai'da" ga;r ouj prouvdwka tou;"   jHeraklevou", 343). E’ una delle critiche più forti di Euripide alle divinità tradizionali.

 

Un’altra critica  si trova nell’Andromaca contro la pretaglia delfica e Apollo.

Invano Neottolemo,  "il ragazzo di Achille"(Andromaca, v.1119) domanda:

"per quale ragione mi uccidete mentre percorro il cammino della pietà? per quale causa muoio? Nessuno di quelli, che erano migliaia e stavano vicini, mandò fuori la voce, ma gettavano pietre dalle mani"(vv. 1125-1128). Il clero non è estraneo a questo “crimine sacro”: a un certo punto, dai recessi dl tempio rimbombò una voce terribile e raccapricciante che aizzò quel manipolo e lo spinse a combattere (vv. 1146-1148). Il messo alla fine di questa rJh'si" accusa Apollo di essere w{sper a[nqrwpo" kakov" (v.1164), come un uomo malvagio, e domanda:"pw'"  a]n ou\n ei[h sofov";" (v. 1165), come potrebbe essere saggio?

A questo proposito G. De Sanctis scrive:"Ora può darsi che Euripide osasse porre in così cattiva luce Apollo profittando del mal animo degli Ateniesi verso il dio che spartaneggiava in quegli anni come poi filippizzò"[9].

 

Ma torniamo alle accuse di Anfitrione a Zeus: tu sapevi entrare di nascosto (kruvfio") nelle coltri (ej" eujnav"), prendendo i letti degli altri (tajllovtria levktra), sebbene nessuno te li desse, ma non sai salvare i tuoi figli. Sei un dio stupido,  oppure non sei giusto   ajmaqhv" ti" ei\ qeo;" h} divkaio" oujk e[fu" (344-347) .

 

Cfr. uno dei Silli di Senofane (VI sec.) dove Omero con Esiodo vengono attaccati poiché hanno attribuito agli dèi motivi di biasimo e vergogna anche per gli uomini: “klevptein, moiceuvein, te kaI ajllhvlou" ajpateuvein .

 

Pesaro 25 luglio 2022 ore 18, 54

 

p. s

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[1] Participio aoristo di kavmnw, "fatico", "soffro".

[2] L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877), p. 720.

[3] T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, Le storie di Giacobbe, pp. 413- 414.

[4] E. Morin, L'identità umana, p. 41.

[5] Arriano,  Anabasi di Alessandro, 4, 4, 2.

[6] Il maestro che spinge alle imprese pericolose è Pindaro la cui casa venne risparmiata da Alessandro Magno quando (335 a. C.) distrusse Tebe che si era ribellata.

Nell’Olimpica VI   si legge :“ ajkivndunoi d  j ajretaiv-ou[te par j ajndravsin ou[t j ejn nausi; koivlai"-tivmiai” ( vv. 9-11), virtù senza pericolo non hanno onore tra gli uomini, né sulle concave navi.

[7] Erodoto nel IV libro racconta che gli Sciti schierati davanti ai Persiani si misero a inseguire una lepre. Allora Dario capì che quegli uomini lo disprezzavano e comprese il significato del dono simbolico che aveva ricevuto : un uccello, un topo, una rana e cinque frecce. Era giusta l’interpretazione di Gobria: se diventati uccelli non volerete in cielo, o topi non andrete sotto terra, o rane non salterete nelle paludi, sarete trafitti da queste frecce(4, 132). Gobria, sentito della lepre, disse che vedeva che quegli uomini si prendevano gioco dei Persiani: “oJrw'n ejmpaivzonta" hJmi'n” (4, 134, 3).

  

[8] Cfr. il palazzo Martelli di Sansepolcro e il palazzo Scattolari di Pesaro.

 

[9]Op. cit. , II vol., p. 331.

1 commento:

  1. Ho completato ora la lettura: Euripide ci fa riflettere sull'essere umani e Eracle mostra il lato umano contro ogni manipolazione religiosa. Ma tra le tante sollecitazioni che nascono da un commento molto profondo, mi ha colpito la riflessione sul riso e sul pianto, che sono innati...il riso come scherno è chiaramente una manipolazione di una facoltà che nasce spontanea per esprimere un gradimento. Questo post è carico di suggestioni emotive. Bravo! I classici sono una grande cura per l'animo degli uomini!

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