mercoledì 27 luglio 2022

Eracle di Euripide. Dodicesima parte.


 

Quinto episodio  909-1015.

Entra il messo ad annunciare teqna'si pai'de" (912) poi stenavzeq Jw" stenaktav, piangete poiché è il caso di farlo. Spietato crimine, deleterie mani di genitori-davioi de; tokevwn cevre"- (915).

Il Coro chiede in quale modo e[suto qeovqen ejpi; mevlaqra kaka; tavde è balzata da un dio sulla casa questa rovina (920 aor II medio di seuvw, lancio)

 

Segue la rJh'si" del Messo (922-1015)

Si stava preparando un rito per purificare la casa, presenziava coro;" kallivmorfo" tevknwn (925) il gruppo leggiadro dei fanciulli, il padre e Megara. A un certo punto il figlio di Alcmena e[sth siwph'/, si arrestò in silenzio (930).  Poi cominciò a roteare gli occhi dall’aspetto sanguigno e faceva colare bava sul mento dalla bella barba (934).

 Poi con un riso forsennato (a[ma gevlwti parapeplhgmevnw/, 935, paraplhvssw, colpisco, m. sono colpito nella mente) Eracle disse che prima di compiere il rito, per non ripeterlo, deve uccidere Euristeo. Dunque ha fretta di partire per Micene dove scalzerà dalle fondamenta le mura ciclopiche. Poi fa il gesto di salire su un carro che non c’era e mostra di guidarlo. I servi ridevano e avevano anche paura e uno domandò: paivzei pro;" hjma'" despovth" h] maivnetai; (952) ci canzona il padrone o è pazzo? 

Quindi mima il viaggio e dice di essere arrivato nella città di Niso ( cioè a Megara), quindi  si stende al suolo (955) e si apparecchia il pranzo. Poi crede di dirigersi verso le piane selvose dell’istmo (958). Lì si denudava, gareggiava contro nessuno (pro;" oujdevn j hJmilla'to, 960) e dopo avere sollecitato l’attenzione si proclamava vincitore (viene in mente Nerone e la schiera dei politici quando pedono le elezioni vinte da chi non va ). Quindi pensa di essere arrivato a Micene e minaccia Euristeo. Allora il padre gli chiede quale sia il verso di quella alienazione (tiv" oJ trovpo" xenwvsew", 965)

 

Nella Medea di Euripide il coro nel V stasimo ricorda che Ino venne rese pazza dagli dèi e la moglie di Zeus la mandò fuori dalla casa per vagabondaggio (a[lh/, 1284) con turbamento mentale.

 

 

 Eracle prepara la faretra e l’arco per ammazzare i suoi figli credendoli figli di Euristeo. I tre bambini sono terrorizzati. Uno si aggrappa alle vesti della madre, un altro si nasconde uJpo; kivono" skiavn (973) all’ombra di una colonna, un altro o[rni" w[" si rannicchiò sotto l’altare (974).

 

Il paragone tra il bambino destinato a essere ucciso e l’uccellino si trova anche nelle Troiane

O figlio, tu piangi: ti accorgi dei tuoi mali?

Perché mi hai afferrata con le mani e ti tieni stretto alle vesti, 750

Come un uccellino rifugiandoti nelle mie ali?

Domanda Andromaca

 

Astianatte piange e cerca rifugio neosso;~ wJseiv (751), come un uccellino sotto le ali della madre. Tutte le fatiche per partorirlo e allevarlo sono state spese a vuoto (dia; kenh`~, 758) e invano (mavthn, 760).

Andromaca chiede al bambino di abbracciare th;n tekou`san (v. 761) colei che lo ha partorito.

 

Megara, Anfitrione e anche i servi gridano, ma Eracle rincorrendo il fanciullo intorno alla colonna, bavllei pro;" h|par, lo colpisce al fegato (979). Il sangue arrossa la pietra. Eracle allora gridò l’alalà della vittoria hjlavlaxe (981)

 

Cfr. Antigone  Parodo  dove

Zeus che detesta le millanterie/di grossa lingua, avendoli visti/venire avanti con grande flusso/nella tracotanza armata dello strepito dell'oro,/con il fuoco scagliato, ributta/chi sulle cime degli spalti/già si lanciava a gridare l'alalà della vittoria” (oJrmw'nt j(a)  ajlalavxai), vv. 127- 133

In questi giorni lo stanno facendo i portavoce di tutti i partiti in vista del voto che li farà cadere dagli spalti.

 

Eracle poi si vanta di avere ucciso un neossov" un pulcino di Euristeo. Il piccolo ha pagato per l’odio del padre che aveva avuto da Era facoltà di ordinare le imprese a Eracle. Poi tende l’arco contro il figlio rannicchiato vicino all’altare. Questo bambino si comporta da supplice cadendo in ginocchio e gettando la mano al mento e al collo del padre. Gli chiede la grazia rivendicando la propria identità di figlio . Ma il padre ruotando un feroce occhio di Gorgone (oJ d j ajgriwpo;n o[mma Gorgovno" strevfwn, 990) al modo del fabbro che batte il ferro rovente- mudroktuvpon mivmhm j  992, abbattè la clava sul capo biondo del figlio e ne frantumò le ossa –e[rrhxe d j ojsta' (994).

 

Viene in mente il fabbro di Tegea

Nei capitoli 67-68 del primo libro delle Storie , Erodoto racconta che gli Spartani al tempo di Creso erano riusciti a sconfiggere i Tegeati solo dopo essere ricorsi alla Pizia di Delfi, la quale, interrogata, aveva risposto che dovevano riportare in patria le ossa di Oreste.

E siccome i Lacedemoni non le trovavano, erano tornati a chiederle aiuto.

Ella allora aveva cantato, in esametri: "c'è in Arcadia una Tegea, in luogo piano,/dove due venti soffiano per possente necessità,/ e colpo e contraccolpo, e male su male si posa" (kai; tuvpo" ajntivtupo", kai; ph'm  j ejp  j phvmati kei'tai,  I, 67, 4). Lì era sepolto Oreste[1] e di lì bisognava portarlo via  per vincere i Tegeati. Fu Lica , uno dei benemeriti ( tw'n ajgaqoergw'n I, 67, 5), specie di ambasciatori, a trovarlo , avvalendosi del caso e della sua sapienza[2] (kai; suntucivh/ crhsavmeno" kai; sofivh/, I, 68, 1). Quest'uomo dunque, andato a Tegea, in una fucina osservava la lavorazione del ferro e aveva un'aria di meraviglia mentre guardava (ejn qwvmati h\n oJrevwn I, 68, 1). Il fabbro allora gli disse che se avesse visto ciò che aveva trovato lui , avrebbe avuto ragioni più forti per meravigliarsi: infatti, scavando nel suo cortile per fare un pozzo, aveva scoperto una tomba con un cadavere di sette cubiti, ossia lungo più di tre metri. Quindi lo aveva riseppellito. Allora Lica congetturava che quelli erano i resti di Oreste. Infatti osservando i due mantici trovava che erano i venti (ajnevmou" eu{riske ejovnta", I, 68, 4), l'incudine e il martello erano il colpo e il contraccolpo (tovn te tuvpon kai; to;n ajntivtupon), e, il ferro lavorato, il male posato su male (to; ph'ma ejpi; phvmati keivmenon) desumendolo più o meno dal fatto che il ferro è stato inventato per il male dell'uomo :" ejpi; kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai".

Bellissimo mito contro la guerra che si fa con il ferro.

 

Poi Eracle si scaglia contro la terza vittima per sgozzarla sulle altre due. La madre però lo precede e porta il bambino dentro il palazzo. Allora l’impazzito impazzito, come se fosse davanti alle mura ciclopiche, scalza la porta, solleva i battenti, demolisce gli stipiti e con una sola freccia ammazza la moglie e il figlio. Quindi si lancia al galoppo per uccidere il vecchio- kajnqevnde pro;" gevronto" ijppeuvei fovnon (1001).

La pazzia è regressione verso la bestialità, l’ibrido della Gorgone e il primitivo.

A questo punto giunge Pallade che getta un masso sul petto di Eracle.

 Il colpo della dea pone fine alla strage furente e getta il pazzo nel sonno.

E’ giunta la dea intelligente per concludere l’imbestiamento di Eracle.

Allora i servi lo legano a una colonna. Il messo finisce il racconto dicendo: non so se ci sia uno più sventurato tra i mortali (ajqliwvtero", 1015).

a[qlio" è chi fa le gare e magari vince il premio (a\qlon) ma è anche lo sventurato costretto continuamente all’a\qlo", alla gara, alla prova.

 

Cfr. Odissea: Ulisse poté tornare a Itaca ma neppure là era sfuggito alle prove".-eij"  jIqavkhn, oujd j e[nqa pefugmevno" h\en ajevqlwn   v. 18

Pesaro 27 luglio 2022 ore 10, 08

giovanni ghiselli

p. s

cinque minuti di pausa per il secondo caffè poi riprenderò;: voglia di fare, voglia di fare! No posso fuggire davanti alle prove.

 

 

 

 

 



[1] “Attorno a certe tombe eroiche gravava l’obbligo del segreto, appunto per custodirne i poteri: Plutarco (de genio Socratis, Mor. 578b) racconta che la tomba di Dirce a Tebe era nota solo all’ipparco; quando questi usciva dalla carica, rivelava il luogo, in segreto e di notte, solo al suo successore. Non era un caso isolato: tombe segrete avevano gli eroi Sisifo e Neleo (Pausania, II, 2, 2); Oreste a Tegea (Erodoto I 67, 3), Teseo a Sciro (Plutarco, cim. 8, 3)” (Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, pp. 364-365).

 

[2] la sapienza autentica secondo Erodoto:  la sofiva che interpreta gli oracoli correttamente e obbedisce agli dèi..

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