venerdì 8 luglio 2022

Nietzsche La nascita della tragedia (1872)


 

Prefazione a Richard Wagner da Basilea fine d’anno del 1871

Nel frontespizio c’è Il Prometeo liberato.

L’arte non è un tintinnio di sonagli di fronte alla serietà dell’esistenza, ma il compito più alto e la vera attività metafisica di questa vita.

 

Aggiungo che se fosse un tintinnio sarebbe quello del sistro di Iside che richiama alla vita umana gli uomini degradati ad asini o ad altre bestie.

Cfr. L’XI libro dell’Asino d’oro di Apuleio. Tutto quanto è qui solo accennato e potrà venire spiegato se ne sarò richiesto.

 

I capitolo (pp. 21-26)

Lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, come la generazione alla dualità dei sessi, in una continua lotta e riconciliazione periodica.

Apollo significa l’arte dello scultore e Dioniso l’arte non figurativa della musica.

Quando questi due impulsi artistici si accoppiano, nasce la tragedia attica. I fenomeni fisiologici corrispondenti sono il sogno per l’apollineo e l’ebbrezza per il dionisiaco.

Nietzsche menziona Lucrezio (De rerum natura, V, 1169-1182) quando scrive che gli uomini già nei tempi remoti vedevano da svegli, e ancora di più nei sogni (et magis in somnis) le straordinarie immagini degli dèi (egregias facies deum).

N. poi cita i Maestri cantori[1] dove Hans Sachs dice che ogni poesia è interpretazione di sogni.

Il mondo dei sogni è il presupposto di ogni arte figurativa e di parte essenziale della poesia. Ma il sogno è illusione, anzi l’uomo filosofico ha il presentimento che questa realtà che viviamo ne copra un’altra più reale.

Schopenhauer sostiene che segno dell’attitudine filosofica è vedere tutte le cose come meri fantasmi e immagini di sogni (cfr. Pindaro,  Pitica VIII, 95-96 "skia``~ o[nar-a[nqrwpo~, sogno di ombra è l’uomo).

Cfr. la condensazione di Freud.

 

L’artista si spiega la vita in base a queste immagini e le vive come reali, non senza però la coscienza dell’illusione. C’è comunque il piacere del sogno.

Il dio dei sogni è Apollo. Egli è il risplendente, la divinità della luce,  secondo la sua etimologia.

 

Apollo Liceo

--Forse N. etimologizza l'epiteto di Apollo Luvkeio~ con luvkh, (luce crepuscolare), ma Luvkeio~ significa della Licia -Lukiva- o dei lupi (luvko~).

Cfr. Edipo re di Sofocle,  "Signore Liceo (Luvkei j anax)/io vorrei che dalle funi d'oro intrecciato/fossero scagliati dovunque i tuoi dardi indomabili. (vv. 203-205).."-luvkei (e): è da collegarsi a luvko", lupo.

 Nell'Elettra (v.6) Sofocle chiama Apollo "lukoktovno" qeov"", il dio uccisore dei lupi. Chi sono i lupi? Probabilmente gli uomini empi e sfrontati, i demagoghi rapaci e guerrafondai.

 

Il coro de I sette a Tebe  (v.145 e sgg.) invoca Apollo con il grido "luvkei j a[nax, luvkeio" genou'" signore liceo, diventa liceo, ossia distruggi l'esercito aggressore, fagli pagare i nostri lamenti.

 

Plutarco nella Vita di Solone ricorda che è usanza antica per gli Ateniesi combattere contro i lupi,: “ ajrcai`on de; toi`~  j Aqhnaivoi~ to; polemei`n toi`~ luvkoi~” (23, 4), poiché l’Attica è un territorio adatto più al pascolo che all’agricoltura.


 

Torniamo a Nietzsche: Le immagini del sogno appaiono meno imperfette della realtà quotidiana “solo lacunosamente intelligibile”, quindi sono in rapporto simbolico con le arti (cfr. Freud).

Le immagini apollinèe sono differenti dalla realtà grossolana: manifestano la calma piena di saggezza e l’occhio solare del dio plastico dal quale spira la solennità della bella parvenza.

Può valere per tale parvenza quanto scrive Schopenhauer dell’uomo irretito nel velo di Maia “il velo ingannatore che avvolge gli occhi dei mortali” (Il mondo come volontà e rappresentazione, p. 35).

 Sch. cita Pindaro (cfr. supra) e l’Aiace di Sofocle ( oJrw` ga;r hJma`~ oujde;n o[nta~ a[llo plh;n-ei[dwl j o{soiper zw`men, h] koufvhn skiavn” vv. 125-126), vedo che noi, quanti viviamo, non siamo altro che fantasmi e vana ombra.

 

La lezione di Schopenhauer

N. cita Schopenhauer: “come sull’infuriante mare che ululando innalza montagne d’onde, un navigante siede su un battello confidando nella debole imbarcazione; così l’individuo sta placidamente in mezzo a un mondo di affanni, appoggiandosi fidente sul principium individuationis” (Il mondo come volontà, IV, 63, p. 463).

Il velo di Maia è il fenomeno, l’apparenza ingannevole.

Infatti “Una e identica volontà è quella che in tutti vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicenda” (III, 51, p. 341). Alla fine delle tragedie vediamo nei più nobili caratteri la rassegnazione, la rinunzia agli scopi perseguiti, all’intera volontà di vivere.  Così Amleto, così Margherita nel Faust, così la Fidanzata di Messina. Muoiono tutti purificati dal dolore (p. 341)

 

Torniamo a N. che ha un’altra opinione del Principium individuationis: Apollo è “la magnifica immagine divina del Principium individuationis” In lui si vede tutta la gioia, la saggezza e la bellezza della parvenza (p. 24)

 

Il dionisiaco è la negazione del Principium individuationis.

 Il dionisiaco ha analogia con l’ebbrezza. Con il dionisiaco “l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé”.

 Nel medioevo tedesco schiere di persone si agitavano sotto lo stesso potere dionisiaco cantando e danzando.

Erano i danzatori di San Giovanni e di San Vito, epigoni delle schiere bacchiche dei Greci con la loro presistoria in Asia Minore, fino a Babilonia.

Gli ottusi considerano tali manifestazioni come malattie mentali : “i poveretti non sospettano certo quanto cadaverica e spettrale apparirebbe questa loro “sanità”, quando passasse loro accanto fremendo la vita ardente degli invasati da Dioniso”.

 

 Il dionisiaco in Bernard Shaw

Adolph Cusins, il fidanzato di Barbara, maggiore dell’esercito della salvezza nella commedia di Bernard Shaw, dice al futuro suocero, il padre di Barbara, ricchissimo fabbricante di armi: “You do not understand the Salvation Army. It is te army of joy, of love, of courage…It takes the poor professor of Greek, the most artificial and self-suppressed of human creatures, from his meal of roots, and lets loose the rhapsodist in him; reveals the true worship of Dionysos to him; sends him down the public street drumming dithyrambs[2], Tu non capisci l’Esercito della Salvezza. E’ l’esercito della gioia, dell’amore, del coraggio…Porta via il povero professore di Greco, la più artificiale e autorepressa delle creature dal suo pasto di radici, e libera il rapsodo che è in lui; rivela in lui il vero cultore di Dioniso; lo manda nella pubblica strada a tambureggiare ditirambi. 

 

 

Il dionisiaco in Pasolini

Pasolini su Dioniso e Penteo nelle Baccanti di Euripide

 

“Egli è venuto in forma umana a Tebe per portare amore (ma mica quello sentimentale e benedetto dalle convenzioni!), e invece porta il dissesto e la carneficina. Egli è l’irrazionalità che cangia, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dalla dolcezza all’orrore. Attraverso essa non c’è soluzione di continuità tra Dio e il Diavolo, tra il bene e il male (Dioniso si trasforma, appunto, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dal giovane pieno di grazia che era al suo primo apparire in un giovane amorale e criminale).

Sia come apparizione “benigna” che come apparizione “maledetta”, la società, fondata sulla ragione e sul buon senso-che sono il contrario di Dioniso, cioè dell’irrazionalità-non lo comprende. Ma è la sua stessa incomprensione di questa irrazionalità che la porta irrazionalmente alla rovina (alla più orrenda carneficina mai descritta in un’opera d’arte). Sono gli I. M. , per citare Elsa Morante, gli Infelici Molti, ossia la maggioranza, o la media, fondata sulla razionalità e sul buon senso, che non comprendono la grazia di Dioniso, la sua libertà, e, perciò, finiscono atrocemente nella strage: di cui peraltro la irrazionalità stessa è patrona. Quanti Péntei, nella nostra società (…) I Pentéi italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi ”[3].

 

 

 

“Sotto l'incantesimo del Dionisiaco non solo si stringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata, celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l'uomo.

 La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi l'inno alla gioia di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l'immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s'infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la moda sfacciata hanno stabilite fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell'armonia universale, ognuno di sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria"[4].

 

 

Cfr. Il primo Stasimo delle Baccanti.

Ant. b Il demone figlio di Zeus

gioisce delle feste,

e ama Irene che dona benessere,

dea nutrice di figli.                                                                        420

Uguale al ricco e a quello di rango inferiore

concede di avere la

 gioia del vino che toglie gli affanni (vv. 417-423)

 

 

L'Inno Alla gioia è originariamente un componimento giovanile di Friedrich Schiller (1759-1805). Con questa ode il poeta intendeva esprimere la sua visione idealistica sullo sviluppo di un legame di fratellanza fra le persone: « L'uomo è per ogni uomo un fratello! Che tutti gli esseri si abbraccino! Un bacio al mondo intero! ».

Beethoven condivise questa visione e scelse di musicare la poesia di Schiller nel movimento finale della sua Nona Sinfonia, che compose nel 1823. Il risultato fu la famosa melodia dell''Inno alla gioia'.

 

 

An die Freude

Freude, schöner Götterfunken,
Tochter aus Elysium,
Wir betreten feuertrunken ,
Himmlische, dein Heiligtum.
Deine Zauber binden wieder,
Was die Mode streng geteilt
Alle Menschen werden Brüder,
Wo dein sanfter Flügel weilt.
Wem der grosse Wurf gelungen,
Eines Freundes Freund zu sein,
Wer ein holdes Weib errungen,
Mische seinen Jubel ein!
Ja, - wer auch nur eine Seele
Sein nennt auf dem Erdenrund!
Und wer's nie gekonnt, der stehle
Weinend sich aus diesem Bund!
Freude trinken alle Wesen
An den Brüsten der Natur;
Alle Guten, alle Bösen
Golgen ihrer Rosenspur!
Küsse gab sie uns und Reben
Einen Freund, geprüft im Tod!
Wollust ward dem Wurm gegeben,
Und der Cherub steht vor Gott!
wie Froh, seine Sonnen fliegen
Durch des Himmels prächt'gen Plan,
Laufet, brüder, eure Bahn,
Freudig, wie ein Held zum Siegen.
Seid umschlungen, Millionen!
Diesen Kuss der ganzen Welt!
Brüder, über'm Sternezelt
Muss ein lieber Vater wohnen
Ihr stürzt nieder, Millionen?
Ahnest du den Schöpfer, Welt?
Such' ihn über'm Sternenzelt!
Über Sternen muss er wohnen!

 

Alla gioia

Gioia, bella scintilla divina,
figlia dell’Elisio
noi entriamo ebbri e frementi,
celeste, nel tuo tempio.
La tua magia ricongiunge
ciò che la moda ha rigidamente diviso,
tutti gli uomini diventano fratelli,
dove la tua ala soave freme.

L'uomo a cui la sorte benevola,
concesse di essere amico di un amico,
chi ha ottenuto una donna leggiadra,
unisca il suo giubilo al nostro!
Sì, - chi anche una sola anima
possa dir sua nel mondo!
Chi invece non c'è riuscito, lasci
piangente e furtivo questa compagnia!
Gioia bevono tutti i viventi
dai seni della natura;

tutti i buoni, tutti i malvagi
seguono la sua traccia di rose!
Baci ci ha dato e uva ,
un amico, provato fino alla morte!
La voluttà fu concessa al verme,
e il cherubino sta davanti a Dio!
Lieti, come i suoi astri volano
attraverso la volta splendida del cielo,
percorrete, fratelli, la vostra strada,
gioiosi, come un eroe verso la vittoria.
Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio (vada) al mondo intero
Fratelli, sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.
Vi inginocchiate, moltitudini?
Intuisci il tuo creatore, mondo?
Cercalo sopra il cielo stellato!
Sopra le stelle deve abitare!

 

 

 

 

"Con il termine "dionisiaco" si esprime: un impulso verso l'unità, un dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà, come abisso dell'oblio…un'estatica accettazione del carattere totale della vita…la grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vita…

Con il termine apollineo si esprime: l'impulso verso il perfetto essere per sé, verso l'"individuo" tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte… Lo sviluppo ulteriore dell'arte è legato all'antagonismo di queste due forze artistiche della natura così necessariamente come lo sviluppo ulteriore dell'umanità è legato all'antagonismo dei sessi. La pienezza della potenza e la moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa: l'apollinismo della volontà ellenica"[5].

 

 Poco più avanti Nietzsche aggiunge che il greco dionisiaco ha bisogno di divenire apollineo, ossia di spezzare la sua inclinazione verso l'immane e l'incerto mediante una volontà di misura e ordine: “ Nel fondo del Greco c'è la mancanza di misura, la caoticità, l'elemento asiatico: la prodezza del Greco consiste nella lotta con il suo asiatismo: la bellezza non gli è donata, non più della logica, della naturalezza dei costumi-esse sono conquistate, volute, strappate- sono la sua vittoria"[6].

 

L’apollineo è la giustificazione estetica della vita umana terrorizzata dai mostri del Caos primordiale e negata dalla cupa tristezza silenica che giudica non essere nati, non essere, la cosa più bella.

 

Nietzsche mette in rilievo, oltre al valore della bellezza, quello della misura nella sfera dell'apollineo:"Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per poterla osservare, la conoscenza di sé. E così, accanto alla necessità estetica della bellezza, si fa valere l'esigenza del "conosci te stesso" e del "non troppo", mentre l'esaltazione di sé e l'eccesso furono considerati i veri demoni ostili della sfera non apollinea, dell'età titanica, e del mondo extraapollineo, cioè del mondo barbarico"[7].

 

Per quanto riguarda il valore dell’arte che ribalta la triste sapienza silenica, sentiamo O. Wilde: “and that is the function of Literature to create, from the rough material of actual existence, a new world that will be more marvellous, more enduring, and more true than the world that common eyes look upon, and through which common natures seek to realize their perfection[8], e questa è la funzione della Letteratura, creare dal materiale grezzo dell’esistenza reale, un nuovo mondo che sarà più meraviglioso, più duraturo e più vero del mondo sul quale occhi comuni gettano lo sguardo e attraverso il quale nature comuni cercano di realizzare la loro perfezione.

 

Del resto per Wilde è la vita che imita l’arte, non viceversa come sostiene Aristotele  nella Poetica  l’Amleto di Shakespeare.

 

Oscar Wilde  in La decadenza della menzogna  (del 1889) sostiene che non è l’arte a imitare la vita, ma il contario:"La  vita imita l'arte assai più di quanto l'arte imiti la vita...Un grande artista inventa un tipo, e la vita tenta di copiarlo, di riprodurlo in forma popolare...I greci, con il loro rapido istinto artistico, capirono questo, e mettevano nella stanza della sposa la statua di Ermes o di Apollo, affinché ella potesse generare figli altrettanto ben formati delle opere d'arte che contemplava nell'estasi o nel dolore. Sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele...Schopenhauer ha analizzato il pessimismo che caratterizza il pensiero moderno, ma Amleto lo ha inventato. Il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica.

Il nichilista, quello strano martire che non ha fede, che va al patibolo senza entusiasmo, e muore per quello in cui non crede, è un prodotto puramente letterario. Esso fu inventato da Turgenev e completato da Dostoevskij"[9] 

 

 

 

 Sull’apollineo sentiamo anche Nilsson: “Sul tempio di Apollo in Delfi era scolpito il precetto famoso: Gnothi seauton! Conosci te stesso! Nessun altro ordine è stato mai ripetuto tante volte. Per noi esso è un imperativo che ci richiama alla sfera della coscienza, per i Greci d’allora significava “Sappi che tu sei un uomo, soltanto un uomo!”. Questa massima riassume nella sua essenza quanto la religione apollinea insegna sul rapporto che è tra l’uomo e gli dèi. L’uomo deve avere coscienza della sua debolezza e della onnipotenza degli dèi e sottomettersi ad essi. Insieme con questo motto Platone[10] ne ricorda un altro: Meden agan! Nulla di troppo! E dice ancora che, entrando nel tempio di Apollo, ci si trovava di fronte l’ammonimento: Sophronei!   Il significato che un simile verbo ha è difficile a rendere; si potrebbe forse dire: abbi senno! E cioè, usa una saggia misura, renditi conto del posto che t’è dato nel mondo ed evita di essere superbo sia verso gli dèi che verso gli uomini! Questo monito ci riconduce, in altri termini, al medesimo ordine di idee che è presupposto al “Nulla di troppo!”.

Pindaro esprime lo stesso concetto in maniera più incisiva ammonendo: Se la sorte ti è favorevole, “non volere essere Zeus. Ai mortali convengono cose mortali”[11][12] ( qnata; qnatoi`si prevpei , 16)

Nel Protagora Socrate dice che le frasi brevi e stringate come gnw`qi seautovn e mhde;n a[gan vengono dagli Spartani che erano televw~ pepaideumevnoi, compiutamente educati ; nel Carmide,  Crizia dice che conoscere se stesso è l’essenza della swfrosuvnh e Conosci te stesso e swfrovnei sono la stessa cosa. Ma Socrate non si accontenta di questo e alla fine Crizia deve annettere che la scienza suprema è la conoscenza del bene e del male.

Nel Fedro Socrate dice: io non sono ancora in grado di conoscere me stesso kata; to; Delfiko;n gravmma, perciò mi sembra ridicolo geloi`on dhv moi faivnetai indagare cose che mi sono estranee - ta; ajllovtria skopei`n. Dunque dico addio a tali questioni, esamino me stesso skopw` ejmautovn, per vedere se per caso io non sia una bestia più intricata e più invasa da brame di Tifone o se sono un essere vivente (zw`/on) più mite e semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di superbia fumosa (Fedro, 230a)

  

 Ma torniamo alla Nascita della tragedia: danzando e cantando l’uomo disimpara a camminare ed è in punto di volarsene in cielo. Nasce l’incantesimo: gli animali parlano, la terra dà latte e miele, l’uomo in estasi si sente come un dio.

 

Pesaro 8 luglio 2022 ore 18, 28

giovanni ghiselli

 



[1] Die Meistersinger  von Nürnberg) è il titolo di un'opera di Richard Wagner in tre atti, composta fra il 1862 e il 1867. La prima dell'opera ebbe luogo alla Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera il 21 giugno 1868, sotto la direzione di Hans von Bülow con successo ed alla presenza del compositore e del re Luigi II di Baviera, patrono del compositore. La vicenda si svolge a Norimberga verso la metà del XVI secolo: a quel tempo, Norimberga era un libero comune imperiale e uno dei centri del Rinascimento nordeuropeo. Al centro della storia vi è la realmente esistita corporazione dei Meistersinger (Maestri Cantori), un'associazione di poeti e musicisti "dilettanti", provenienti soprattutto dai ceti artigiani e popolari. I maestri cantori svilupparono una serie di regole loro proprie di composizione e di esecuzione, che Wagner studiò dettagliatamente: l'opera I maestri cantori di Norimberga deve parte del suo fascino anche alla fedele ricostruzione storica della Norimberga dell'epoca e delle tradizioni della corporazione dei Maestri cantori. Il poeta-ciabattino Hans Sachs, uno dei protagonisti principali, è un personaggio storico realmente esistito: Hans Sachs (1494-1576) fu il più famoso dei maestri cantori e una delle figure più amate della letteratura tedesca delle origini.

 

 

[2] Major Barbara, 1905, Act II.

[3] Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società,p p. 1142-1143

[4] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, pp. 25-26.

[5] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888-14, p. 216.

[6] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888-14, p. 217.

[7] La nascita della tragedia, p. 37.

[8] The critic as artist, p. 63.

[9] In O. Wilde, Opere , trad. it. Mondadori, Milano, 1982, pp. 222-224

[10] Platone, Prot. , 343 A; Charm., 164 D.

[11] Pindaro, Istm., V, vv. 13 ss.

[12] Nilsson, Religiosità greca, p. 64.

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