Ieri c’era Mattia
Sartori dalla Annunziata.
Non voglio unirmi al coro
degli adulatori sempre pronti a saltare sui carri vincenti o presunti tali.
Mi sento anzi in dovere di fare delle
critiche possibilmente utili a un giovane che mi ha fatto venire in mente
alcuni miei studenti dei licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di
Bologna dove ho insegnato dal 1975 al 2010.
Dal 2000 al 2010 anche nella SSIS
dell’Università, a contratto. Dal 1969 al 1975 insegnavo ai bambini delle medie, in un paese del Veneto, Carmignano di Brenta. Dal 1950 al 1968 sono stato scolaro, prima a Pesaro poi a Bologna. Da quando sono in pensione tengo conferenze in biblioteche, licei, associazioni culturali, università.
Voglio dire che ho passato e passo la vita nella scuola e lo rifarei. Se rinascerò, lo rifarò. Ora che mi sono presentato, come di dovere, entro in medias res.
Bella è l’idea della
rinascita dell’agorá politica, magari festosamente politica e promotrice
di relazioni umane che sostituiscano, almeno in parte, quelle virtuali.
Sartori ha detto: “ci
riteniamo un anticorpo del populismo” senza specificare che cosa è secondo lui
il populismo. Dovrebbe farlo poiché questa parola è un camaleonte lessicale e
assume diversi significati a seconda di come viene usata e da chi. Al pari di nomos nell’Antigone di Sofocle. Per non rimanere su una disputa nominalistica
dovrebbe dunque essere chiarito che cosa è il populismo e come ostacolarlo.
Poi: “Abbiamo una forte
polemica contro l’antipolitica”. Anche qui è necessario specificare come si
possa combattere l’impoliticità che, concordo, fa parte di ogni fascismo e
menefreghismo. Secondo me la politica, come interessa e come vita, va
ripristinata con la scuola, la lettura,
la cultura. A partire dalla letteratura politica, la storia politica, la
filosofia politica, l’arte politica. Nel senso che tratti della polis, della
comunità.
Poi ho sentito parlare del
“corpo che non è manipolabile”. Il nostro fragile, effimero corpo, spesso assimilato alle foglie,
purtroppo lo è. Ma c’è il corpo dell’umanità che è un grande organismo del
quale facciamo parte tutti, e bisogna indicare questo come ente sacro.
Allora rileggiamo, per
esempio, questo brano di Devotions upon
Emergent Occasion di John Donne (1572-1631):" Nessun uomo è un'isola conclusa in sé;
ogni uomo è una parte del Continente, una parte del tutto. Se il mare spazza
via una zolla, l'Europa ne è diminuita, come ne fosse stato spazzato via un
promontorio (…) la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché io appartengo
all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi suona la campana
("for whom the bell tolls "[1] ); suona per te”.
Allora condanniamo gli
omicidi dei guerrafondai, di quanti scimmiottano Ares “il dio disonorato dagli
dèi” (Sofocle, Edipo re, 215), dei bolidi
pilotati da assassini ubriachi, dei vari crimini insomma che sono atti da escludere
dal corpo dell’umanità.
Anche la storia, come
notava già Polibio, è diventata un tutto organico da quando è accaduto che le
vicende dei vari continenti sono intrecciate sumplékesthai (I, 3, 4) tra loro, da separate che erano.
Il corpo di ciacuno di noi
dunque deve essere associato a quello dell’umanità, della storia, del globo
terrestre. Anche il corpo del mondo infatti sta soffrendo. Poi l’allegria va
benissimo, per carità, il sorriso sul volto è simpatico, però, se posso darvi dei consigli
da vecchio professore-educatore di tanti giovani bolognesi, anche il dolore va esaminato, e non certo per piangerci sopra bensì
per trarne comprensione e bellezza come insegna Eschilo nell’Agamennone.
Sia chiaro a tutti che in cambio
di queste parole non chiedo niente per me, nemmeno una risposta, ma provate a rifletterci sopra se volete
durare.
Saluti e salute a tutti
giovanni
ghiselli
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