Seconda parte
della
conferenza che terrò nel Liceo classico M. Tondi di San Severo durante la notte
di Licei (17 gennaio 2020)
Disumana è la scortesia
Un individuo simile a Cnemone è quello che
impersona La scortesia , il XV dei Caratteri di
Teofrasto: " La scortesia (aujqavdeia, parola che
implica anche prepotenza e narcisismo) è durezza nel relazionarsi con le
parole, e lo scortese è il tipo, se riceve la domanda - dov'è il tale? - ,
capace di rispondere - non mi dare briga - (pravgmatav moi mh; pavrece)".
Disumana è la misantropia
Disumano allora è "chi non è amichevole con
nessuno, chi si tiene lontano da tutti con diffidenza" ne inferisce Snell (Poesia e società,.
p. 151) che in una nota cita anche Shakespeare:"He' s opposite to
humanity ", è un nemico del genere umano, detto di Apemanto,
filosofo senza creanza, in Timone d'Atene (I, 1).
Il misantropo Timone di Atene
Lo stesso Timone diventa misantropo in seguito
all’ingratitudine di quanti aveva beneficato: “I am Misanthropos, and hate
mankind.
Poi, rivolto ad Alcibiade dice: “for thy part, i do
wish thou wert a dog, that I might love thee something”, (IV, 3), per quanto
riguarda te, io vorrei che fossi un cane, così che potrei amarti almeno un po’.
Questo misantropo di Shakespeare ricordato già
da Plutarco[1] fa scrivere sulla propria tomba tale epitafio:
« Here
lies a wretched corpse of wretched soul bereft:
Seek not my name: a plague consume you wicked caitiffs left!
Seek not my name: a plague consume you wicked caitiffs left!
Here lie I,
Timon, who alive, all living men did hate,
Pass by, and curse thy fill, but pass and stay not here thy gait. » (V, 4),
Pass by, and curse thy fill, but pass and stay not here thy gait. » (V, 4),
Qui giace un
misero corpo privato di misera anima: non cercate il mio nome: una pestilenza
vi cosumi malvagi codardi superstiti!
Qui
giaccio Timone, io che da vivo odiai tutti gli uomini,
passa e
impreca a sazietà, ma vai altrove e non fermare qui il tuo passo!
Disumano è pertanto Cnemone il Dyskolos di
Menandro, un uomo che non si adatta a una società di persone civili e cortesi.
Un uomo disumano assai (ajpavnqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra, 6),
intrattabile (duvskolo" appunto) con tutti, che non ama la gente"(v,7).
Egli, ci informa Pan, "ha sposato una vedova"(14) che aveva già un figlio, Gorgia, e
con lei litigava sempre. Poi "gli
nasce una bambina: peggio ancora"(19 - 20).
Se Cnemone dunque è un disumano chi è umano secondo
Menandro?
Colui che si adatta ad una società borghese,
leggera, cortese priva di precise convinzioni politiche e morali, come
suggerisce Snell in Poesia
e società “Nel prologo il dio Pan definisce il dyskolos, l’eroe della
commedia, un ajpavnqrwpo" a[nqrwpo" (v. 6), un uomo disumano. Che significa uomo? E’ disumano chi non è
amichevole con nessuno, chi si tiene lontano da tutti con diffidenza.
Un'espressione del genere si confà a un
personaggio siffatto di Terenzio: Demea degli Adelphoe che dice di
sé (866 - 868):
"ego ille agrestis,
saevos, tristis, parcus, truculentus, tenax,
duxi uxorem: quam ibi miseriam
vidi! Nati filii;
alia cura ",
io quel rozzo campagnolo, disumano, tetro, avaro, duro, testardo, ho preso
moglie: quale miseria ci ho trovato! Sono nati i figli; altra preoccupazione.
Questa descrizione deriva più precisamente dal
fr. 11
Körte. di Menandro:" jEgw; d j a[groiko", ejrgavth",
skuqrov" , pikrov", feidwlov"", io villano, lavoratore, arcigno, duro,
tirchio.
La solitudine è
disumana in una società di uomini umani, ma diventa necessaria nel mondo dove
prevale il male
La
solitudine del misantropo
Tornando al misantropo, Cnemone vede Sostrato davanti
alla porta di casa sua e invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la solitudine da
nessuna parte!" ( ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou'
tucei'n, v.169).
Sembra un'anticipazione del monachesimo.
Tuttavia dopo essere caduto in un pozzo e avere avuto
bisogno di aiuto da parte del figliastro Gorgia che non era stato trattato bene
da lui, il misantropo si ricrede e dichiara che cosa ha imparato dalla
disgrazia (713 - 735):
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino uno che
ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro
calcoli (tou;" logismouv")
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un
altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia con fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo
nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai in
alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con
gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche io a te". Che c'è ragazzo? Se io
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello
che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:
procurale un marito. Io anche se fossi del tutto sano
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe
mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n
eja'q j wJ" bouvlomai)".
La
solitudine necessaria
Il bisogno della solitudine, condannato da
Omero a Menandro come disumano, più avanti, con la degenerazione brutale dei
rapporti tra gli uomini, con la trasformazione delle persone in "turba ",
folla disordinata, feccia o[clo" - diventerà non solo dignitoso ma necessario.
Prendiamo Seneca tornato dal Circo dove ha
assistito a mera homicidia , omicidi veri e
propri:" avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero
crudelior et inhumanior, quia inter homines fui ", torno a casa
più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio
perché sono stato in mezzo agli uomini (Ep. 7, 3). Il consiglio allora
è:"recēde in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra
lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge
multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca
saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i
pochi, evita anche uno solo.
Un'eco
in Nietzsche: “C'è da dir
male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e solamente sofferto
per la moltitudine”[3].
[1] Nella Vita
di Alcibiade (16) Plutarco racconta che Tivmwn oJ
misavnqrwpo~ imbattutosi un giorno nel figlio di Clinia che
tornava dall’assemblea popolare soddisfatto per un successo, non lo scansò come
era solito fare con gli altri, ma anzi gli andò incontro, gli strinse la destra
e gli disse: “fai bene ragazzo a crescere in potenza: mevga ga;r
au[xei kako;n a{pasi touvtoi~, così accresci
di molto il male a tutti questi
[2] Cfr Giasone di Euripide: “Egli
insomma "dra'/ ta; sumforwvtata " (v. 876) fa quello che è più utile, come
riconosce la moglie abbandonata, quando finge di sottomettersi beffeggiandolo.
Pasolini chiarisce:" l'interpretazione puramente pragmatica (senza
Carità) delle azione umane deriva in conclusione da questa assenza di
cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica" P.P.
Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
Qui l'autore
parla del vuoto di Carità dell'Italia degli anni Settanta. Ma riferiamolo
alla Medea di Euripide. Il pragmatismo di Giasone si
manifesta chiaramente quando il seduttore dichiara alla sua ex moglie di avere
voluto cambiare donna, prendendo la principessa di Corinto, non perché odiasse
la madre dei suoi figli, o perché ne volesse altri, ma per la cosa più importante:
vivere bene, lui con la famiglia, o le famiglie, e senza restrizioni (wJ" , to;
men; mevgiston, oijkoi''men kalw'" - kai; mh; spanizoivmeqa), sapendo con certezza che il povero
tutti lo sfuggono (vv. 559 - 560). Abbiamo già messo in rilievo che Giasone "dra'/ ta;
sumforwvtata - ghvma" tuvrannon " (v. 876 - 877) fa quello che è più
utile sposando la figlia di un re. Glielo riconosce Medea, quando finge di
sottomettersi beffeggiandolo. Bisogna chiarire che anche questa Medea di
Euripide impiega, strumentalmente, la cultura dell'utile che pure la rende
infelice, quando blandisce Creonte per ottenere un giorno di permanenza a
Corinto onde compiere la sua terribile vendetta.
C'è anche un
luogo platonico che tratta il problema. Nel primo libro della Repubblica
il sofista Trasimaco, un rappresentante della filosofia di
potenza, propugna in forma più diretta, e forse meno ignobile, l'ideologia
contenuta nelle parole e nel comportamento di Giasone. Egli, raggomitolatosi
come una fiera, si dirige contro Socrate, sostenitore della Giustizia, come se
volesse sbranarlo (336b). Quindi afferma che il giusto non è altro che l'utile
di chi è più forte:"to; divkaion oujk a[llo ti h] to; tou'
kreivttono" sumfevron"(338c).
Cfr.
Leopardi, Zibaldone, 1641: “Ma la morale non è altro che
convenienza”. Tradotto in termini erotici: l’amore non è altro che l'utile di
chi è più forte.
Si può
chiamare in causa e inserire in questa categoria della gente guidata
dall’utile, pure in campo erotico, anche la Poppea Sabina di Tacito: unde
utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat (Annales, XIII, 45), dove
si presentasse l'utile, là volgeva la libidine.
Ancora
Pasolini: “La parte “negativa” del razionalismo del Centauro è finita: gli dei
sono fole, i culti follie, ecc. E’ solo la civiltà agricola che li ha inventati
ecc. Adesso occorre sostituire qualcosa alla metafisica; questo qualcosa è il
successo terreno. Il successo si ottiene attraverso lo scetticismo e la
tecnica.
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