in bici verso l'Ungheria, 2011 |
Leggo
nel solito quotidiano: “Pedalando con i ragazzi di Greta” ‘Il vero virus è l’inquinamento’
” (“la Repubblica"
6 giugno 2020, p. 13)
E’
la cronaca di un raduno di ciclisti a Milano. Alcune osservazioni accolte dal cronista
Ettore Livini sono giuste. Ne trascrivo e condivido due in particolare: “ La
pandemia è l’effetto e l’inquinamento è la causa” (…) “Molti dei morti di Covid
in Lombardia sono mancati perché avevano i polmoni già danneggiati dall’aria
che respiriamo tutti i giorni”.
Non
mi piace invece “i ragazzi di Greta” del titolo. Se si tratta dell’adolescente svedese, non
credo che abbia alle spalle un curriculum di decine di migliaia di chilometri
in bicicletta, non può averlo, se non altro per l’età. Le parole dei giornali
dovrebbero aderire ai fatti. Benemeriti e probiviri della bicicletta e dell’aria
pulita sono casomai tanti anziani, anche più attempati di me, che in vita loro
hanno percorso più chilometri in bici e a piedi che in automobile o in moto.
Con
i tre carissimi amici Maddalena, Fulvio, Alessandro, ho fatto
la maggior parte delle mie vacanze estive in bicicletta. Abbiamo girato più volte per la Grecia, siamo arrivati fino a Troia e a Debrecen.
Ricordo
qui un episodio della mia seconda estate ciclistica in Grecia dove quell’anno
pedalavo eccezionalmente da solo. Era il 1978: avevo 33 anni e quasi nove mesi.
Il
9 agosto salii sull’imbarcazione che dal porto di Andros mi recava
lontano dalla greggia dei materialisti integrali. Ero felice di essere solo con
la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.
Osservavo
il chiarore dei flutti spumeggianti e dei gorghi solcati dal veicolo
marino. Biancheggiava la scia del
traghetto come un sentiero in mezzo a una pianura erbosa fatta fluttuare dal
vento sonoro.
Sbarcai
a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare a Delo, l’isola
sacra che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno
erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello
dove passare la notte, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare
sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare,
cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.
Potevo
girare l’isola liberamente, ossia senza pensare con retrogusti cattivi ai
conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per
entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati in cerca di
baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la santa luce del cielo.
Dopo
due giorni così malvissuti volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Sul
mezzogiorno, lavati gli stracci sudati che poi distesi perché si asciugassero
sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del dormitorio,
cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria
pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni
polmoni, sentivo di partecipare a una festa della natura profumata, calda e
luminosa come una bella ragazza piena di salute, di gioia, di vita. Le cime degli
alberi, i musi degli animali, i visi umani
apparivano sereni e luminosi, piene di promesse e speranze.
Con
gli occhi stenebrati del tutto vedevo la luce vivace danzare tripudi
sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei
monti dove la accompagnavano battendo le ali gli innumerevoli cori delle
cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce dolci le quali
moltiplicavano quel dono del cielo che assentiva alla vita.
Nell’aria
celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina,
l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione di
Dio alla nostra vista mentale. Con le narici aspiravo i profumi soavi della
terra, odorosa tutta come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi
domandavo come può non essere felice una creatura in un paradiso così ben fatto
dall’artista divino.
Assaporavo tutti gli umori distillati dai
raggi del sole che ravvivano tutto, e gioivo osservando i colori accesi e
accentuati dalla pienezza del suo splendore.
Ogni
tanto mi fermavo per cogliere un fico o un grappolo d’uva: dolce offerta, già
maturata dal caldo che favorisce la vita.
Mentre
mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai
regali ricevuti dalle meravigliose donne che avevo già conosciute. Li ho sempre
considerati “borse di studio”, come le belle giornate. Ero sicuro che altri
premi ci sarebbero stati dopo una vacanza tanto santa.
Ringraziavo
la madre terra generosa e felice, poi riprendevo a pedalare su e giù per le
strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi,
acquistando la forma corporea più bella possibile e la mente serena quanto il
cielo era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui gradini portavano
al dio sole; ed ero felice mentre mi lanciavo giù per le rapide discese
rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria sulla pelle
abbronzata sentendomi armonizzato con l’opera d’arte dove avevo la
fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi
che arrostivano grassi cadaveri di animali nelle baie sassose ottenebrando la
luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.
giovanni
ghiselli
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