Friedrich Hölderlin |
Giuseppe Moscatt
La morte di Empedocle.... Pardon, di Hölderlin!
Il
20 marzo del 1770 nasceva a Lauffen am Neckar - un piccolo paese nei pressi di
Stoccarda - uno dei
sei più grandi poeti della Germania, Friedrich Hölderlin (per la cronaca, gli
altri cinque furono Goethe,
Schiller, Klopstock, Weiland e Lessing, graduatoria fissata dal Mommsen e dal
nostro De Sanctis).
E a duecentocinquanta anni dalla nascita, non poteva mancare all'appello delle
ricorrenze anche
questa. Naturalmente, un fiume di poesie e di scritti costella la sua
produzione letteraria e dunque
se non fosse per il corona virus, avremmo l'imbarazzo della scelta nel
segnalare i numerosi momenti
celebrativi. Quel dannato virus li ha sospesi e dunque occorrerà fare una
cernita delle ragioni
per cui lo si ricorda. Cominciamo dalla biografia, considerato che l'unità di
vita e di opere è la
carta d'identità di ognuno di quei sei geni che tutta l'Europa invidia alla
Germania, ma che ormai è
patrimonio comune dell'Umanità. Il biografo cui attingiamo è uno scrittore
nondimeno famoso per la
biografia di grandi tedeschi, Stefan Zweig, la cui opera meriterebbe uno studio
a parte. Il libro di riferimento
è “Hölderlin, la lotta col demone” del 1925, recante nel frontespizio due
versetti dell'incompiuta
tragedia “La morte di Empedocle” del 1799. Qui Zweig non solo apre con “poiché il
mortale difficilmente riconosce i geni..." ma anche fa seguire “notte e
gelo sarebbero sopra la terra,
e nell'angoscia l'anima si struggerebbe, se di tempo in tempo non mandassero
gli Dei siffatti giovani
a rinnovar la vizza vita umana”. E' nel primo capitolo che Zweig si lancia in
una suggestiva ode
sulla magnifica schiera di eroi che lo precede, lo accompagna, con cui muore e
che dopo un paio
di secoli e mezzo lo rendono vivo fra noi. Lo anticiparono Robespierre,
Desmoulins, Voltaire, Rousseau,
Leibniz, Kant, Haydn, Wieland, Mozart. Lo accompagnarono Keats, Byron,
Schiller, Novalis,
Kleist, Puškin, Foscolo, Leopardi e Bellini. Muoiono poco prima di Lui tutti
questi geni, Napoleone
fra loro, nonché una miriade di giovani che cantavano in tutte le lingue la
grandezza della
natura e il loro dolore. Ultimo a morire, isolato nel bosco dei ricordi, il
vecchio Goethe, come Merlino
che riconosce e legittima il giovane Artù. E di ciò, Zweig fa memoria e
paragone. Lo chiama
“ultimo efebo della grecità tedesca”. E di tale splendida eternità poetica,
illuminata dalla fede
dell'uomo, oggi abbiamo veramente bisogno. Ma al di là della retorica – benché
suggestiva! - presentazione
dall'autore austriaco, la vita di Hölderlin sembra aderire al modello
romantico, mentre
l'opera è spiccatamente classica.
A collocarlo fra i romantici è il principe
dei critici letterari germanisti,
Ladislao Mittner. Poesie alla mano, questi cita “l'arcipelago” - tre parti,
l'arcipelago dell'Egeo,
come immagine di una nature cosmica letta in modo panteistico; la grande età
ateniese di Pericle;
l'oggi di Hölderlin, aperto alla cultura greca che diviene il modello della
vecchia Alemagna. "Heidelberg",
peraltro, rappresenta la città immersa nella natura, simbolo della vittoria
sullo scorrere del tempo. La buona battaglia che il poeta combatté con la sua
esistenza, certo della vittoria sulla natura, con la quale intreccia un mitico dialogo di eterna pace esteriore per mitigare le interne inquietudini.
Ma la sua appartenenza al romanticismo, sia pure in embrione, non solo è
magnificata dallo
splendido inizio della biografia di Zweig or ora citata; ma anche dai commenti
di Jorge Mario Bergoglio,
che lo ha affascinato fin dalla sua gioventù, tanto da citarlo spesso nelle
omelie da arcivescovo
di Buenos Aires. Sicuramente, uno dei segnali che lo avvicinano al mondo di
Manzoni e
perfino a Leopardi per lo svuotamento di Dio (Gottlosigkeit) e la sua costante
ricerca di ciò che è sacro
(das Heilige), che a Hölderlin pare ritrovare proprio nella libertà di poetare
fuori da schemi precostituiti.
In fondo, l'eroe più simile al poeta che morì nella famosa torre di Tubinga,
povero e pazzo,
è proprio il filosofo Empedocle, un eroe vinto la cui morte tragica è la sua
vittoria. E Bergoglio
non poteva non vedere in Lui quel Cristo sulla croce per cui Francesco ora
prega e spera.
Del
resto, la straordinaria sensibilità dell'uomo che soffre, ma che ritrova pace
nella contemplazione della
natura, emerge nelle "Parche": “Concedetemi solo un'estate, voi
potenti! E' un Autunno, per fare
maturo il mio canto perché più bramoso è il cuore, di dolce gioco saziato,
allora mi annoio... ma
se un giorno a me il sacro che ho in cuore, la poesia, riuscirà, sia benvenuta,
allora, quiete del regno
d'ombra! Sarò contento anche se la mia cetra laggiù non mi avrà accompagnato;
sarò vissuto una
volta, come gli dei e di più non occorre”. Era il 1799. aveva quasi 30 anni e
un amore apparentemente
conquistato, anche se fra poco sarà soltanto un mito, un'elegia greca, per una Diotima
ormai idealizzata che mai lo amò veramente. Chi era costei? Andiamo cono
ordine. Dalle sue
varie biografie - ma anche da quanto emerge da varie lettere ad amici che solo
nel '900 il circolo di
George ritrovò negli archivi comunali di Francoforte e che il giovane poeta von
Hellingrath riuscì a
far pubblicare prima di morire sul fronte occidentale a Verdun - lo vediamo
provenire a 25 anni da
esperienze familiari non favorevoli: un padre poco conosciuto, una madre
tirannica, un secondo padre
assente, la forzata predestinazione all'ufficio di pastore luterano. Nel collegio
teologico di Tubinga,
suonò il violino, studiò con Schelling e Hegel e non fu come loro mai convinto dell'imperante
teismo antilluminista e anticlassico che gli si impartiva. Piuttosto, come fece
il quasi contemporaneo
von Platen, lesse tutti i poeti greci nella loro lingua e assunse nel suo animo
uno spirito
libertario pari a quella di Schiller, già noto fra i giovani intellettuali.
L'unico contemporaneo che
lo attirò fu Rousseau - sul quale scrisse un’ode alcaica nel 1798 - e il cui
pensiero politico troppo
aulico lo allontanò dai due giovani amici, ma che lo portò a Jena, non appena
fu abilitato ad essere
pastore.
Poetava e pregava un Dio che non era quello che gli era stato
proposto. Amava quegli
dei omerici che che lo rimettevano in pace con la natura, già in attesa di un
nuovo vero e unico,
il Dio cristiano, fuori dalla devozione falsa e pietista del Collegio, contro
quell'ufficio concreto
di Pastore che non si sentiva di esercitare come voleva. In una lettera
all'amico editore Sternkopf,
confessava la sua vera fede in Cristo, che gli aveva conciliato cuore e
ragione, reale e ideale,
cultura e natura. L'unificazione di tutti i saperi dell'Io attraverso la poesia
classica, di cui aveva
imparato il verseggio da Pindaro e Alceo, in una continuità verso il Bene
Supremo, aderendo a
quel panteismo spinoziano che aveva affascinato il primo Goethe e che credeva
di aver ritrovato nel
titanismo eschiliano, dove l'uomo signoreggiava la Natura. Distacco dalla
realtà che gli imponeva
però di mettere i piedi a terra. Giunse allora a Francoforte, nel 1796, su
segnalazione del Goethe
e divenne precettore in casa del ricco banchiere Gontard e della bella moglie
Susette, di appena
26 anni e di trenta anni più giovane del marito. Qui visse per un triennio,
conobbe l'amore, ma
la pace poetica presto gli venne meno. Susette - la Diotima delle sue varie
poesie d'amore, presa a
modello da simposi platonici - era molto più carnale di quell'esempio. Voleva
un amante sul serio e
non un declamatore teorico troppo platonico per i suoi gusti. Hölderlin
peraltro non era certamente un
ipocrita doppiogiochista, quanto un novello Giuseppe insensibile alle profferte
della moglie del padrone
di turno. Gontard mal sopportava quel cicisbeo e Susette lo fece licenziare.
Umiliato e offeso
nella sua onestà di amante platonico, pieno di profonda coerenza morale, passò
gli altri 47 anni
della sua vita fra la madre che a Lauffen dove spesso si rifugiava e Bad
Homburg vor der Höhe
(Assia occidentale), dove tentò con scarso successo di rifarsi una vita,
straziata nel suo personalissimo
senso di amore.
Morì a Tubinga, isolato, poverissimo e folle in cima ad una
torre, oggi
suo mausoleo. Qui tentò di concludere una delle sue opere maggiori, che lo
rende famoso anche
nelle nostre terre siciliane, descrivendo la fine del filosofo agrigentino
Empedocle, di cui Hölderlin
si sentiva attratto fin dalle giornate di studio matto e disperato sui
classici, come aveva fatto
il giovane leopardi. Il mito della morte di Empedocle era noto: cacciato per
indegnità politica degli
abitanti di Agrigento, solo perché non era stato attratto dalla arroganza del
potere, né per avere approfittato
egoisticamente degli eccessi del governare, Empedocle si sarebbe gettato nella
bocca dell'Etna,
sacrificandosi come Socrate - e come Cristo! - in modo da indurre il popolo a
rinsavirsi e a
crederlo un Dio immortale, il Dio del Vero, del Buono e del Bello, un mito di
pace e giustizia idonea
alla Resurrezione dell'uomo nella valle di lacrime che è la storia quotidiana.
Mito che aveva rivissuto
sulla sua carne infelice, quando morì alla vita di fronte alle menzogne
dell'amata e all'ira del
banchiere che non aveva compreso l'animo turbato e infelice del poeta. Una
sublimazione dell'artista,
direbbe Freud, se avesse conosciuto le ultime lettere di Hölderlin ancora
oggetto di nuovi
studi. Che dire oggi di questo grandissimo poeta? Appare ormai la profonda
religiosità della sua
poesia che riguarda il Divino e l'Uomo. Per Lui la poesia pura in sé lo pone in
relazione con l'Altro.
Poetare è il suo vivere isolato nel mito, adoperando un linguaggio alternativo
assoluto per il moderno,
risalendo appunto alla grecità leggendaria. Dunque, nostalgia degli Dei, ma
melanconia per
un passato mai più ripetibile. E qui il legame con la Germania, pallido sole, o
meglio “pallida madre”
- come disse Brecht “come insozzata sia fra i popoli! Fra i segnati d'infamia
tu spicchi..." Un
tremendo messaggio che risuona gravido di responsabilità in un Europa
attualmente attraversata da sinistre visioni e da scenari sociali gravidi di
catastrofi.
Giuseppe Moscatt
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