Premessa
La conta
degli insegnanti quali numeri. “Sono circa 100 mila gli insegnanti in più che
sarebbero necessari da settembre secondo le stime della commissione Bianchi”.
E subito
sotto: “Le Regioni: Più docenti e chiarezza sulle responsabilità”.
(“la Repubblica” di oggi, 25 giugno 2020, p.
20)
Non una
parola sulla preparazione, la cultura, la capacità educativa di questi 100 mila
in più, su come verificarla. Si vogliono mandare allo sbaraglio docenti e
discenti con il rischio che niente si insegni e nulla si impari.
Io proseguo
con la pubblicazione nel mio blog della metodologia preparata quando nella
SSIS, tra il 2000 e il 2010 a Bologna, nel 2007 anche a Bressanone, poi nel
2013 nel TFA di Urbino, dovevo chiarire ai giovani laureati in lettere come
insegnare nei licei in modo da farsi ascoltare e invogliare i giovani a leggere
le opere presentate, a studiarle.
Bisogna fare
capire, e sentire, ai giovani che la cultura potenzia la loro natura.
Successivamente
l’ho presentata in decine di scuole dove sono stato invitato. Ora la
ripresento, certo che può essere ancora utile a molti, a maggior ragione in
questo periodo più difficile che mai.
L’abbraccio e l’addio frustrati dalla spietatezza del mondo dei morti:
Odisseo e la madre Anticlea; Orfeo e Euridice nella quarta Georgica;
Enea e la moglie Creusa; Enea e il padre Anchise nell’Eneide; Orfeo e la
delicatezza di Euridice nelle Metamorfosi di Ovidio. Dante e
Casella.
Topos
gestuale dei morti, o riservato ai morti, è l’abbraccio e l’addio frustrati
dalla spietatezza del mondo infero: Odisseo racconta che si lanciò tre volte (tri;~ me;n
ejformhvqhn), spinto
dallo qumov~, ad abbracciare la madre evocata dall’Ade, ma
ella, skih'/ ei[kelon h] kai; ojneivrw/ - e[ptat j (Odissea, 11, 206 - 208) simile all’ombra o anche al
sogno, volò via. Tuttavia Anticlea ha la possibilità di rispondere al figlio
desolato che la invoca, di salutarlo e benedirlo.
Più spietato
è il mondo dei morti[1] che
rinchiude Euridice: ella non può rispondere nemmeno con le parole al vano
tentativo compiuto da Orfeo di abbracciarla: “Dixit et ex oculis subito, ceu
fumus in auras/commixtus tenuis , fugit diversa neque illum/prensantem nequiquam
umbras et multa volentem/dicere praeterea vidit; nec portitor Orci/amplius
obiectam passus transire paludem” (Georgica IV, 499 - 503),
disse, e dagli occhi all’improvviso, come fumo confuso in arie impalpabili,
fuggì all’indietro né vide lui che cercava di afferrare invano gli aspetti
dell’ombra e molte parole ancora voleva dire; né il traghettatore dell’Orco
permise che attraversasse più l’interposta palude.
Il topos
dell’abbraccio negato si ripresenta nell’Eneide, due volte. La prima si
trova alla fine del secondo canto che racconta la caduta di Troia. Il mesto
fantasma, l’ombra della donna Creusa (infelix simulacrum atque ipsius umbra
Creūsae, II, 772) sparita, appare a Enea che la cercava, e lo invita a
partire, seguendo il suo destino di successi con una nuova sposa, regale. Lei,
la madre di Ascanio, rimarrà sulle coste troiane trattenuta da Cibele, la magna
deum genetrix (v. 788). Dette queste parole, la donna sparì: “haec
ubi dicta dedit, lacrimantem et multa volentem/dicere deseruit tenuisque
recessit in auras.” (II, 790 - 791). Come ebbe detto queste parole, mi
lasciò che piangevo e volevo dire molte parole, e scomparve nelle arie
impalpabili. Allora Enea fece il tentativo topicamente vano: “Ter conatus
ibi collo dare bracchia circum;/ter frustra comprensa manus effugit imago,/par
levibus ventis volucrique simillima somno”. (vv. 792 - 794), tre volte
tentai allora di stringerle al collo le braccia; tre volte l’immagine invano
afferrata sfuggì alle mani, uguale ai venti leggeri e del tutto simile al sogno
fugace.
Gli stessi
versi sono ripetuti nel sesto canto (v. 700 - 702), a proposito dell’abbraccio
di Anchise, invano desiderato e richiesto tra le lacrime: “ ‘Da iungere dextram,/
da, genitor, teque amplexu ne subtrahe nostro’. Sic memorans largo fletu simul
ora rigabat” (Eneide, 6, vv. 697 - 699), dammi la destra da
stringere, dammela, padre, e non sottrarti al nostro abbraccio. Così dicendo,
nello stesso tempo rigava il volto con pianto copioso.
Poi ci sono
l’Orfeo e l’Euridice delle Metamorfosi di Ovidio. In questo
poema il cantore trace volse indietro lo sguardo innamorato, per brama di
vederla e per paura che lei si perdesse (ne deficeret metuens avidusque
videndi 10, 53) nel sentiero che avevano preso in salita, in silenzi
privi di parola, scosceso, oscuro, denso di nebbia fitta (“ Carpitur
adclivis per muta silentia trames/arduus, obscurus, caligine densus
opaca”, vv. 53 - 54).
Leggiamo i
versi che descrivono la situaziono topica, ma vengono rinnovati dalla
delicatezza di Euridice la quale non si lamenta poiché un’amante non può
lamentarsi di essere amata: “flexit amans oculos: et protinus illa relapsa
est/bracchiaque intendens prendique et prendere certans/nil nisi cedentes
infelix adripit auras./Iamque iterum moriens non est de coniuge quicquam/questa suo (quid enim nisi se
quereretur amatam?)/supremumque “vale”, quod iam vix auribus
ille/acciperet, dixit revolutaque rursus eodem est” (X, vv. 56 - 63), girò
indietro gli occhi l’amante: e subito lei cadde, e sebbene lui tendesse le
braccia lottando per essere preso e prendere, nulla afferrò l’infelice se non
soffi fugaci. E lei mentre già moriva per la seconda volta non emise un lamento
sul coniuge suo[2] (di
che cosa infatti si sarebbe lamentata se non di essere amata?) e gli disse
l’ultimo “addio” che oramai quello appena prendeva nelle orecchie, poi cadde di
nuovo nel luogo di prima.
Torneremo
sulla delicatezza di Ovidio in un capitolo successivo (62).
Infine
ricordo Dante che tenta di abbracciare Casella sulla spiaggia del Purgatorio:
“Ohi ombre vane, fuor che nell’aspetto!/Tre volte dietro a lei le mani
avvinsi,/e tante mi tornai con esse al petto” (Purgatorio, II, 79 - 81).
giovanni
ghiselli
[1] Sentiamo qualche testimonianza
sulla spietatezza attribuita ai morti e la spiegazione che ne dà Freud. Sempre
nella Georgica IV, Orfeo, preso da improvvisa pazzia (subita…
dementia , v. 488) si era voltato per guardarla, rompendo i patti del
crudele tiranno (immitis rupta tyranni/foedera, vv. 492 - 493), ossia di
Plutone. Ebbene tale dementia sarebbe stata da perdonare se i
Mani sapessero perdonare: “ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes”
(v. 489). Nell’Edipo re i morti non ricevono e non sentono
compassione: “"E la città muore senza tenere più conto di
questi/e progenie prive di pietà giacciono a terra portatrici di morte senza
compassione" (vv.179 - 181). Probabilmente i morti ci danno sensi di
colpa. Nell’Eneide Ilioneo, scampato al naufragio, chiedendo la
compassione di Didone, che la concederà, le dice di essere uno dei compagni di
Enea, re giusto e valoroso, e di non sapere se l’eroe troiano si nutra ancora
del soffio dell’etere o se sia giaccia crudelibus…umbris (I,
547), tra gli spettri crudeli.
Come si spiega questa spietatezza attribuita ai morti?
Lo chiarisce Freud in
un capitolo di Totem e tabù (del 1913) intitolato “Il tabù dei
morti”. L’autore ricorda alcuni studiosi unanimi nell’attribuire ai selvaggi la
credenza dell’ostilità dei morti: “La premessa che sta alla base di questa
teoria, è che il membro della famiglia che si è amato, al momento stesso della
morte, si trasforma in un demone dal quale i congiunti che gli sono
sopravvissuti non possono aspettarsi altro che ostilità e dai cui intenti
malvagi devono in tutti i modi guardarsi. Tale concetto è così singolare e
sconcertante, che da principio si è portati a non prestarvi fede. Tuttavia
quasi tutti i più eminenti studiosi sono unanimi nell’attribuire ai selvaggi
questa credenza” (Totem e tabù, p. 87). Riferisco solo uno degli
studiosi citati da Freud: “Supporre che i defunti più cari si trasformino dopo
la morte in demoni pone ovviamente un ulteriore interrogativo. Quali furono le
ragioni che indussero i popoli primitivi ad attribuire ai loro morti più cari
un così profondo mutamento di sentimenti? Perché li trasformano in demoni?
Westermarck ritiene che la risposta a tali domande sia facile :“Poiché nella
maggior parte dei casi la morte è considerata come il peggiore dei mali, si
pensa che i trapassati debbano essere profondamente infelici per la sorte che è
loro toccata. Secondo la concezione dei popoli primitivi, la morte è sempre
violenta, sia per mano altrui, sia ottenuta per magia, e già questo basta a far
immaginare l’anima del trapassato come carica di rabbia e desiderosa di
vendetta. Presumibilmente essa invidia coloro che sono ancora in vita e ha
grande nostalgia della compagnia dei suoi cari di un tempo - è quindi
comprensibile ch’essa miri a ucciderli con le malattie, per potersi riunire a
loro… Un’ulteriore spiegazione della malvagità che si attribuisce alle anime dei
morti la si deve ricercare nella istintiva paura che essi ispirano, la quale è
a sua volta il risultato dell’angoscia che si prova di fronte alla morte” (E. Westerrmarck, The Origin
and Development of the Moral Ideas, p. 426. ). Quindi Freud
torna a scrivere in prima persona: “Quando la morte strappa il marito a una
donna, o la madre a una figlia, non di rado accade che la persona sopravvissuta
sia sopraffatta da dubbi tormentosi, che noi usiamo chiamare “rimproveri
ossessivi”, e si domandi se non sia colpevole, per negligenza o imprudenza,
della morte della persona cara…L’esame psicoanalitico dei casi ci ha insegnato
a scoprire le molle segrete di questa sofferenza. Abbiamo potuto constatare che
i rimproveri ossessivi sono, in certa misura, giustificati e soltanto perciò
resistono a tutte le obiezioni e le confutazioni. Ciò non significa ovviamente
che la persona in lutto sia realmente colpevole della morte della persona cara
o davvero abbia commesso quelle negligenze o trascuratezze, come il rimprovero
ossessivo afferma: vi era comunque in lei qualcosa, un desiderio inconscio che
non si opponeva a quella morte…Tale ostilità, presente nell’inconscio, ma
celata dietro un caldo sentimento di amore, si trova in quasi tutti i casi di
intenso legame affettivo con una determinata persona, e rappresenta il caso
classico, il modello dell’ambivalenza delle emozioni dell’uomo…Il processo si
chiude per mezzo di un particolare meccanismo che in psicoanalisi si usa
chiamare proiezione. L’ostilità…viene proiettata sul mondo esterno,
quindi staccata dalla propria persona per essere attribuita all’altra. Non
siamo più noi, i vivi, a essere contenti di esserci sbarazzati del defunto; no,
al contrario, noi piangiamo la sua perdita, ma il defunto è intanto stranamente
diventato un demone cattivo che gioirebbe della nostra infelicità e che è
pronto a portarci la morte. I supersiti devono quindi difendersi da questo
nemico malvagio; in questo modo si sono liberati da un’oppressione interiore,
soltanto per scambiarla con un’angoscia che viene dall’esterno”(Totem e tabù,
pp. 90 - 91 e p. 94).
[2] Si pensi alla moglie della
satira sesta di Giovenale: quando si trova sulla nave dove l’ha fatta salire il
marito, gli vomita addosso, se invece segue l’amante, sta bene di stomaco,
pranza in mezzo ai marinai, passeggia per la poppa e gode nel maneggiare le
dure funi: “quae moechum sequitur, stomacho valet; illa maritum/convomit;
haec inter nautas et prandet et errat/per puppem et duros gaudet tractare
rudentis” (vv. 100 - 102)
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