oracolo di Delfi |
Il successo e la fortuna sono in noi
Interessante è anche il rapporto di Alessandro Magno con gli oracoli.
Nella fase
ascendente Alessandro si fa profeta di
se stesso, dando, non prendendo gli auspici sul suo destino.
Nel 336 succeduto al padre Filippo, il giovane re andò a Delfi per
consultare l'oracolo, ma non era un giorno fausto e la sacerdotessa si
rifiutava di dare responsi. Allora Alessandro la trasse a forza nel tempio ed
ella, conquistata da tanta risolutezza gli disse: "sei invincibile, ragazzo!" ajkivnhto"
ei\ w\ pai' (Plutarco, Vita, XIV, 7).
Così farà anche Cesare: "Ne religione quidem ulla a quoquam incepto
absterritus umquam vel retardatus est. Cum immolanti aufugisset hostia, profectionem
adversus Scipionem et Iubam non distulit. Prolapsus etiam in egressu navis, verso ad melius omine, Teneo te, inquit, Africa "(Svetonio, Caesaris Vita , 59), non si lasciò
distogliere né ritardare da qualsiasi impresa neppure da alcuno scrupolo
religioso. Sebbene gli fosse sfuggita una vittima mentre sacrificava, non
rimandò la spedizione contro Scipione e Giuba. Scivolato per giunta nell'uscita
dalla nave, girato al positivo il presagio, disse: "Ti tengo, Africa!".
A Gordio (primavera del
333, prima di Isso) Alessandro
non riusciva a sciogliere il nodo e i Macedoni temevano un cattivo presagio.
Ma il re disse: “Nihil interest
quomŏdo solvantur” (Curzio Rufo,
3, 1, 18) e tagliò con un colpo tutte le cinghie. “Come per l’uovo di Colombo,
non è il risultato, ma la novità
della soluzione, che porta l’impronta del genio”[1].
Prima della
battaglia di Gaugamela (331 a. C.)
ci fu un’eclissi di luna, un
segno funesto. Alessandro allora, senza scomporsi, ad omnia interritus (4,
10, 4) intrepido chiamò vati egiziani i quali dissero che quello era un brutto segno per i Persiani.
Alessandro era superstizioso, ma finché credette in se stesso utilizzò la religio come
strumento di comando: "Nulla
res multitudinem efficacius regit quam superstitio: aliōqui impotens,
saeva, mutabilis, ubi vana religione capta est, melius vatibus quam ducibus
suis paret " (Historiae Alexandri Magni , IV, 10, 7),
nessuna cosa meglio della superstizione governa la moltitudine: altrimenti
sfrenata, crudele, volubile, quando è afferrata da una vana religione,
obbedisce più facilmente agli indovini che ai suoi capi.
Poco prima di morire (323) Alessandro vide dei brutti segni e se ne lasciò impressionare
negativamente: non aveva più la forza di volgerli in proprio favore.
Plutarco racconta che Nearco, l’ammiraglio, gli disse
che i Caldei lo consigliavano di stare alla larga da Babilonia. Alessandro non
ci fece caso ma, giunto alle mura della città vide molti corvi kovraka~
pollou;~ diaferomevnou~ kai; tuvptonta~ ajllhvlou~ (Vita, 73, 2) che lottavano e si colpivano a vicenda. Alcuni di
questi gli caddero ai piedi. Inoltre l'indovino Pitagora aveva trovato nelle
vittime sacrificali un fegato senza lobi h|par a[lobon (73, 5). Allora il re disse. " papai; ijscuro;n to; shmei'on ”, ahi, un segno forte! Alessandro si sente la morte addosso, non è più se stesso, perché
questa volta non ha la forza di volgere il segno in proprio favore.
"Il
successo e la fortuna sono in noi. Noi dobbiamo tenerli: saldi,
profondamente. Appena qua dentro
qualche cosa comincia a cedere, a stancarsi, a perder forza, tutti intorno a noi si sentono
liberi, si ribellano, recalcitrano, si sottraggono al nostro influsso. Allora un guaio viene dopo
l'altro, batoste su batoste, e si è liquidati"[2].
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