Lesbo (foto Getty Images) |
Saffo. Le donne non sono tutte uguali come sostengono le presunte femministe
Nacque a Ereso di Lesbo nella seconda metà del VII
secolo, visse a Mitilene, il centro più importante dell'isola, quale maestra di
musica, canto, danza e belle maniere, in una comunità - o tiaso - di ragazze; fu
costretta ad un periodo di esilio siciliano in conseguenza dei rivolgimenti
sociali che si conclusero con la sconfitta del suo ceto, l'aristocratico, e la
vittoria della classe mercantile guidata da un tiranno, come vedremo meglio
da Alceo, contemporaneo e
conterraneo della poetessa. La
loro ajkmhv (massima fioritura[1]) va collocata poco prima del 600.
Il genere nel quale si esprimono i due poeti di Lesbo è quello della lirica monodica, una poesia accompagnata da
un canto eseguito in assolo; il dialetto è l'eolico, notevolmente diverso sia dallo
ionico del giambo di Archiloco e dell'elegia di Tirteo, sia dal dorico della
lirica corale di Alcmane. Per quanto riguarda le notizie biografiche possiamo
aggiungere che Saffo ebbe una figlia, sulla quale anzi ha lasciato un frammento
dove si vede in quanta considerazione fosse tenuto questo affetto (132LP):
"Io ho
una bella figlia che ha l'aspetto
simile ai fiori d'oro,
l'amata Cleide
e in cambio di lei io né la
Lidia tutta, né l'amabile...". Metrum incertum
La poetessa
ebbe anche tre fratelli. Sul suo conto la commedia attica ha diffuso varie
malignità, compresa quella accolta da Leopardi nell'Ultimo canto di Saffo secondo
il quale la poetessa sarebbe stata deforme ("Bello il tuo manto, o divo
cielo, e bella/sei tu, rorida terra. Ahi di codesta/infinita beltà parte
nessuna/alla misera Saffo i numi e l'empia/sorte non fenno ", vv.
19 - 23.) e si sarebbe gettata dalla rupe di Leucade per l'amore non
contraccambiato dal barcaiolo Faone.
Un frammento di Alceo (63D.:"sacra Saffo dolce ridente dalle trecce di
viola ijovplok j ") sembra smentire la maldicenza. Un'altra voce
cattiva biasima come vizio l'amore della maestra per le allieve che
nell'ambiente dei tiasi femminili invece faceva parte del processo educativo[2].
I grammatici alessandrini (chiariremo chi sono e quale
funzione ebbero trattando Callimaco) divisero l'opera di Saffo in nove libri, secondo il metro, tranne l'ultimo che raccoglie gli epitalami,
i canti nuziali. Questi erano composti forse per un’esecuzione corale.
E' arrivata intera solo l'ode con la preghiera ad
Afrodite che riportiamo tradotta:
" Immortale
Afrodite dal trono variopinto,
figlia di Zeus tessitrice di
inganni (dolovploke), ti prego
non domarmi il cuore con
affanni
né angosce, o signora,
ma vieni qua, se mai anche
l'altra volta
udendo la mia voce da
lontano
mi desti ascolto, e,
lasciata la casa d'oro
del padre, giungesti
aggiogato il carro; passeri
belli
ti portavano veloci
sopra la nera terra
fitte roteando le ali dal
cielo
nel mezzo dell'aria.
Subito giunsero, e tu, o
beata,
sorridendo nel volto
immortale
chiedesti che cosa soffrissi
di nuovo e perché
di nuovo chiamassi
e che cosa più di tutto
volevo che mi toccasse
nel folle cuore:"chi
debbo ancora persuadere per te,
in modo da condurlo di nuovo
al tuo amore? chi ti fa
torto o Saffo?
E infatti se fugge, presto
inseguirà
(kai; ga;r aij feuvgei, tacevw~ diwvxei),
se non accetta doni, anzi li
farà,
e se non ama, presto amerà
anche se non vuole.
Vieni da me anche ora (e[lqe
moi kai; nu'n), liberami
dai tormentosi
affanni, e quanto il
mio cuore
desidera compiere, compilo,
e tu stessa
sii alleata". Strofe saffiche
Commentiamo il v. 21: kai;
ga;r aij feuvgei, tacevw~ diwvxei
Quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse
sequor . (Ovidio, Amores,
2, 20, 36)
E' questo il tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e scappa da chi lo insegue.
Tale locus ha un' ampia presenza nella poesia amorosa e,
probabilmente, pure nell'esperienza personale di ciascuno di noi: Teocrito nel VI idillio paragona
Galatea che stuzzica Polifemo alla chioma secca che si stacca dal cardo quando
la bella estate arde:"kai; feuvgei filevonta kai; ouj filevonta
diwvkei" (v. 17), e fugge chi ama e chi non ama lo insegue. Nell'XI idillio
lo stesso Ciclope si dà il consiglio di non inseguire chi fugge ma di mungere
quella presente (75), femmina ovina o umana che sia.
Abbiamo anche qui l'ironia teocritea che deriva dalla consapevole
dissonanza tra l'elemento popolare e quello raffinato letterario. Teocrito è,
come Callimaco, un rappresentante di una poesia cosiddetta
postfilosofica:"Post - filosofici sono questi poeti, nel senso che non
credono più nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e
nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un
carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall'universale e si
rivolgono con amore al particolare"[3].
Lo stesso Snell qualche capitolo prima aveva ricordato che nel V secolo era
comunque già avvenuto "quel distacco fra il mondo della storia e quello
della poesia" codificato da Aristotele quando afferma "che la poesia
è più filosofica della storia poiché la poesia tende all'universale, la storia
al particolare"[4] (p.
141). La poesia postfilosofica dunque non racconta più l'universale. Post - filosofica
o almeno postilluministica sarebbe anche quella di Goethe:" Callimaco e
Goethe si trovano entrambi ad una svolta storica; al tramonto di una più che
secolare cultura illuministica che ha dissolto le antiche concezioni religiose,
quando è venuto a noia anche il razionalismo e incomincia a sorgere una nuova
poesia significativa. Ma l'evoluzione del mondo antico segue una via così
diversa da quella del mondo moderno, che Callimaco, e con lui tutto il suo
tempo, si dichiara per la poesia minore, delicata, mentre Goethe, interprete
anch'egli dei suoi contemporanei, dà la preferenza alla poesia patetica,
interiormente commossa"[5].
"Un epigramma di Callimaco (Anth. Pal. 12,
102) liberamente tradotto per l'occasione in
versi latini, è in Orazio il
ritornello caro a questi incontentabili stolti:" Come il cacciatore
insegue la lepre nella neve e non la prende quando è a portata di mano, così fa
anche l'amante che oltrepassa a volo ciò che è alla portata di tutti e cerca di
prendere quello che fugge: "Meus est amor huic similis: nam/transvŏlat
in medio posita et fugientia captat "
(Sermones , 1, 2, 107s.). Ed è proprio questo epigramma di
Callimaco che fornisce ad Ovidio (in
un componimento degli Amores tutto impegnato a redigere il codice
della perfetta relazione galante) il motto che può rappresentare
emblematicamente la tormentata forma dell'amore elegiaco: quod
sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor (2, 20, 36) "[6], evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
E' questo un luogo comune dell'amore, o, forse,
della non praticabilità dell'amore.
Sentiamo qualche altra testimonianza.
Catullo cerca di sfuggire obstinata mente (8,
11) a questa legge che nega la realtà dell'amore facendone un'utopia:"nec
quae fugit sectare, nec miser vive " (8, 10), non
dare la caccia a quella che fugge e non vivere da disgraziato.
Nell' Hercules Oetaeus attribuito a
Seneca la nutrice di Deianira per consolare la sua alumna le dice che Iole
ridotta oramai a schiava è una preda oramai troppo facile per Ercole e, quindi,
non più ambita:"illicita amantur; excidit quidquid licet" (v.
357), sono amate le cose non consentite, tutto quello che è concesso
decade.
Nella Gerusalemme liberata leggiamo:"Ma
perché istinto è de l'umane genti/che ciò che più si vieta uom più
desìa,/dispongon molti ad onta di fortuna/seguir la donna come il ciel
s'imbruna" (V, 76).
Nella commedia La locandiera (del
1753) Goldoni fa dire
alla protagonista, Mirandolina, in un monologo."Quei che mi corrono
dietro, presto mi annoiano" (I, 9).
Una situazione analoga troviamo ne Il
giocatore di Dostoevskij dove
il protagonista dichiara il suo amore a Polina in questi termini: "Lei sa
bene che cosa mi ha assorbito tutto intero. Siccome non ho nessuna speranza e
ai suoi occhi sono uno zero, glielo dico francamente: io vedo soltanto lei
dappertutto, e tutto il resto mi è indifferente. Come e perché io l'amo non lo
so. Sa che forse lei non è affatto bella. Può credere o no che io non so
neppure se lei sia bella o no, neanche di viso? Probabilmente il suo cuore non
è buono e l'intelletto non è nobile; questo è molto probabile"[7].
Proust nel V e terzultimo volume della Ricerca,
conclusa negli ultimi mesi di vita (tra il 1921 e il 1922) esprime lo stesso
concetto:"Qualsiasi essere amato - anzi, in una certa misura, qualsiasi
essere - è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che
ci attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci
annoia"[8].
L'analogia con il cacciatore può essere estesa a
quella con il raccoglitore di fiori. Il fiore raccolto non è più amabile. Molto note sono le ottave
dell'Orlando furioso:"La verginella è simile alla rosa,/ch'in bel
giardin su la nativa spina/mentre sola e sicura si riposa,/né gregge né pastor
se le avicina;/l'aura soave e l'alba rugiadosa,/l'acqua, la terra al suo favor
s'inchina:/gioveni vaghi e donne innamorate/amano averne e seni e tempie
ornate.//Ma non sì tosto dal materno stelo/rimossa viene, e dal suo ceppo
verde,/che quanto avea dagli uomini e dal cielo/favor, grazia e bellezza, tutto
perde./La vergine che 'l fior, di che più zelo/che de' begli occhi e de la vita
aver de',/lascia altrui còrre, il pregio ch'avea inanti/perde nel cor di tutti
gli altri amanti" (I, 42 - 43).
Troviamo un’occorrenza di questo topos in El
burlador de Sevilla (1630) di Tirso de Molina: “regola dell’amore/è
amare chi ci odia, /sprezzare chi ci adora,/perché, se è pago, muore,/e vive se
è ferito” (I, 10).
Meno noti sono forse il sentimento e la riflessione di
Vrònskij dopo che ha realizzato il suo sogno d'amore con Anna Karenina:
"Lui la guardava come un uomo guarda un fiore che ha strappato, già tutto
appassito, in cui riconosce con difficoltà la bellezza per la quale l'ha
strappato e distrutto"[9].
Gozzano, su questa linea, sospira con ironia: "Il mio
sogno è nutrito d'abbandono,/di rimpianto. Non amo che le rose/ che non
colsi"[10].
Sentiamo infine C. Pavese:"Ma questa è la più atroce: l'arte della vita consiste
nel nascondere alle persone più care la propria gioia di esser con loro,
altrimenti si perdono"[11].
Questa ode chiamata Preghiera ad Afrodite , ha la struttura di un inno cletico (di
invocazione). Essa consta di tre movimenti: il primo è la vera e propria
chiamata della divinità con i suoi epiteti; il secondo contiene il ricordo dei
meriti di chi prega o manifesta la memoria grata di un precedente aiuto
ricevuto; il terzo esprime la richiesta di un nuovo intervento.
Il rapporto con la dea non è di sottomissione o umiliazione, bensì di
amicizia e gratitudine. Viene in mente questa considerazione di Nietzsche:"Ciò che fa stupire
nella religiosità degli antichi Greci è la copiosa abbondanza del senso di riconoscenza che emana da
essa: - un tipo di uomo veramente
nobile è colui che sta innanzi alla natura ed alla vita in questo atteggiamento!
- In seguito, quando in Grecia la plebe ebbe il sopravvento, anche nella
religione incominciò a farsi strada il timore; stava preparandosi il
cristianesimo"[12]. In
effetti nell'Edipo re di Sofocle troviamo un'analoga espressione di
gratitudine quando il coro in preghiera invoca gli dèi affinché allontanino da
Tebe il male della peste e ricorda:"se
mai anche per una precedente sciagura/che si levava sulla città/metteste fuori
luogo la fiamma della pena/venite anche ora
e[lqete kai; nu'n"(vv.164 - 167) (cfr. e[lqe moi kai; nu'n, v. 25 dell’ode di Saffo.).
A conferma di questo possiamo citare un pensiero di Marco Aurelio: "getta via la tua
sete di libri, perché tu possa morire non balbettando ma davvero sereno e grato
agli dèi dal profondo del cuore"(Ricordi, II, 3).
L'ode di Saffo contiene un'altra idea tipica della
cultura classica, quella del ciclico avvicendarsi degli eventi: l'abbiamo già
vista nel fr.67aD di Archiloco.
E la possiamo leggere negli Annali
di Tacito ( III,55):"Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis,
ut quem ad modum temporum vices ita morum vertantur...", a meno che,
come è probabile, in tutte le cose non ci sia una specie di ciclo, in
maniera che come le stagioni così cambiano periodicamente i costumi.
Questa coscienza
dell'avvicendamento crea un distacco tra la persona e il
dolore considerato, al pari della gioia e dell'amore, una parte necessaria
della ruota sulla quale gira la vita.
Per quanto riguarda il rapporto con la divinità,
questa non solo è invocata con una confidenza che permette di parlare
liberamente, ma è descritta con
una ricchezza di particolari che deriva da Omero e che non è dato trovare nella
Bibbia[13].
Abbiamo visto, sia in Omero sia in Saffo, la presenza
dell'oro. Questo naturalmente non ha alcun valore economico, ma costituisce un
aspetto della bellezza e della grazia, o quasi un riflesso del fulgore divino,
come leggiamo nell'Edipo re (vv.151a - 153a.):
"O voce dolciloquente di Zeus
quale mai da Pito ricca d'oro
sei venuta alla splendida Tebe?".
Anche Pindaro, nella Prima Olimpica,
(vv.1 - 2) mette in luce il valore estetico e spirituale, più che economico,
quasi antieconomico dell'oro che" ardendo come
fuoco brilla nella notte al
di sopra di ogni superba ricchezza".
Anche il Cristo di Matteo splendidamente reso in
immagini filmiche da Pasolini[14] mette in rilievo la sacralità che l'oro riceve
dall'altare quando censura gli Scribi e i Farisei ipocriti:" Stulti
et caeci! Quid
enim maius est: aurum an templum, quod santificat aurum?" (23, 17), stolti e ciechi, che cosa è più grande:
l'oro o il tempio che santifica l'oro? E ancora:" Caeci! Quid enim
maius est: donum an altare, quod santificat donum? (23, 19), ciechi!
Che cosa infatti è più grande: l'offerta o l'altare che santifica l'offerta?
CONTINUA
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[2] A questo proposito vogliamo citare un altro
poeta omosessuale:"Socrate era libertino: da Liside a Fedro, i
suoi amori per i ragazzi son stati innumerevoli. Anzi, chi ama i ragazzi, non
può che amare tutti i ragazzi (ed è questa, appunto, la ragione
della sua vocazione pedagogica). P. P. Pasolini, Scritti corsari ,
p.258.
[13] A questo proposito è interessante il saggio di
E. Auerbach compreso in Mimesis, il realismo nella letteratura
occidentale . L'autore nota che Omero descrive tutto con esattezza per
la"necessità ..di non lasciare nell'ombra o non finito nulla di quello che
è stato accennato"(p.6), e questo avviene tanto quando racconta come
Ulisse si fece la cicatrice che svela la sua identità a Euriclea(Odissea ,
XIX, 390 sgg.), tanto quando descrive la visita di Ermes a Calipso(Odissea ,
V) dove del dio in partenza dice persino che"sotto i piedi legò i sandali
belli/immortali d'oro, che lo portavano sia sul mare/sia sulla terra infinita
insieme con i soffi del vento"(vv.43 - 46). Una descrizione, come si vede,
ricordata da Saffo. Auerbach procede con un confronto cui accenniamo perché ci
sembra interessante: l'Antico Testamento, particolarmente nell'episodio del
sacrificio di Isacco(Genesi , 22), invece fa sentire la voce di un
dio che "inopinato ed enigmatico..arriva sulla scena da altezze o
profondità sconosciute e grida: - Abramo!"(p.9).
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