Il film Magdalene
di P. Mullan che nel 2002
ha vinto, giustamente, seppure non senza polemiche, il
Leone d'oro al festival del cinema di Venezia. Il regista, contestato da alcuni prelati cattolici, afferma che il film
"parla di tutte le religioni, non
solo di quella cattolica, che opprimono le donne poiché rappresentano la forza
della vita e dell'amore"[1].
Alexis De Tocqueville (1805-1859) indica un nesso tra la severità dei costumi, le
credenze religiose e l'anima femminile negli Stati Uniti della prima metà
dell'Ottocento:" Non dubito affatto che la grande severità di costumi che
si nota negli Stati Uniti non abbia la sua origine nelle credenze religiose. La
religione è molto spesso impotente a trattenere l'uomo in mezzo alle tentazioni
innumerevoli offertegli dalla fortuna; essa non riesce a moderare in lui il
desiderio della ricchezza che lo sprona poderosamente, ma regna incontrastata
nell'anima femminile ed è la donna che fa i costumi"[2].
Secondo questa concezione le donne avrebbero la massima responsabilità della
conservazione di questo pilastro della vita regolata da norme di decenza.
Nei fatti il
trionfo della licentia femminile temuto dal Catone il Vecchio di Tito
Livio porterà a una mutazione del
costume antico.
La paura della donna (metus feminae genitivo soggettivo).
La paura della donna suggerisce al censore alcune
parole sulla necessaria sottomissione della femina al fine di tenere sotto controllo una natura
altrimenti riottosa e sfrenata .
Così si esprime Catone quando parla, nel 195 a. C., contro
l'abrogazione della lex Oppia che, dal 215, imponeva un limite al lusso
delle matrone[3]
le quali erano scese in piazza proprio per manifestare a favore
dell'annullamento della legge:" Maiores
nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore
voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum...date frenos impotenti
naturae et indomito animali et sperate ipsas modum licentiae
facturas...omnium rerum libertatem, immo licentiam , si vere dicere
volumus, desiderant… Extemplo simul pares esse coeperint, superiores erunt
"[4], ( Livio, Storie, XXXIV, 2, 11-14; 3,
2) i nostri antenati non vollero che le donne trattassero alcun affare, nemmeno
privato senza un tutore garante, e che stessero sotto il controllo dei padri,
dei fratelli, dei mariti...allentate il freno a una natura così intemperante, a
una creatura riottosa e sperate pure che si daranno da sole un limite alla
licenza...desiderano la libertà, anzi, se vogliamo chiamarla con il giusto nome la licenza in tutti i campi….
appena cominceranno a esserci pari, saranno superiori.
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