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domenica 27 ottobre 2019

L'immigrata, "barbara" Medea e il "civile" Giasone nel film di Pasolini. Scontro di culture. Parte prima


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L’età del businness. 2019

Il contrasto tra i due ex amanti viene interpretato in maniera politico - antropologica, e ancora molto attuale, da P. P. Pasolini autore di una Medea cinematografica che prende spunto da quella di Euripide.
In una intervista a J. Duflot il regista dichiara che nel suo film ha voluto mettere in evidenza il contrasto tra la cultura razionale e pragmatica di Giasone e quella arcaica e ieratica della barbara:
"Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti (...) Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a qualche citazione (...) Medea è il confronto dell'universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico.
Giasone è l'eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. E' il "tecnico" abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo (...) Confrontato all'altra civiltà, alla razza dello "spirito", fa scattare una tragedia spaventosa. L'intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due "culture", sull'irriducibilità reciproca delle due civiltà (...) potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio[1]".
Le due razze in contrasto insanabile potrebbero essere paragonate agli schieramenti della battaglia di cui parla Platone nel Sofista.
 In questo dialogo uno straniero di Elea segnala una gigantomaciva...peri; th'" oujsiva" (246a), una battaglia di giganti sull'essere. I due eserciti sono schierati così:"OiJ me;n eij" gh'n ejx oujranou' kai; tou' ajoravtou pavnta e{lkousi tai'" cersi;n ajtecnw'" pevtra" kai; dru'" perilambavnonte". Tw'n ga;r toiouvtwn ejfaptovmenoi pavntwn diiscurivzontai tou'to ei\nai movnon o} parevcei prosbolh;n kai; ejpafh;n tina, taujto;n sw'ma kai; oujsivan oJrizovmenoi, tw'n de; a[llwn ei[ tiv" ti fhvsei mh; sw'ma e[con ei'jnai, katafronou'nte" to; paravpan kai; oujde;n ejqevlonte" a[llo ajkouvein"(246a - b), gli uni dal cielo e dall'invisibile trascinano a terra tutto, acchiappandolo con le mani proprio come se fossero rocce o querce. E infatti attaccandosi a tutte le cose siffatte affermano che soltanto è, ciò che offre un contatto e una presa manuale, e stabiliscono che l'essere e il corpo sono la stessa cosa, e se qualcuno degli altri dirà che c'è qualche cosa senza corpo, lo disprezzano completamente e non vogliono ascoltare nient'altro.
 Chi sono questi non miti giganti del materialismo? Secondo A. E. Taylor Platone non allude agli atomisti ma al "crasso, ottuso materialismo dell'uomo medio"[2].
Il Giasone della Medea di Euripide, l'uomo che cerca l'utile, può entrare bene in questa categoria.

E gli avversari, chi sono? "oiJ pro;" aujtou;" ajmfisbhtou'nte" mavla eujlabw'" a[nwqen ejx ajoravtou poqe;n ajmuvnontai, nohta; a[tta kai; ajswvmata ei[dh biazovmenoi th;n ajlhqinh;n oujsivan ei\nai " (246b), quelli che nel dibattito si oppongono loro, molto cautamente si difendono, appoggiandosi a regioni superiori e all'invisibile e sostenendo con convinzione che il vero essere consiste in alcune forme pensabili e immagini incorporee.
I secondi sono più miti ("hJmerwvteroi" 246c). I primi furono seminati nella terra e dalla terra sono sorti ("spartoiv te kai; aujtocqovne"", 247c), gli altri sono amici delle forme"tou;" tw'n eijdw'n fivlou"", 248a). 
Meno facile assimilare Medea a questi, anche se Pasolini la ascrive alla "razza dello spirito".
Taylor suggerisce che l'eleatico italico faccia riferimento "a certi sapienti d'Italia che egli chiama anche pitagorici"[3].
Nella tragedia di Euripide la nipote del sole è stata tradita e abbandonata, come si sa, e lamenta la rottura del vincolo coniugale da parte del marito invocando Temi[4] e Artemide ( Medea, vv. 160 - 163). La giustizia viene menzionata, evocata e invocata più volte: la donna offesa lamenta il tramonto di Divkh che infatti non sta negli occhi dei mortali (v. 219).
 La barbara dunque, l' impudica Colchis[5], la svergognata donna di Colchide, contrappone la Giustizia all'utile di Giasone il quale "dra'/ ta; sumforwvtata " (v. 876) fa quello che è più utile.
 In parole più povere e correnti si potrebbe dire che Medea non accetta le imposizioni di quel "macho fallocratico"[6] di Giasone.

Medea sprotetta. Bruno Snell
"Euripide mette accuratamente in rilievo che Medea è totalmente sciolta dai legami che proteggono l'individuo e gli possono dar sostegno. Essa ha tradito e abbandonato patria e famiglia per un legame del tutto personale: l'amore che l'univa a Giasone. Giasone non compie nessuna ingiustizia di fronte alla convenzione o alla legge, ma in favore di Medea parla un diritto più alto: il diritto naturale e umano. Essa non può valersi di nessun diritto valido, non può nemmeno appoggiarsi a una legge divina come l'Antigone di Sofocle, per controbattere le ragioni di Giasone. Il suo senso personale di giustizia si ribella, e in lei, la barbara, erompe in forma passionale. Giasone potrà dimostrare che la sua azione è stata saggia e vantaggiosa per entrambi, ma di fronte a questo più profondo e (secondo quanto lascia intendere Euripide stesso) più vero senso di giustizia, la sua figura ci appare assai meschina"[7].

La mentalità arcaica e ieratica di Medea si vede nelle sue preghiere antiche, nel suo invocare Zeus, la Giustizia di Zeus, e la luce del Sole suo avo (w\ Zeu' Divkh te Zhno;;;" JHlivou te fw'" "(v. 764).
Nel film di Pasolini che impiega, verbum de verbo, solo questo verso della tragedia di Euripide, e per tre volte le fa pronunciare a Medea per giunta echeggiata dal Coro[8], il Centauro maestro di Giasone rileva " il suo disorientamento di donna antica in un mondo che ignora ciò in cui lei ha sempre creduto". Il culto del Sole è un tratto arcaico che attraversa molti autori della letteratura europea[9].
Il sole invitto esorta Medea a tornare nelle sue "vecchie spoglie". Questo arcaismo la differenzia dal popolo civilizzato di Corinto della cui intolleranza nei confronti di tale diversità il re si fa portavoce:
"E' noto a tutti in questa città che, come barbara, venuta da una terra straniera, sei molto esperta nei malefici. Sei diversa da tutti noi: perciò non ti vogliamo tra noi"[10].
E' l'eterno rifiuto della diversità da parte dell'uomo civilizzato e incolto.
Il tentativo della donna barbara di riuscire gradita ai Greci, tra i quali si è rifugiata, rimanda a un contrasto che si estende oltre i caratteri dei due personaggi protagonisti, e comprende il conflitto tra presunta barbarie e presunta civiltà, una collisione tragica ripreso e sottolineato tanto da Grillparzer[11] quanto da Pasolini.
 A questo proposito si può ricordare che il drammaturgo austriaco nella sua Medea[12] mette in rilievo "la storia di una terribile difficoltà o impossibilità di intendersi fra civiltà diverse, un monito tragicamente attuale su come sia difficile, per uno straniero, cessare veramente di esserlo per gli altri"[13].

Intellettuali e potere
Tra intellettuali liberi e potere non sono possibili rapporti di collaborazione secondo il Pasolini degli Scritti corsari che infatti gli sono costati la vita:" il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi". (p. 113).
Pasolini chiarisce: "l'interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azione umane deriva in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica"[14].

Qui l'autore parla del vuoto di Carità dell'Italia degli anni Settanta. Ma riferiamolo alla Medea di Euripide. Il pragmatismo di Giasone si manifesta chiaramente quando il seduttore dichiara alla sua ex moglie di avere voluto cambiare donna, prendendo la principessa di Corinto, non perché odiasse la madre dei suoi figli, o perché ne volesse altri, ma per la cosa più importante: vivere bene, lui con la famiglia, o le famiglie, e senza restrizioni (wJ" , to; men; mevgiston, oijkoi''men kalw'" - kai; mh; spanizoivmeqa), sapendo con certezza che il povero tutti lo sfuggono (vv. 559 - 560).
 Egli insomma "dra'/ ta; sumforwvtata - ghvma" tuvrannon " (v. 876 - 877) fa quello che è più utile sposando la figlia di un re, come riconosce Medea, quando finge di sottomettersi beffeggiandolo. Bisogna chiarire che anche questa Medea di Euripide impiega, strumentalmente, la cultura dell'utile che pure la rende infelice, quando blandisce Creonte per ottenere un giorno di permanenza a Corinto onde compiere la sua terribile vendetta.

C'è anche un luogo platonico che tratta il problema. Nel primo libro della Repubblica il sofista Trasimaco, un rappresentante della filosofia di potenza, propugna in forma più diretta, e forse meno ignobile, l'ideologia contenuta nelle parole e nel comportamento di Giasone. Egli, raggomitolatosi come una fiera, si dirige contro Socrate, sostenitore della Giustizia, come se volesse sbranarlo (336b). Quindi afferma che il giusto non è altro che l'utile di chi è più forte:"to; divkaion oujk a[llo ti h] to; tou' kreivttono" sumfevron"(338c).

Si può chiamare in causa e inserire in questa categoria della gente guidata dall'utile anche la Poppea Sabina di Tacito: unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat (Annales, XIII, 45), dove si presentasse l'utile, là volgeva la libidine.
Si pensi a tante tra le persone che appaiono nelle trasmissioni televisive. Il culto del sumfevron (utile) che precede il kalovn (bello, e bello morale) contraddistingue anche la nostra epoca.
Lo afferma Hillman:"La civiltà odierna è tenuta insieme non dall'idea di bellezza, di verità, di giustizia o di destino, non da una forza basata sulle armi come la pax romana, non da leggi, divinità, o dalle fedi condivise. Soltanto le idee del business sono realmente universali. Se le idee del business, come il commercio, la proprietà, il prodotto, lo scambio, il valore, il profitto, il danaro, sono quelle che, in modo cosciente o inconscio, governano la vita umana del pianeta, allora sono queste le idee che concorrono a dare al business il suo potere, stabilendo il suo impero mondiale al di là di ogni confine geografico e di ogni barriera di costume"[15].
"Giasone non ama nulla. Ci viene presentato come l'egoista puro, un cinico, passato attraverso l'insegnamento dei sofisti e che ne parla il linguaggio"[16].

In maniera analoga a Giasone si comporta Carlo Grandet quando scrive a sua cugina Eugenia che lo aveva atteso per sette anni, amandolo, dopo che si erano giurati amore eterno:
"L'amore, nel matrimonio, è una chimera. Oggi la mia esperienza mi dice che bisogna obbedire a tutte le leggi sociali e salvaguardare col matrimonio tutte le convenienze volute dal mondo(…) Oggi io posseggo ottantamila lire di rendita. Questo denaro mi consente di unirmi alla famiglia d'Aubrion, la cui ereditiera, una giovane di diciannove anni, mi porta col matrimonio il suo nome, un titolo, la carica di gentiluomo onorario di camera di sua Maestà, e una posizione fra le più brillanti. Vi confesserò, mia cara cugina, ch'io non amo affatto la signorina d'Aubrion; ma, unendomi a lei, assicuro ai miei figli una situazione sociale i cui vantaggi saranno in avvenire incalcolabili"[17].



continua

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[1]J. Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro, Roma 1983, in Naldini, Pasolini, una vita , p. 81.
[2] Platone, p. 597.
[3] A. E. Taylor, Platone, p, 600.
[4] Dea della giustizia, figlia di Urano e di Gea.
[5] Orazio, Epodo 16, 58.
[6] Cfr. R. Alonge op. cit. R. Alonge, Epopea borghese nel teatro di Ibsen, p. 46.
[7] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 178.
[8] Nella scena 72.
[9] Ho preparato un'ampia scheda sul culto del sole nella mia Antigone (Loffredo, 2001, pp. 48 - 51). Ne utilizzerò una parte più avanti.
[10] Scena 66.
[11] 1791 - 1872
[12] Che conclude la trilogia Il vello d'oro: L'ospite , Gli argonauti del 1821.
[13]C. Magris in Euripide, Grillparzer, Alvaro, Medea Variazioni sul mito, a cura di M. G. Ciani, p. 17.
[14] P.P. Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
[15] J. Hillman, Il potere, p. 17.
[16] A. Bonnard, op. cit., p. 443
[17] H. d. Balzac, Eugenia Grandet (del 1833), pp. 158 - 159.

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