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giovedì 17 ottobre 2019

Alessandro il Grande. Parte quinta. La morte di Alessandro Magno preannunciata da segni

Domenico Zampieri, il Domenichino
La morte di Alessandro Magno
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La morte di Alessandro Magno preannunciata da segni


Plutarco racconta che Nearco, l’ammiraglio, gli disse che i Caldei lo consigliavano di stare alla larga da Babilonia. Alessandro non ci fece caso ma, giunto alle mura della città vide molti corvi kovraka~ pollou;~ diaferomevnou~ kai; tuvptonta~ ajllhvlou~ (Vita, 73, 2) che lottavano e si colpivano a vicenda. Alcuni di questi gli caddero ai piedi. Inoltre l'indovino Pitagora aveva trovato nelle vittime sacrificali un fegato senza lobi h|par a[lobon (73, 5).
 Allora il re disse. " papai; ijscuro;n to; shmei'on , ahi, un segno forte! Alessandro si sente la morte addosso, non è più se stesso, perché questa volta non ha la forza di volgere il segno in proprio favore come in precedenza.

"Il successo e la fortuna sono in noi. Noi dobbiamo tenerli: saldi, profondamente. Appena qua dentro qualche cosa comincia a cedere, a stancarsi, a perder forzatutti intorno a noi si sentono liberi, si ribellano, recalcitrano, si sottraggono al nostro influsso. Allora un guaio viene dopo l'altro, batoste su batoste, e si è liquidati"[1].

Sicché Alessandro si pentì di non avere ascoltato Nearco.
Rimaneva fuori da Babilonia, non senza altri segni: un mite asino assalì e uccise a calci (laktivsa~ ajnei'len, 73, 7) il leone più grande tra quanti ne manteneva il re. Poi il brutto segno dell'uomo trovato seduto sul suo trono. Al. era scoraggiato e sfiduciato hjquvmei kai; duvselpi~ h\n verso la divinità e pieno di sospetto (u{popto~) nei confronti degli amici (Plutarco, Vita, 74). Soprattutto temeva Antipatro e i figli di lui: Iolao che era il suo ajrcioinocovo~, il primo coppiere e Cassandro che era scoppiato a ridere vedendo per la prima volta la proskynesis. Al. allora gli aveva battuto la testa contro il muro. A Cassandro rimase sempre una paura enorme di Al. Quando era già re di Macedonia (dal 305) si mise a tremare per avere visto a Delfi una statua di Al.
Plutarco nota che Al. era diventato taracwvde~ kai; perivfobo~ (75), incerto e pauroso da quando si era affidato ai segni divini. Lo storico commenta dicendo che se l’incredulità (ajpistiva) e il disprezzo (perifrovnhsi~) nei confronti del divino è terribile (deinovn), terribile d’altra parte è anche la superstizione (deinh; d j au\qi~ hJ deisidaimoniva) che come la pioggia cade sempre sul depresso (divkhn u{dato~ ajei; pro;~ to; tapeinouvmenonVita, 75, 2)

Devi andare verso oriente, dicevano i Caldei. Ma il demone lo spingeva dove, una volta arrivato, doveva morire. E forse fu meglio per lui morire ejn ajkmh'/, al culmine della fama e del rimpianto degli uomini; per questo motivo Solone disse a Creso di non considerare felice un uomo prima di averne conosciuta la fine[2] (Arriano, 7, 16, 7).

Al. voleva fare ricostruire il tempio di Belo distrutto da Serse, con l’oro la terra e le ricchezze del dio gestite dai sacerdoti. Sicché pensò che la pretaglia volesse ostacolare il suo ingresso ej" wjfevleian th;n auJtw'n, nel loro interesse. Questo viene smascherato solo quando non coincide con il suo. Voleva comunque entrare procedendo verso oriente, come gli avevano detto, ma il terreno era paludoso e fangoso e non ci riuscì. Kai; ou{tw kai; eJkovnta kai; a[konta ajpeiqh'sai tw'/ qew'/ (7, 17, 6) e così, sia volendo sia senza volere, disobbedì al dio.
L’indovino Pitagora aveva fatto sacrifici sia riguardo ad Efestione, sia ad A., e in entrambi i casi non si vedeva il lobo nel fegato[3] della vittima.
 To; h|par risultato a[lobon significava qualche cosa di molto grave mevga calepovn (Arriano 7, 18, 4). Al. non punì l’indovino, anzi lo stimò poiché gli aveva detto la verità ajdovlw", senza inganni.

Il saggio indiano Calano quando salì sulla pira abbracciò gli altri e disse ad Al. che l’avrebbe abbracciato incontrandolo a Babilonia. Ne aveva profetizzato la morte.

Al. voleva sottomettere gli Arabi, aspettandosi di essere venerato da loro come terza divinità dopo Urano e Dioniso. Il secondo è venerato per la spedizione in India, Urano perché contiene tutte le altre stelle e il sole “ ajf j o{tou megivsth kai; fanotavth wjfevleia ej" pavnta h{kei ta; ajnqrwvpeia” (7, 20), dal quale deriva il beneficio più grande e più evidente a tutte le cose umane[4]. Anche l’eujdaimoniva della regione lo attirava (cfr. Arabia felix in Plinio il Vecchio 5, 87, attuale Yemen). 
Ci fu un altro brutto segno: un colpo di vento gli portò via dal capo il diadema mentre navigava nelle paludi.
Secondo Aristobulo fu un marinaio fenicio a riportargli il diadema, secondo altri fu Seleuco e questo significò la morte per A. e il grande regno per Seleuco che fu il più grande dei diadochi, il più regale di spirito : “mevgiston tw'n meta ; jAlevxandron diadexamevnwn te gnwvmhn basilikwvtaton” (Arriano, 7, 22, 5).

La fine di Al. non era lontana (ouj povrrw hJ teleuth; h\n, 7, 23, 2).

Al. si mise a banchettare e a bere con gli amici. Quindi si sentì male. Poi morì dicendo che il regno doveva restare al migliore.
Si dicono molte cose sulla sua morte: che Antipatro mandò un veleno (farmakon, Arriano, VII, 27). Antipatro era in disgrazia per gli intrighi di Olimpiade. Il veleno lo avrebbe portato suo figlio Cassandro, dentro uno zoccolo di mulo. Glielo avrebbe somministrato Iolao, fratello minore di Cassandro e coppiere, e anche Medio, amante di Iolao, avrebbe partecipato all’azione. Medio infatti introdusse A. nella baldoria.
“Gli Ateniesi votarono subito decreti onorifici per il figlio di Antipatro, Iolao, il presunto assassino, e può darsi che di avvelenamento abbia parlato apertamente anche il contemporaneo Onesicrito” (Bosworth, p. 172).


Plutarco racconta che all’inizio di giugno del 323 a. C. Alessandro fu invitato da Medio perché andasse da lui kwmasovmeno~ (Vita, 75, 4) a fare baldoria. Il conquistatore macedone rimase là tutta la notte, poi cominciò ad avere la febbre. Non è vero che bevve alla tazza di Eracle, né che fu preso da un dolore alla schiena[5], come fosse stato colpito da una lancia, secondo quanto scrivono alcuni, quasi rappresentando la conclusione tragica e dolorosa di un grande dramma (w{sper dravmato~ megavlou tragiko;n ejxovdion kai; peripaqe;~ plavsante~, 75, 5).

Differenza tra storia e tragedia. Polibio. GorgiaAristotele.
 è l’insegnamento di Polibio che la storia non deve tragw/dei'n, rappresentare tragedie. Lo scopo della storia e della tragedia non è lo stesso ma è opposto ("to; ga;r tevlo" iJstoriva" kai; tragw/diva" ouj taujtovn, ajlla; toujnantivon", II, 56, 11) in quanto la tragedia deve impressionare e affascinare momentaneamente gli spettatori attraverso la verosimiglianza dei discorsi ("dei' dia; tw'n piqanwtavtwn lovgwn ejkplh'xai kai; yucagwgh'sai kata; to; paro;n tou;" ajkouvonta"", II, 56, 11) mentre la storia deve istruire e convincere per sempre con fatti e discorsi veri coloro che vogliono imparare ("dia; tw'n ajlhqinw'n e[rgwn kai; lovgwn eij" to;n pavnta crovnon didavxai kai; pei'sai tou;" filomaqou'nta"" ). Questo poiché nella tragedia prevale il verosimile, anche se falso, per creare illusione negli spettatori ("dia; th;n ajpavthn tw'n qewmevnwn"), mentre nella storia il vero per l'utilità di quelli che vogliono imparare ("tajlhqe;" dia; th;n wjfevleian tw'n filomaqouvntwn", II 56 12).

Si ricorderà che Gorgia aveva detto che la tragedia creava un inganno nel quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato ("oJv te ajpathvsa" dikaiovtero" tou' mh; ajpathvsanto" kai; oJ ajpathqei;" sofwvtero" tou' mh; ajpathqevnto""[6]).

Secondo Aristotele l'arte è essenzialmente mimèsi, imitazione della realtà e proprio per questo il teatro ne costituisce la quintessenza. Il poeta però, diversamente dallo storico che racconta cose avvenute, deve volgersi a quello che potrebbe sempre avvenire secondo verosimiglianza e necessità: “dio; kai; filosofwvteron kai; spoudaiovteron poivhsi~ iJstoriva~ ejstivn” (1451b, 5), e perciò la poesia è più filosofica e più importante della storia. Infatti la poesia esprime piuttosto l’universale[7], la storia il particolare.

Plutarco riferisce la versione dell’architetto Aristobulo: Al. che aveva una gran febbre e una gran sete continuò a bere vino, entrò in delirio e morì (Vita, 75, 6). Quindi riporta le notizie contenute ejn tai'~ ejfhmerivsin (Vita, 76), nei diari di corte. Erano redatti da segretari sotto la direzione di Eumene di Cardia. Raccontano che Al. non faceva stravizi, giocò a dadi con Medio, fece diversi bagni, parlò con i generali, fece sacrifici e la febbre non scese mai oJ de; pureto;~ oujk ajnh'ken (76, 7). Quindi perse la voce: h\n a[fwno~. Poi i soldati macedoni aprirono con violenza le porte della reggia e, vestiti della sola tunica, sfilarono tutti accanto al suo letto (para; th;n klivnhn, 75, 8).
Ancora una volta il letto come luogo sacro della vita[8], e della morte.
 Al. morì il ventotto di sera. Lì per lì nessuno ebbe il sospetto di avvelenamento (farmakeiva~ d j uJpoyivan, 77, 2) ma sei anni dopo Olimpiade mandò a morte molti e fece gettare via le ceneri (ta; leivyana) di Iolao morto, dicendo che aveva avvelenato A. Secondo alcuni fu Aristotele a spingere Antipatro e addirittura sostengono che gli procurò il veleno. Questo era un liquido acquoso, freddissimo che proveniva da una sorgente dell’Arcadia ed era conservato in uno zoccolo d’asino. Ma i più pensano che questa storia sia una finzione to;n lovgon o{lw~ oi[ontai peplavsqai (77, 5) e la prova (tekmhvrion) è che il corpo rimase diversi giorni esposto al caldo senza corrompersi. Rossane incinta uccise Statira II insieme alla sorella, poi gettò i cadaveri in un pozzo con la complicità di Perdicca il quale teneva con sé, come presidio del suo potere regio, Arrideo, figlio di Filippo e di Filinna, una donna non nobile, ed era minorato a causa di una malattia. Pare che tale morbo gli fosse stato causato da Olimpiade con delle droghe (farmavkoi~, 77, 8).
Fine Plutarco.



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[1] T. Mann, I Buddenbrook, p. 276.
[2] Erodoto, I, 32.
[3] Nell’Oedipus di Seneca segni brutti e contronatura li dà la giovenca sacrificata:"cor marcet aegrum penitus, ac mersum latet,/liventque venae; magna pars fibris abest;/et felle nigro tabidum spumat iecur" (vv. 356 - 358), il cuore malato è marcio profondamente, e rimane nascosto colato a fondo, le vene sono livide; alle fibre manca grande parte; e il fegato schiuma putrefatto in un fiele nero.
Sono tutti segni: il cuore marcio che si nasconde allude ai sentimenti malati e obbrobriosi della famiglia, il fegato putrefatto alle passioni pervertite e letali, le fibre carenti alla vita caduta a terra e incapace di risollevarsi, le vene livide all'invidia delle corti. Gli aruspices, giunti in un primo tempo dall’Etruria, erano specializzati nel leggere il futuro nel fegato delle vittime.
[4] Cfr. il culto del sole in Sofocle, Platone, Giuliano Augusto, San Francesco, Dante. 
[5] Questi particolari si trovano nella Biblioteca storica di Diodoro Siculo (XVII, 117)
[6]In Plutarco, de glor. Ath. 5 p. 348 C
[7] “ Deve necessariamente esservi una differenza tra la vera poesia e la vera parola non poetica: qual è questa differenza? Su questo punto molte cose sono state scritte specialmente dagli ultimi critici tedeschi…Essi dicono, per esempio, che il poeta ha in sé una infinitudine, comunica una Unendlichkeit, un certo carattere “d’infinitudine”, a tutto quanto descrive” T. Carlyle, Gli eroi (del 1841), p. 118.

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