Domenico Zampieri, il Domenichino La morte di Alessandro Magno |
La morte di Alessandro Magno preannunciata da segni
Plutarco racconta che Nearco, l’ammiraglio, gli disse che i Caldei lo
consigliavano di stare alla larga da Babilonia. Alessandro non ci fece caso ma,
giunto alle mura della città vide molti corvi kovraka~
pollou;~ diaferomevnou~ kai; tuvptonta~ ajllhvlou~ (Vita, 73, 2) che lottavano e si colpivano a vicenda. Alcuni di
questi gli caddero ai piedi. Inoltre l'indovino Pitagora aveva trovato nelle
vittime sacrificali un fegato senza lobi h|par a[lobon (73, 5).
Allora il re disse. " papai; ijscuro;n to; shmei'on ”, ahi, un segno forte! Alessandro si sente la morte addosso, non è più se stesso, perché
questa volta non ha la forza di volgere il segno in proprio favore come in
precedenza.
"Il
successo e la fortuna sono in noi. Noi dobbiamo tenerli: saldi,
profondamente. Appena qua dentro
qualche cosa comincia a cedere, a stancarsi, a perder forza, tutti intorno a noi si sentono
liberi, si ribellano, recalcitrano, si sottraggono al nostro influsso. Allora un guaio viene dopo
l'altro, batoste su batoste, e si è liquidati"[1].
Sicché
Alessandro si pentì di non avere ascoltato Nearco.
Rimaneva
fuori da Babilonia, non senza
altri segni: un mite asino assalì e uccise a calci (laktivsa~
ajnei'len, 73, 7) il
leone più grande tra quanti ne manteneva il re. Poi il brutto segno dell'uomo
trovato seduto sul suo trono. Al. era scoraggiato e sfiduciato hjquvmei kai;
duvselpi~ h\n verso
la divinità e pieno di sospetto (u{popto~) nei confronti degli amici (Plutarco, Vita, 74). Soprattutto
temeva Antipatro e i figli di lui: Iolao che era il suo ajrcioinocovo~, il primo coppiere e Cassandro che
era scoppiato a ridere vedendo per la prima volta la proskynesis. Al.
allora gli aveva battuto la testa contro il muro. A Cassandro rimase sempre una
paura enorme di Al. Quando era già re di Macedonia (dal 305) si mise a tremare
per avere visto a Delfi una statua di Al.
Plutarco nota che Al.
era diventato taracwvde~ kai; perivfobo~ (75), incerto e pauroso da quando si era affidato ai segni divini. Lo
storico commenta dicendo che se l’incredulità (ajpistiva) e il disprezzo (perifrovnhsi~) nei
confronti del divino è terribile (deinovn), terribile d’altra parte è
anche la superstizione (deinh; d j au\qi~ hJ
deisidaimoniva) che come la pioggia cade
sempre sul depresso (divkhn u{dato~ ajei; pro;~
to; tapeinouvmenon, Vita, 75, 2)
Devi andare verso oriente, dicevano i Caldei. Ma il
demone lo spingeva dove, una volta arrivato, doveva morire. E forse fu meglio
per lui morire ejn ajkmh'/, al
culmine della fama e del rimpianto degli uomini; per questo motivo Solone disse
a Creso di non considerare felice un uomo prima di averne conosciuta la fine[2] (Arriano, 7, 16, 7).
Al. voleva fare ricostruire il tempio di Belo
distrutto da Serse, con l’oro la terra e le ricchezze del dio gestite dai
sacerdoti. Sicché pensò che la pretaglia volesse ostacolare il suo ingresso ej"
wjfevleian th;n auJtw'n, nel loro interesse. Questo viene smascherato solo
quando non coincide con il suo. Voleva comunque entrare procedendo verso
oriente, come gli avevano detto, ma il terreno era paludoso e fangoso e non ci
riuscì. Kai; ou{tw kai; eJkovnta kai; a[konta ajpeiqh'sai tw'/
qew'/ (7, 17, 6) e così, sia volendo sia senza volere,
disobbedì al dio.
L’indovino Pitagora aveva fatto sacrifici sia riguardo
ad Efestione, sia ad A., e in entrambi i casi non si vedeva il lobo nel fegato[3] della vittima.
To; h|par risultato a[lobon significava qualche cosa di molto grave mevga calepovn (Arriano 7, 18, 4).
Al. non punì l’indovino, anzi lo stimò poiché gli aveva detto la verità ajdovlw", senza inganni.
Il saggio indiano Calano quando salì sulla pira
abbracciò gli altri e disse ad Al. che l’avrebbe abbracciato incontrandolo a
Babilonia. Ne aveva profetizzato la morte.
Al. voleva sottomettere gli Arabi, aspettandosi di essere venerato da
loro come terza divinità dopo Urano e Dioniso. Il secondo è venerato per la
spedizione in India, Urano perché contiene tutte le altre stelle e il sole
“ ajf j o{tou megivsth kai; fanotavth wjfevleia
ej" pavnta h{kei ta; ajnqrwvpeia” (7, 20), dal quale deriva
il beneficio più grande e più evidente a tutte le cose umane[4]. Anche l’eujdaimoniva della regione lo attirava (cfr. Arabia felix in
Plinio il Vecchio 5, 87, attuale Yemen).
Ci fu un
altro brutto segno: un colpo di vento gli portò via dal capo il diadema mentre
navigava nelle paludi.
Secondo
Aristobulo fu un marinaio fenicio a riportargli il diadema, secondo altri fu
Seleuco e questo significò la morte per A. e il grande regno per Seleuco che fu
il più grande dei diadochi, il più regale di spirito : “mevgiston tw'n
meta ; jAlevxandron diadexamevnwn te gnwvmhn basilikwvtaton” (Arriano, 7, 22, 5).
La fine di
Al. non era lontana (ouj povrrw hJ teleuth; h\n, 7, 23, 2).
Al. si mise
a banchettare e a bere con gli amici. Quindi si sentì male. Poi morì dicendo
che il regno doveva restare al migliore.
Si dicono
molte cose sulla sua morte: che Antipatro
mandò un veleno (farmakon, Arriano, VII, 27). Antipatro era in disgrazia per
gli intrighi di Olimpiade. Il
veleno lo avrebbe portato suo figlio Cassandro, dentro uno zoccolo
di mulo. Glielo avrebbe
somministrato Iolao, fratello minore di Cassandro e coppiere, e anche Medio, amante di Iolao,
avrebbe partecipato all’azione. Medio infatti introdusse A. nella baldoria.
“Gli
Ateniesi votarono subito decreti onorifici per il figlio di Antipatro, Iolao,
il presunto assassino, e può darsi che di avvelenamento abbia parlato
apertamente anche il contemporaneo Onesicrito” (Bosworth, p. 172).
Plutarco racconta
che all’inizio di giugno del 323 a. C. Alessandro fu invitato da Medio perché
andasse da lui kwmasovmeno~ (Vita, 75, 4) a fare baldoria. Il
conquistatore macedone rimase là tutta la notte, poi cominciò ad avere la
febbre. Non è vero che bevve alla tazza di Eracle, né che fu preso da un dolore
alla schiena[5],
come fosse stato colpito da una lancia, secondo quanto scrivono alcuni, quasi rappresentando la conclusione tragica e
dolorosa di un grande dramma (w{sper dravmato~ megavlou tragiko;n
ejxovdion kai; peripaqe;~ plavsante~, 75, 5).
Differenza tra storia e tragedia. Polibio. Gorgia. Aristotele.
è
l’insegnamento di Polibio che
la storia non deve tragw/dei'n, rappresentare tragedie. Lo scopo della storia e della tragedia non è lo stesso ma è opposto ("to; ga;r
tevlo" iJstoriva" kai; tragw/diva" ouj taujtovn, ajlla;
toujnantivon", II, 56, 11) in quanto la tragedia deve impressionare e affascinare
momentaneamente gli spettatori attraverso la verosimiglianza dei discorsi ("dei' dia; tw'n
piqanwtavtwn lovgwn ejkplh'xai kai; yucagwgh'sai kata; to; paro;n tou;"
ajkouvonta"", II, 56, 11) mentre la storia deve istruire e convincere per
sempre con fatti e discorsi veri coloro che vogliono imparare ("dia; tw'n
ajlhqinw'n e[rgwn kai; lovgwn eij" to;n pavnta crovnon didavxai kai;
pei'sai tou;" filomaqou'nta"" ).
Questo poiché nella tragedia prevale il verosimile, anche se falso, per creare
illusione negli spettatori ("dia; th;n ajpavthn tw'n qewmevnwn"), mentre nella storia il vero per l'utilità di quelli che vogliono
imparare ("tajlhqe;" dia; th;n wjfevleian tw'n
filomaqouvntwn", II 56 12).
Si ricorderà che Gorgia aveva detto che la tragedia creava un inganno nel
quale chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più
saggio di chi non è ingannato ("oJv te ajpathvsa"
dikaiovtero" tou' mh; ajpathvsanto" kai; oJ ajpathqei;"
sofwvtero" tou' mh; ajpathqevnto""[6]).
Secondo Aristotele l'arte è
essenzialmente mimèsi, imitazione della realtà e proprio per questo il teatro
ne costituisce la quintessenza. Il
poeta però, diversamente dallo storico che racconta cose avvenute, deve
volgersi a quello che potrebbe sempre avvenire secondo verosimiglianza e
necessità: “dio; kai; filosofwvteron
kai; spoudaiovteron poivhsi~ iJstoriva~ ejstivn” (1451b, 5), e perciò la
poesia è più filosofica e più importante della storia. Infatti la poesia
esprime piuttosto l’universale[7], la
storia il particolare.
Plutarco riferisce
la versione dell’architetto Aristobulo: Al. che aveva una gran febbre e una
gran sete continuò a bere vino, entrò in delirio e morì (Vita, 75, 6).
Quindi riporta le notizie contenute ejn tai'~ ejfhmerivsin (Vita, 76), nei diari
di corte. Erano redatti da segretari sotto la direzione di Eumene di Cardia.
Raccontano che Al. non faceva stravizi, giocò a dadi con Medio, fece diversi
bagni, parlò con i generali, fece sacrifici e la febbre non scese mai oJ de; pureto;~
oujk ajnh'ken (76,
7). Quindi perse la voce: h\n a[fwno~. Poi i soldati macedoni aprirono con violenza le porte
della reggia e, vestiti della sola tunica, sfilarono tutti accanto al suo letto
(para; th;n klivnhn, 75, 8).
Ancora una
volta il letto come luogo sacro della vita[8], e
della morte.
Al.
morì il ventotto di sera. Lì per lì nessuno ebbe il sospetto di avvelenamento (farmakeiva~ d j
uJpoyivan, 77, 2)
ma sei anni dopo Olimpiade mandò a
morte molti e fece gettare via le ceneri (ta; leivyana) di Iolao morto, dicendo che aveva avvelenato A. Secondo alcuni fu Aristotele a
spingere Antipatro e addirittura sostengono che gli procurò il veleno. Questo
era un liquido acquoso, freddissimo che proveniva da una sorgente dell’Arcadia
ed era conservato in uno zoccolo d’asino. Ma i più pensano che questa storia
sia una finzione to;n lovgon o{lw~ oi[ontai peplavsqai (77, 5) e la prova (tekmhvrion) è che il corpo rimase diversi
giorni esposto al caldo senza corrompersi. Rossane incinta uccise Statira II insieme alla sorella, poi
gettò i cadaveri in un pozzo con la complicità di Perdicca il quale teneva con
sé, come presidio del suo potere regio, Arrideo, figlio di Filippo e di
Filinna, una donna non nobile, ed era minorato a causa di una malattia. Pare
che tale morbo gli fosse stato causato da Olimpiade con delle droghe (farmavkoi~, 77,
8).
Fine Plutarco.
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[3] Nell’Oedipus di
Seneca segni brutti e contronatura li dà la giovenca sacrificata:"cor
marcet aegrum penitus, ac mersum latet,/liventque venae; magna pars fibris
abest;/et felle nigro tabidum spumat iecur" (vv. 356 - 358), il cuore
malato è marcio profondamente, e rimane nascosto colato a fondo, le vene sono
livide; alle fibre manca grande parte; e il fegato schiuma putrefatto in un
fiele nero.
Sono tutti segni: il cuore marcio che si nasconde
allude ai sentimenti malati e obbrobriosi della famiglia, il fegato putrefatto
alle passioni pervertite e letali, le fibre carenti alla vita caduta a terra e
incapace di risollevarsi, le vene livide all'invidia delle corti. Gli aruspices, giunti in
un primo tempo dall’Etruria, erano specializzati nel leggere il
futuro nel fegato delle vittime.
[7] “ Deve necessariamente esservi
una differenza tra la vera poesia e la vera parola non poetica: qual è questa
differenza? Su questo punto molte cose sono state scritte specialmente dagli
ultimi critici tedeschi…Essi dicono, per esempio, che il poeta ha in sé
una infinitudine, comunica una Unendlichkeit, un certo
carattere “d’infinitudine”, a tutto quanto descrive” T. Carlyle, Gli
eroi (del 1841), p. 118.
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