TIRESIA
Il mito
dell’eterno presente del sempre
di Lucia
Arsì
“Ispirami, trascinami, scagliami lì, ove possa vedere e riferire…Singulto e intanto invoco chi ha subìto il fascino delle forze divine. Attratto dall’invisibile.Salvatore, Il nome denota, uno pronto a salvare, è il fascinato. Così ha disposto la Moira. Ha sancito e il suo diktat è irreversibile.Da quando… quando… ancora imberbe pizzicava le corde della chitarra e s’invaghiva dei suoni leggiadri e poi… nulla. Solo un urlo frenato e la chiarezza d’un grande male. Viene meno la vista. Calano veli sulle pupille. Inizia il calvario.Tanti medici, numerosi interventi alla cornea ed esiti negativi.
Tu
ascolti i palpiti e convivi con essi e contatti i minuscoli oggetti e ti
accosti al semplice e accarezzi la spalliera del letto e con la mano spolveri
il comodino su cui poggi il bicchiere, che di notte hai avvicinato alle labbra
e osservi la tenda che perde il colore niveo e t’affanni perché torni a
brillare e socchiudi la porta dello studio, carezzando il pomello e comunichi
la gioia di avere lì tutti i tuoi libri schierati, compagni fedeli a sorreggere
le tue ore vuote e in cucina il fornello ti caccia e non accetta che sempre lo
levighi e non comprendi che vuole te lì a spelare carote, cucinare salsette e
tu a fargli compagnia e le tue mani sopra le stoviglie, le tue mani robuste a
sgrassare pensili.
Nulla
di tutto ciò. Rotto il rapporto con le cose, non più insieme agli altri. Rotto
il rapporto col sé.
Avverte
Salvatore un’insidia. Gira la testa di scatto. Nulla. Sempre il buio e sempre
più premente e sinistra quella mano poco distante dal petto
e sente aprirsi di più di più la ferita e il petto squarciato e
quella mano sale più fonda fino a bloccargli la gola.
E
il tempo che si calcola con le dita, padrone superbo, logora ogni sua fibra. E
la testa pesante e la mente sragiona. Poco cibo. Una profonda inquietudine e un
corpo traballante perché traballante il rapporto con la terra.
Fioca
la sensibilità, quasi sterile. Un tempo levigata, superba.
“Perché… perché… urlo insensato.
Accade
e non puoi dare risposta.
Così
Tiresia. Un giovane aitante. Cacciatore vigoroso. Cariclo la sua mamma, ninfa
della vergine Atena. La Dea, un giorno fatale, brama dare ristoro alle membra,
dopo lungo viaggio e libera le mammelle e il grembo dalle vesti. Nuda.
Bellissima. Più bianca della neve, quando fitta si riversa sull’alto monte e lo
colora di virgineo candore.
E
Tiresia è lì. Dove la rupe converge e dona riparo agli stanchi e il Magnifico
posa il suo piede. Tornerà solamente poi a correre dietro le cerbiatte più
veloci del vento.
Si
blocca Tiresia. Visione affascinante! Occasione unica! Scolpire nella mente!
Non lasciarla fuggire!
Della
donna, lungi dalla mente il sospetto che quella fosse una dea - ammira i
boccoli d’oro appena cadenti e raccolti con la fibbia intarsiata sulla sommità
della testa. Caviglie scattanti, cosce tornite e affusolate e il monte di
Venere esposto a solleticare la necessità di percorrerlo, indagare, perlustrare.
La bocca appena socchiusa ad invitare parole, sensazioni succulenti.
Ecco… tanta
chiarezza si spegne…per incanto…il colore della notte ha il sopravvento e
Tiresia, curioso, conduce la testa all’indietro. Uno scatto ed è la
conclusione. Poi nulla più.
La
bellezza acceca. Mai osare oltre le nostre possibilità. Pena la vista.
Cariclo piange. Prega la dea.
“Tiresia
- sancisce la prudente divinità – non vedrà mai più”. Poi… a lui s’accosta… deterge
a fondo le orecchie e continua “ Udrà la melodia degli uccelli e, poggiandosi
sul bastone di corniolo, andrà…andrà… lontano… lontano… sprofonderà… sotto…
sotto... ove
agli uomini non è dato, sentirà l’arcano e dirà…dirà prima degli
altri… lui… profeta… per volere divino. Saggio. Pieno. Lui, terzo testimone
dell’Uno, dell’uomo e della donna. Eh sì, l’uomo e la donna. Si amano. Si
fondono. Il virile d’entrambi gode una decima parte. Il profondo sentire,
quello che fa vibrare intensamente lo spirito riservato al femminile di
entrambi e ad esso va il godimento restante.
Fortunati
quegli uomini che levigano la loro parte più sensibile! Molti i maschi
irredenti, figli d’una barbara cultura.
Tiresia,
felicemente accecato da questa grande verità. Visse l’esperienza del femminile
allorché uccise il serpente femmina. E Tiresia per sette anni fu femmina in
toto, senza riserva alcuna. Poi tornò alla sua dimensione maschile… ma chi più
di lui potesse dire del femminile? E dire con sondata verità la sensibile
acutezza dell’animo femminile?
E
il saggio profeta va dal re di Tebe. Oidìpous. Altro re che
sa. “Oida” colui che ha visto e sa per sempre. Edipo è questo. Sa e
finge di non sapere. Perché? Atroce la sofferenza di abbandonare le cose della
terra. E non nel senso di spadroneggiare sulle cose. Amare tutto ciò che ti circonda.
Cose non più inerti, che si animano se tu li condisci del tuo amore. E ti
accompagnano ed edulcorano la fatica.
Edipo
sa che il rapporto con la madre terra è viscerale, totale, primigenio. E lui
ama la madre. Giace con la madre. Feconda e gode dei frutti e tace tace e non
può dire, non può opporsi alla gioia di tanta felicità. E’ il mondo del sogno.
Dimensione onirica. Ove l’uomo concede il suo seme alla madre terra e i
germogli vigorosi daranno nidiata di pargoli e la specie sempre più numerosa e
vigorosa e l’uomo orgoglioso del suo infallibile fallo. Edipo è il re. Il
salvatore della terra. E’ il padre di cui ha preso il posto.
Eppure… nella
dimensione terrestre, il tutto non è possibile. E accade… morìa dei frutti,
gestanti che perdono i pargoli e animali infecondi. La visione del
mondo di qui è altra. Non distorta. Normale. In tale prospettiva il rapporto
colla madre è incesto. E’ errore. E tutto langue. E’ tempo di lacrime. E’ il
momento della sofferenza. L’abbandono. Nel tempo normale non è possibile osare ciò
che si può ab initio. E Edipo si acceca con gli stessi spilloni che hanno
forato i suoi piccoli talloni. Non sapere. Non indagare e poi va, richiamato
dai tuoni di Zeus, va fra gli dei. Fra quelli che sanno tutto. Aiutato da
Tiresia disvela quanto già dentro di lui. La coscienza totale della sofferenza.
Finalmente completo. Direi felice. Lui ambivalente. Lui, sfinge cantatrice
dell’evoluzione dell’uomo. Uomo che dà il seme e dalla madre è ingoiato, dà il
seme e dalla moglie è abbandonato. Solamente la figlia, Antigone, matura, sa
offrirgli conforto. E lui vecchio e cieco e saggio si nutre del latte
sapienziale di lei che lo accompagna per il sentiero felice. Nell’al di là.
E
Salvatore nel lettino d’un ospedale. Gli occhi bendati. Sul lato destro un chirurgo.
Nomea internazionale.
Salvatore
sussulta. Una luce. Un sole accompagnato da un altro sole più splendente. Una
corona e all’interno un viso splendente. Si desta. Urla. Invoca “Santa
Lucia!!… Santa Lucia!! Poi si ricompone. Forse non si è mai destato. Anestetizzato.
Le mani del chirurgo armate di pinze a scavare nelle orbite, a incutergli sensi
di vita.
Al
risveglio ode: “Regnerai nel mio regno.”. Queste note ballano sul suo
cervello. “Qualcuno le ha pronunciate?, un soffio il suo. Forse sì. Forse è una
creazione sua. Sbendato, la luce torna. Sì, torna la gioia. Torna in modo
diverso. Grida al miracolo. Salvatore è un credente. La Santa siracusana opera
miracoli. Il grande miracolo che la Grande Madre gli ha concesso è la profezia.
E la serrata convinzione di partecipare al regno di quelli che abitano sopra. I
celesti. I beati. E lui dedito al prossimo. Pronto a dire del bene e del male.
Pronosticare. Intuire. Instradare. E lui umano molto umano e saggio. Servo
fedele della Grande Madre.
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