A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
La sera dopo la cena amorevolmente peparata dalle due zie guardavo la televisione in loro compagnia. A un tratto comparve l’immagine di una femmina babilonica che orrendamente truccata diceva parole senza senso e immemorabili, pronunciandole con prepotenza canagliesca. Le sorelle di mia madre si agitavano sulle sedie per il disgusto. Una disse: “vedi quella, giannetto? Stai attento: il mondo ne è pieno!”. “Lo so, lo so, non preoccuparti”, cercai di assicurarla.
Intanto però pensavo con accoramento doloroso alla bella creatura che forse mi stava sfuggendo.
Volevo concentrarmi su questo ostacolo che dovevo saltare per procedere sulla via del riscatto dall’umiliazione e frustrazione subita nel lavoro. Ho sempre reagito alle difficoltà, agli insuccessi e alle disgrazie opponendovi tutte le mie forze, fin da bambino e questa volta non potevo essere da meno. Mi alzai, mi scusai, diedi la buonanotte alle zie e mi incamminai verso il mare.
Un cammino breve e privo di inciampi.
Eppure sentivo un acuto dolore nel petto. Capivo di avere ancora bisogno di Ifigenia siccome in quella ragazza splendente vedevo incarnata la quintessenza della natura radiosa e trionfante sull’ottuso grigiore dei luoghi comuni diffusi da presidi, preti, ministri e puttane.
Avevo bisogno del soccorso di quella giovane, stravagante collega per risollevarmi dall’oppressione inflittami periodicamente dai miei guardiani e aguzzini che volevano tenere schiacciati i miei istinti vitali e mentali sotto il peso dei sensi di colpa. Fin da bambino mi piacevano il sole della nuda estate incoronata di spighe, mi piacevano le femmine pur se vestite, mi piaceva pensare con la mia testa e approvare o disapprovare con i gusti miei, e tutto questo, mi dicevano era male: mi avrebbe portato alla rovina.
Dovevo tenere duro, come ho sempre fatto. Difendere la mia identità per quanto anomale e strana. Più che normale, ma inusuale e questo ai mediocri asserviti non è mai andato giù.
Giunsi di nuovo sulla riva del mare. I venti si erano quasi placati. Il cielo a occidente era sereno ma avanzava da Fanum Fortunae una nebbia salata che ottundeva le stelle e inebetiva la luna. “Fortuna è una vox media- pensai-voglio volgerla al meglio. Devo dissipare la nebbia del cuore e del cervello. Devo capire gli antichi dolori. Devo riprendere a parlare con la natura: il mare, i monti, i fiumi, il cielo cui mi rivolgevo chiedendo aiuto e lumi quando ero bambino qui a Pesaro, a Moena, a Montegridolfo, a Potenza Picena fissando Recanati e recitando a memoria versi di Leopardi. Poi ho cercato e raggiunto successi effimeri, svaniti alla fine del liceo. Allora mi sono messo di traverso sulla mia strada prono con la faccia aderente al selciato ostacolando me stesso, infelice e impedito di fare qualsiasi cosa buona. Ma poi ho recuperato parte delle mie forze grazie all’aiuto di persone oneste, di amici cari che mi hanno accettato, di donne buone e del tutto accoglienti, quindi ho acquisito potenza professionale e mentale attraverso tre anni di studio strenuo, continuo, indefesso e da quando c’è Ifigenia la mia vita è diventata più piena e più lieta. Ora è tempo di togliere tutti gli ostacoli costituiti dai pensieri angosciosi che la casa di Pesaro fa riaffiorare con gli antichi dolori.
Non è probabile che quel fantasioso ragazzo menzionato da Ifigenia sia un genio. Non ce ne sono tanti nemmeno in tutta la terra. Se Ifigenia è come pare in mia presenza, a scuola, a casa e nel letto, non si accontenterà di uno da meno di me. Se troverà di meglio, farò i complimenti a lei e a lui.
Quindi troverò di meglio anche io.
Pensato questo, andai a dormire pacificato e sereno come il cielo da dove era svanita la nebbia sparendo dietro la nostra Panoramica, spinta dal vento di Focara.
Bologna 2 novembre 2023 ore 12, 03
giovanni ghiselli
p. s.
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