A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Quel sabato la conversazione languiva. Eravamo stanchi della settimana di scuola, dall’inverno già lungo alle spalle e lontano a finire, stremati dal freddo feroce che in dicembre e gennaio rattrappisce i sensi, del buio che avvilisce l’anima. Quella mattina la mia povera testa doveva essere stata irrigidita e disseccata dal gelo siccome non riusciva a sviluppare pensieri né parole per comunicare. Sicché ci separammo con un senso di sconfitta. Mi dicevo che se questo si ripeteva, era finita. Noi due avevamo bisogno di emozioni per sentirci vivi. La mancanza di queste è tediosa quando ci si trova da soli ed è insopportabile quando si è con l’amante.
Se l’annoiavo un’altra volta colei mi piantava magari per andare con un delinquente qualunque purché non fosse un rosicchiatoe tedioso. Dovevo correre ai ripari rialzando il fervore del nostro rapporto. Se l’avessi perduta sarei caduto nella desolazione.
Negli ultimi tempi studiavo spinto soprattutto dall’amore di Ifigenia, stimolato dalla volontà di fare bella figura con lei. Avevo iniziato a commentare l’Edipo re cercando di mostrare in questa tragedia una pietra miliare della cultura europea. Provavo a essere creativo, tentavo di scrivere qualche cosa di nuovo al di là del solito imbalsamare Sofocle quale il classico supremo. Il poeta di Colono era un maestro per me e volevo estendere questo mio proficuo apprendistato al maggior numero possibile di persone. Nell’Edipo re tovavo me stesso e l’intera vita: l’amore sano e malsano, il potere e la ribellione al potere, la contaminazione, la guerra, la religione, l’empietà e tanto altro, tutto espresso con una forza e una densità che non avevo trovato in altri autori.
Per quanto riguardava la cura del corpo, Ifigenia non solo mi tratteneva dall’ingozzarmi come le bestie ognora prone e obbedienti al ventre, nemmeno tutte le bestie, ma esigeva che mi tenessi sempre in esercizio: sapevo che per piacerle dovevo scalare con forza e agilità tutti i passi dolomitici tanto per cominciare, poi magari passare al Parnaso, all’Olimpo e magari alle Ande. La mia gioventù doveva apparirle folle, artistica, eterna. La mia volontà ferrea e priva di ruggine.
Di mentecatti e impotenti dediti gioco delle carte o dell’oca, e alle partite di calcio una donna siffatta non voleva saperne. Con il suo plendidissimo aspetto Ifigenia mi invitava e invogliava a non infiacchirmi nella mente acuta e nel corpo asciutto, sempre scattante.
Ci riprendemmo brillantemente e compimmo il mese di gennaio con 71 orgasmi a testa, come mi fece notare fiera e contenta la mia amante che li contava perché ogni mese fosse più ferace di piacere del precedente.
Il desiderio non era mai stato contumace.
Il 31 notai che le ombre dell’inverno avevano già ceduto parecchio terreno all’alzarsi del sole. Quella sera il primo tra tutti gli dèi, il santo volto di luce, la fiamma che nutre la vita, come lo chiama Sofocle[1], rimase a illuminare il mio studio fino alle 17: una borsa di studio di ben 50 minuti.
Un’altra dopo quella costituita da Ifigenia ottenuta in ottobre..
Bologna 8 novembre 2023 ore 10, 15 giovanni ghiselli
p. s.
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Nota
[1] nella Parodo dell’ Antigone di Sofocle, il coro dei Tebani esprime gratitudine alla luce del Sole per la vittoria sugli Argivi:" raggio di sole, la luce/più bella apparsa su Tebe dalle sette porte/tra quelle di prima" (vv. 100-102). Più avanti la protagonista, condannata a morte, lo saluta e rimpiange quale "lampavdo" iJero;n-o[mma" (vv. 879-880), santo volto di luce. Nell' Edipo re il sole è" pavntwn qew'n provmo"" (660), il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga"(v. 1425), la fiamma che nutre la vita.
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