giovedì 9 novembre 2023

Ifigenia LXVI. La mite

A. Feuerbach, Iphigenie (1862)
Il 17 febbraio durante l’intervallo mi avvicinò una supplente nuova: una ragazza mite e tutt’altro che sgradevole. Era bellina e diceva ogni bene di me. Mi riferì che gli allievi avevano decantato la mia bravura e deplorato il maltrattamento che il nuovo preside mi infliggeva. La osservavo con simpatia e gratitudine e non potei trattenermi dal dirle: “benvenuta
 collega ragazza:  sei molto carina!”
“Che fai mi corteggi?”
“Io sì”.
 
Quindi la salutai poiché si stava avvicinando Ifigenia
 
Doveva avermi visto mentre mi sdilinquivo con la nuova signorina arrivata a rallegrare il cupo ambiente: quando uscimmo insieme notai che era tesa e tetra. Allora, facendo il confronto con la dolce ridente che mi aveva gratificato, notai che la pur bella amante mi piaceva meno del solito.
Tornammo nel bar Diana dei Greci. Lei non parlava. Allora cercai di sgravarmi la coscienza provocando una discussione che portasse a un chiarimento.
“Oggi ti amo meno del solito”, dissi.
Volevo smuoverla dal tetro torpore e dal mutismo che mi disturbavano.
Mi fissò sgranando gli occhi neri e mi fece: “Che cosa hai detto gianni? Hai incontrato una che ti piace di più?”
O mi aveva visto vezzeggiare la nuova arrivata o glielo avevano detto.
Mi accorsi di averla ferita e cercai di rimediare.
Dissi che di fronte a una faccia rabbuiata com’era la sua quella mattina, si rinnovava il dispiacere degli sgarbi subiti fin da bambino dalle donne di casa. Ero troppo sensibile- aggiunsi- per non accorgermi che c’era qualcosa che non andava tra noi. Avevo bisogno di una compagna lieta, pacifica: una mite.
“Già come quella ragazza di Dostoevskji che si butta dalla finestra dopo le vessazioni subite dal marito vecchio. Siete tutti uguali voi uomini: deboli e falsi”.
Quindi disse: “ti saluto”, si alzò e andò via.
Il ricordo del racconto fantastico “La mite” mi era piaciuto. E anche il suo sdegno. Avevo rivalutato la mia compagna. Volevo lei.
Dovevo trovare altro oltre il piacere goduto ripetutamente nel letto e le esibizioni  del nostro benessere quando c’era il sole. Il nostro amore aveva una forte componente edonistica e un’altra teatrale fatta di atteggiamenti, di pose nemmeno di ottimo gusto. Mancava la componente etica. Pensai che nemmeno il piacere può durare a lungo senza  morale. Era un pensiero razionale e realistico ma non lo realizzai nei fatti. Misi una pezza sulla mancanza rilevata. Fu meno difficile che cercare un rimedio strutturale, anche perché di lì a poco la stagione cambiò, il sole ci diede conforto, la vitalità decaduta si risollevò e noi riprendemmo a fare sesso con frequenza e potenza da atleti. Eravamo di nuovo contenti, eppure le ferite inflitte dall’incomprensione reciproca, dal narcisismo e dall’egoismo di entrambi non sarebbero state cicatrizzate nemmeno dal sole. Anzi ogni vulnus con il tempo si sarebbe aggravato fino a diventare ulcus: le ferite sarebbero diventate piaghe. Ma intanto moriva l’inverno, il sole si alzava ogni giorno di più illuminando e scaldando la terra, e noi due rinfrancati ripristinammo il nostro benessere sessuale e riprendemmo a pavoneggiarci recitando scene barocche sui palcoscenici apprestati dalla primavera fiorita. Poi sarebbero venuti quelli della nuda estate sui quali avremmo potuto stupire e scandalizzare i benpensanti e i furfanti bigotti ancora di più. Avevamo evitato di affrontare il problema di fondo: perché stando insieme da soli senza poterci esibire, senza fare l’amore, dopo poco tempo ci si annoiava, innervosiva  e si arrivava a litigare?
Non lo dicevamo ma si sapeva che il difetto era proprio l’assenza di spessore morale, di interessi comuni profondi, di progetti seri. L’egoismo di entrambi e l’insincerità sostanziale del nostro rapporto lo avrebbero reso infelice già nell’autunno seguente quando sarebbero calate fosche e fredde le brume sulle nostre esibizioni.
 
Bologna 9 novembre 2023 ore 19, 18 
giovanni ghiselli
 
p. s.
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