A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Aveva seduta al suo fianco con aria di complicità l’altra supplente giovane e carina, Paola. Parlavano fitto. Ebbi l’impressione che stessero accordandosi per non fare tregua con il vile professore che ci provava con tutte le femmine. Appena mi ebbe scorto infatti Ifigenia volse la testa da un’altra parte mentre l’altra le stringeva una mano. Forse le aveva anche detto: “queste dita sono tutte tue”. Mi avvicinai alle due madamigelle assumendo un’aria dolce e pentita per imbonirle. Volevo chiedere venia a Ifigenia senza corteggiare l’altra ovviamente, ma quando fui giunto alla loro presenza le due fanciulle congiurate contro il maschio bieco, già mezzo vecchio e vizioso, si accostarono ancora di più l’una all’altra divorandosi con gli occhi e parlando a turno senza interruzione. Aspettai qualche secondo ma venivo volutamente ignorato. Quindi provai a dire: “scusate colleghe”, alzando l’indice della mano destra come uno scolaro che chiede il permesso di parlare. Ma nessuna delle due dava segno di essersi accorta di me. Mi allontanai sconsolato e desolato. Oltretutto era tempo di entrare in classe. Mi trascinavo verso l’aula malvolentieri: adagio come una tartaruga con l’artrite. Non vedevo luce nel mio futuro.
Feci lezione svogliatamente e distrattamente nell’attesa dell’intervallo. Quando suonò la campanella attesa, corsi a cercarla. Avevo ancora in mente le sue cosce benedette da Dio, viste quasi fino alle mutande bianche, adorabili.
Non era con l’altra, la complice delle 8 di mattina e potei dirle: Ifigenia, posso parlarti?”
Lei mi guardò appena e rispose: “Non ho tempo. Ho altro da fare”
“Dopo la scuola li trovi cinque minuti per me?”
“Secondo te dovrei trovarli? Staremo a vedere”
Mi rincuorai un poco. Mi venne in mente la prima accoglienza di Helena che nel luglio del 1971 mi congedò dopo un giro di danza, breve per giunta, eppure ne seguì un grande amore epocale, capace di cambiarmi in meglio la vita.
Uscìi in via Nazario Sauro per trarre altro conforto dal sole.
Alla fine delle lezioni la avvicinai di nuovo sempre pensando alle sue mutande, a quando se le levava questa volta, per farmi coraggio con la speranza di rivedere quel gesto religioso, preludio della nostra ierogamia.
Le avevo insegnato quanto avevo imparato da Helena: metterle sotto il cuscino per ritrovarle subito dopo avere fatto il massimo almeno tre volte.
Finalmente accetto di ascoltarmi. Ero andato a Canossa con l’aria del pentimento. Non le avevo fatto alcun torto ma l’avrei fatto a me stesso se l’avessi perduta.
Le dissi: “tesoro, non contaminiamo con mutua demenza la sacrosanta bellezza dell’ amore che Dio ci ha donato”.
Non escludevo che mi desse ancora del buffone. Allora per anticiparla e spiazzarla, la buttai sul tragicomico: “ti presento nuda la gola dove puoi ficcare lo spillone che usi come fermaglio: arresta la mia vita, se vuoi. Senza di te non è vita”.
Mi guardò divertita, con simpatia. Le presi una mano, lei me la strinse e io l’abbracciai. Non accennò a respingermi. Sicché le dissi: “ Non perdiamoci per delle sciocchezze. Tu sei la mia donna, l’unica che possa amare con la mente, con il cuore e tutto il resto, e io sono tuo, tutto e solo tuo”.
Mi venne in mente il recupero di Helena dopo la crisi di Josiane.
usus opus movet haec verba pensai. Le stesse cose ritornano.
Come Helena allora, nell’agosto del 1971, Ifigenia quasi otto anni più tardi capì e sentì che l’amavo, che avevo bisogno di lei quanto lei di me.
Disse; “Oh gianni, ho avuto tanta paura!”
Ci baciammo con passione vera.
Eravamo ancora piuttosto vicini alla scuola, in un vicolo dove passava qualche studente mio e suo. Sorridevano contenti, senza dire niente: avevano visto due esseri umani, giovani, belli e contenti quasi come loro.
Bologna 12 novembre 2023 giovanni ghiselli ore 12, 35
giovanni ghiselli
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