venerdì 17 novembre 2023

Il Giulio Cesare di Plutarco. di Giuseppe Moscatt

Il Giulio Cesare di Plutarco
di Giuseppe Moscatt

 
E' noto che la fonte orale per gli storici dall'età antica rappresenta il canale informativo principale per l'analisi del passato, per una memoria che funge da battistrada per il mondo presente e le sue problematiche. Sappiamo che Plutarco, per le opere filosofiche morali era influenzato dallo stoicismo e dal neoplatonismo della scuola di Pergamo (IV secolo dopo Cristo), ma anche dalla più antica scuola di Alessandria, dove proprio il fondatore Ammonio Sacca gli fu insegnante da giovane viaggiatore nel Mediterraneo ellenico, fra l'80 e il 90 d.c. Giunto anche a Roma come ambasciatore della sua città Cheronea, non poté non conoscere la figura di un grande storico dell'epoca, Marco Terenzio Varrone (Rieti, 116 a.C.-27 a.C.), forse il più erudito scrittore latino dell'epoca, anch'egli legato al comune maestro Ammonio.
Fra le tante opere di Varrone, Plutarco, molte delle quali andate perdute, a noi interessa ricordare le Imagines, 15 libri che contenevano 700 ritratti di uomini famosi Greci e Romani. Fra i tanti uomini illustri, nasceva con lui la biografia retorizzata di re, politici, poeti, ecc. Quale metodo migliore adotterà allora Plutarco, quando avrà anche a disposizione la storia alta di Roma di Tito Livio (59 a.C./17 d.c.) e di Svetonio (70 a.C.-140 d.c.), dove la cronologia della vita di Cesare - ma anche quella di Alessandro Magno riprese dallo storico di corte Callistene e dal critico aneddotista Efippo di Olinto - guardava spesso ai fatti più noti descritti con un certo susseguo ai limiti dell'agiografia? A Plutarco, per la sua formazione etica, occorreva una biografia parallela di virtù. o di codardia bilaterale. E certamente, Alessandro e Cesare ne avevano di intelligenza, di capacità persuasiva, di interesse al di là del contingente, anche se spesso debordavano in atti violenti, che però sembravano giustificati dal fine, quasi una anticipazione del famoso principio machiavellico.
La distruzione di Tebe, per Alessandro, il massacro dei Galli ad Alesia per Cesare; costituiranno, più o meno velatamente per Plutarco, i buchi neri della loro carriera politica e militare, fondata sulla ragione di Stato, se non sulla ragione personale. Tuttavia, la novità del metodo di Plutarco, che lo pone al di là della mera espressione cronologica, è l'adozione del criterio aristotelico di far risalire la Personalità dalle azioni, un modo di coinvolgere le passioni dei lettori attraverso la maschera - la c.d. Mimesis - del personaggio rappresentato. Dunque, anche nella vita quotidiana, ricostruendo la sua personalità al di fuori delle più famose circostanze storiche. Di qui, come dicemmo, la ricerca delle abitudini del vestire, le battute memorabili, gli aneddoti e i miti, le fonti più strane e di diversa estrazione. Qui lo soccorrevano le indagini di Varrone e di uno storico del mediterraneo africano, Giuba II (50 a.C. - 23 d.C.), partecipante al trionfo di Cesare e poi ritornato ad essere Re di Numidia e Mauritania e vassallo di Ottaviano. Giuba fu uomo di vasta cultura, difensore delle arti, soprattutto un biografo analogo a Varrone, specie per le comparazioni enciclopediche per quei territori limitrofi all'Egitto.
Romanzo e aneddoto si intrecciano peraltro in Plutarco, che da parte greca aveva come precursore Erodoto e Senofonte, benché il giudizio morale sul personaggio gli derivava dalle sobrie valutazioni di Tucidide, indulgendo su episodi di vita che il quasi coevo Tacito tende a tralasciare, privilegiando questioni etniche e geografiche (per esempio, la Germania), oppure le preoccupazioni degli ambienti senatori sulle figure imperiali e gli intrighi di Corte, nonché le figure degli Imperatori da Tiberio a Nerone descritte anche da Svetonio. Plutarco, a differenza di Tacito, accetta la supremazia romana e scava sugli uomini che la perseguono, con metodo che diremmo oggi del Bloch e del Braudel, cioè la tecnica del lungo periodo, del giorno dopo giorno, del marginale che scorre silenzioso fino ad emergere impetuoso ed irrefrenabile, come appunto la carriera di Cesare. Una lettura scenica, quadro dopo quadro, dell'ascesa e della presa del potere, fino alla tragica morte. Non a caso la notissima massima veni, vidi, vici, non sembra solo un epigramma filotacitano sulla strepitosa vittoria di Cesare a Zela nel 47 a.C. su Farnace Re del Ponto (oggi regione del Mar Morto di fronte alla Crimea); ma anche va letta nello spirito complessivo del passo, perché Plutarco dice che Cesare marciò contro Farnace con tre legioni; lo sconfisse appunto a Zela e ne fece una eccezionale comunicazione a Roma con solo tre parole, gravide risonanza mediatica e di fortissima presa sulla plebe innamorata di quell'Uomo del destino, proprio per significare un'impresa gestita rapidamente senza speciale complessità.
Era una descrizione ironica o veritiera? Non lo sappiamo, ma ci pare un po' sarcastica la narrazione del paragrafo 2 della vita di Cesare giovane, quando rapito dai pirati minori della Bitinia (Turchia), alla richiesta di riscatto per 20 talenti ai suoi familiari, rispose da buon italico: Lei non sa chi sono io! Io ve ne posso dare subito 50 senza allarmare mia moglie!! Mentre al paragrafo 1 non manca di farci sorridere quando per sfuggire ai sicari del tiranno Silla corruppe il sicario Cornelio Fagita con appena 2 talenti per non ucciderlo. Al paragrafo 3, la scelta di vita: Oratore? Militare? Politico? le praticò tutte, ma la prima benché buona, la abbandonò per il popolo e la indirizzò ai soldati, con esito favorevolissimo come fu per Alessandro e come sarà per Napoleone, il quale neppure dopo Waterloo perse il consenso dei reduci, come ci dice Dumas nel Conte di Montecristo.
Il par. 4, nel 78 a. c. - lui era nato a Roma nel 100 a.C. da famiglia democratica molto quotata - ne illustra le capacità di avvocato oratore contro Dolabella governatore della Macedonia, facendo scagionare Publio Antonio, militare Piceno e fratello di quel Marco che in seguito sarà il suo braccio destro nelle guerre asiatiche ed un mancato successore a Tiranno. Cesare era un buon oratore, amato dai liberti e critico della classe governante. Plutarco rileva che già in quegli anni a poco a poco guadagnava il favore popolare alla dittatura. E qui compare Cicerone, che senza peli sulla lingua ripeteva che le moine fatte al popolo erano un sottile inganno per la Repubblica, perché quell'avvocato del popolo pensava appunto a divenirne il Tiranno. Al 5, già la memoria non gradita dello zio Mario - capo dei democratici sconfitti dal vecchio Silla, uomo potentissimo e oligarca - e la morte della moglie Cornelia - 67 a. c. - lo portarono in Spagna come vice del Pretore Vetere. Col grado di questore, fu un periodo utile per raccogliere fondi necessari per proseguire la sua scalata al potere. Tornato a Roma, divenne edile manutentore di strade e di edifici, produttore di spettacoli, inventore del panem et circenses, ma anche corruttore, concessore e finanziatore di opere pubbliche: un parvenu che però si era salvato dal pericolo della rivolta degli schiavi di Spartaco (71 a.C.) che aveva depauperato le finanze di una altro pretendente alla dittatura, Marco Licinio Crasso e che aveva visto Pompeo - successore dell'oligarca Silla appena morto - distratto nella guerra d'oriente contro Mitridate (74 a. c.).
Insomma, Cesare da pieno erede di Mario, pasceva il popolo fra banchetti ed elargizioni pubbliche; sposava la figlia del generale Pompeo e gli dava in sposa la prima figlia Giulia. Poi saliva al grado di Pontefice Massimo e qui spese ampiamente per templi, statue e ceppi di marmo in memoria di Mario, lo zio che aveva vinto i barbari Cimbri ed aveva salvato Roma. Un'apoteosi di gloria che fece tremare Crasso e fece sogghignare Pompeo. Il nuovo astro nascente dei patrizi, Marco Tullio Cicerone, intanto, non solo sventava la congiura di Catilina (63 a.C.) ma anche sobillava il console Lutazio Catulo a dire di Cesare: cercava di rubare alla luce del sole sfidando le istituzioni! Plutarco ci dice che riuscì a respingere le accuse in modo così efficace da convincerlo ad essere arrivato ad un livello di elevata probabilità per la primazia a Roma. Il par. 7 è dedicato alla sua candidatura a Pontefice Massimo.
Il dibattito elettorale al Senato però si intrecciava alle inchieste di Pisone, Catulo e di Cicerone contro Catilina ed i suoi sodali Lentulo e Cetego. Scoppiò allora un processo politico, senza che vi fossero vere e proprie indagini giudiziarie contro i due complici apparenti di Catilina, intanto sfuggito alla polizia di Stato guidata da Cicerone. Una vicenda che non è molto lontana dai processi mediatici oggi tenuti nelle assemblee legislative molto prima che i giudici ne avessero trattato. Cicerone smascherò i congiurati, ma Cesare si appellò in modo equo alla giustizia ordinaria. Se certo la congiura di Catilina era stata provata da Cicerone, deboli erano le accuse contro gli altri due. In Senato, si vide, secondo Plutarco, una netta divisione fra Cicerone, Catone e Catulo colpevolisti ad oltranza e il Console Curione, legato all'estremista Clodio, innocentisti e favorevoli alla difesa di Cesare. Un voto contrario di Cicerone e per Cesare sarebbe finita la carriera e la vita. Ma Cicerone si fermò e fece uscire dall'aula Cesare libero da ogni conseguenza.
Plutarco con qualche dubbio conferma questa strana conclusione e solleva il dubbio di come mai Cicerone si fosse convinto al riguardo. Paura del popolo in armi fuori dal Senato ad attenderlo per vendicarlo? Dubbi sulla colpevolezza di Cesare? Ma lo stesso Plutarco parla di una successiva comparsa in Senato, tentando scuse e parlando subdolamente di pace sociale. Il popolo tornò a rumoreggiare e perciò Catone preoccupato per la sorte della frazione oligarca moderata, addivenne ad un compromesso: rilasciare un'altra razione di grano ai poveri pur aggravando il bilancio dello Stato e lasciare libero ancora Cesare, consentendogli del pari comunque la carica di Pretore, potere che lo avrebbe di fatto ancora favorito (par. 8). Nei paragrafi 9 e 10 Plutarco si diletta a narrare un episodio un po' sconveniente sulla famiglia di Cesare e sulla moglie Pompea. Invero, un giovane un po' scapestrato, tale Publio Clodio, discepolo d Cesare, durante la festa della Dea Bona, col consenso della moglie già sua amante, lo invitò a convegno carnale a casa sua, in veste di donna, proprio durante quella festa dove non erano ammessi uomini. La tresca fu scoperta e lo scandalo familiare e religioso lo investì dinanzi al popolo. Ancora una volta, tutte le parti si scontrarono su di lui. Il ripudio della moglie non gli bastò! Il popolo invece lo puniva per la difesa di Clodio. Cesare oppose che il sospetto sulla moglie non poteva sussistere a pena di investire lui stesso, concetto che Plutarco aveva ribadito anche in altre biografie. Fatto si è che Clodio fu assolto dal reato religioso. Cesare scampò alla pena ed il popolo evitò di attaccare i nobili. Tutto per bene, avrebbe detto Pirandello. E al paragrafo 11, Plutarco continua a dire aneddoti.
E così Cesare, pieno di debiti e col favore di Crasso, che nella guerra con Pompeo sperava di avere il suo favore, lo coprì economicamente, spingendolo ad andare in provincia, dove poteva meglio dimostrare la sua valenza militare e politica. Meglio essere primo in provincia che secondo a Roma, diceva sconsolato agli amici; mentre con un certo rancore si lamentava che a 32 anni Alessandro era già morto da imperatore, mentre lui a 39 nulla aveva compiuto di simile. Un carattere amletico, oppure un precoce sentimento di invidia per Pompeo che primeggiava in Asia? (par. 11). Divenuto pretore in Spagna, Cesare, dopo aver soddisfatto i creditori con l'aiuto di Crasso, in cambio di sostegno contro il grande Pompeo, combatté a Nord con i Lusitani e amministrò il resto della Spagna, instaurò un sistema tributario alle popolazioni sottomesse che consentì la fine delle proteste contro il fisco romano. Infatti, impose solo il prelievo forzo dii due terzi degli incassi e lasciò ai cittadini un terzo per poter vivere. E nella stessa misura regolò il pagamento dei debiti e nel 60 abbandonò la Spagna presidiata dai soldati e rispettato dai sudditi … (n. l2).
Arrivato alle porte di Roma, chiese il Trionfo, cioè il saluto ufficiale del popolo. Ma c'erano le elezioni consolari, il massimo delle funzioni pubbliche. Per legge doveva entrare senza soldati per aspirare a tanto. Il rischio di cadere vittima dei nemici era alto, mentre Catone, capo dell'opposizione, voleva il rispetto delle regole. Consolato o Trionfo? Preferì il Consolato e dunque una politica di pace interna. Ma ben presto cominciò a trattare con Crasso e Pompeo, proponendo un Triumvirato che governasse di fatto la Repubblica. E così fu. Catone rimase in minoranza e si ritirò a loro favore. Con Calpurnio Bibulo, un suo tirapiedi, ottenne il Consolato e fece una politica a favore del popolo, elargendo le terre delle colonie italiche e spagnole ai plebei e ai suoi soldati. Il Senato gli si opponeva ed allora, con l'appoggio di Crasso e Pompeo, chiamò a raccolta il popolo e raggiunse la maggioranza. Denaro e militari non gli mancavano.
Rinsaldati i rapporti di famiglia con Pompeo, sposata in seconde nozze Calpurnia, figlia del latifondista Pisone, lo nominò console al posto di Bibulo. Cesare continuò la politica di spartizione delle cariche pubbliche a colpi di corruzione e di matrimoni prezzolati, malgrado Catone gridasse allo scandalo. Intanto Pompeo, avendo ben percepito quanto fosse pericoloso la condotta di Cesare, schierò la sua guardia agli angoli del Foro e concordò con Crasso e Catone una scelta politica: allontanare Cesare da Roma, inviandolo nelle Gallie a capo di una spedizione militare. Per evitare spargimenti di sangue, ma anche perché in minoranza rispetto alle forze degli altri due, nonché perché al momento non era seguito dai tribuni della plebe. Cesare prese la via delle Gallie, come farà Napoleone nel 1796 inviato da Barras e dal Direttorio francese in Italia contro la prima coalizione austro-inglese. Ma non ruppe l'accordo fra gli altri due rivali e lo stesso Catone, il cui potere politico di oppositore aumentava sempre di più per la paura dei senatori più legati alla Repubblica, che ormai temevano di essere uccisi o arrestati dai suoi soldati. Uno di questi senatori, Considio, tentò di proteggere lo stesso Catone, ormai nel mirino di tutti, cosa che però pagò con la vita. Anzi Catone, con l'ironia che gli mette in parola Plutarco, diceva spesso di essere un vecchio e di non temere la morte.
Quindi non era affatto preoccupato, accettando il destino da ottimo discepolo dello Stoicismo. Clodio, capomanipolo delle bande di Cesare, poi aveva come obiettivo l'eliminazione dell'altro eminente oligarca, Marco Tullio Cicerone. Ma Cesare, sperando in un suo successivo appoggio, evitò di farlo uccidere e si limitò a mandarlo in esilio. Dal par. 15 al par. 19, Plutarco si prolunga in vari aneddoti che cercavano di disegnare un Cesare di carattere molto forte, intelligentissimo e dotato di una tecnica espositiva degna di uno spirito pieno di realismo. Infatti, raccolse la voce che Cesare comunicava con gli ufficiali subalterni non solo scrivendo in groppa ad un cavallo, ma anche adottando un sistema di linguaggio e segni convenuti per non far capire ai soldati il rischio degli ordini impartiti. E poi dava sempre un esempio di sacrificio, offrendo un tetto ai colleghi più anziani o malati, dormendo spesso all'addiaccio. Dopo una lunga guerra coi Germani di Ariovisto, non solo ne uccise ben 80.000, ma anche li inseguì fino al Reno. Ma nel par. 20, Cesare riappare curioso per quello che accadeva a Roma dopo alcuni anni di assenza (dal 59 al 52 a. c.). Lascia quindi l'esercito a svernare sull'Arar e scende fino al Rubicone, un fiumiciattolo della Romagna - forse l'attuale Fiumicino - dove era segnato il limite della provincia più vicina a Roma. Qui Cesare si fermò con le truppe più fedeli a riflettere sul da farsi, mentre non disdegnò di risalire più a Nord quando un popolo barbaro - gli Illiri - tentò di sfondare i confini del nord est. Qui Cesare partecipò con lo scudo in mano allo scontro finale alla testa della decima legione, come farà Napoleone nella prima campagna d'Italia (1796) quando sul ponte di Arcole con la bandiera repubblicana si lanciò contro gli austriaci che lo avevano bloccato, suscitando il coraggio dei soldati alquanto impauriti dal fuoco nemico.
Il successo di Cesare a Roma fu strepitoso. La vittoria di Alesia in Gallia, la cacciata dei Germani al di là del Reno e la distruzione dei Nervi, lo resero ancora più famoso e ormai considerato il Padre della Patria. Nell'aprile del 56 a Lucca, tenne convegno con tutte le parti e dettò le sue condizioni politiche: Consolato a Crasso e Pompeo e per sé nuovi finanziamenti; nonché la proroga del Governatorato in Gallia per altri 5 anni, perfino la continuazione della espulsione di Catone, già fuggito a Cipro (par. 21). Seguono i paragrafi n. 22 e 23, dove Plutarco rinvia ai Commentari di Cesare sulle nuove guerre in Gallia ora in rivolta e poi la spedizione in Britannia, isola fino ad allora quasi fantastica, ma la cui parziale conquista alimentò per Plutarco la su leggenda di conquistatore, visto che quell'isola, di fronte alla Gallia, era stata sempre considerata ai confini del mondo, come Orazio aveva poetato nell'ode alla Fortuna (I, 35, 29 e sg.). Plutarco però avverte che quella spedizione non ebbe l'esito sperato perché la gente del luogo era molto povera e non c'era nulla da confiscare e subito interrompe quelle notizie per dare l'annuncio della improvvisa morte per parto della figlia Giulia moglie di Pompeo. Ma con la solita ironia, Plutarco soggiunge che fu maggiore l'angoscia per la possibile perdita dell'alleanza politica col genero, piuttosto che il naturale dolore per la morte della figlia e della nipotina poco dopo. I parr. 24-27 hanno natura strategica e militare, in relazione all'ennesima impresa gallica ed all'episodio della guerra con Vercingetorige. Ma al n. 28, Plutarco svela finalmente il progetto di colpo di stato di Cesare, vale a dire la eliminazione di Pompeo, ultimo ostacolo alla sua dittatura.
E non si perita Plutarco di sostenere il parallelo fine di Pompeo, che dopo la morte di Crasso - terzo incomodo, ma morto in guerra contro i Parti in Asia centrale, fatto provvidenziale per i due - cominciava a preoccuparsi del rivale, onde un nuovo acquartieramento sempre sul Rubicone. E qui comincia una lunga esposizione dello storico sulla costante preoccupazione di Pompeo per la carriera di Cesare. Dapprima lo aveva innalzato col fine di abbatterlo al momento opportuno. Poi, vedendone le fortune romane e ispaniche, gli aveva sposato la figlia per meglio controllarlo. Quindi lo aveva spedito in Gallia, un po’ come Barras con Napoleone, quando dopo la repressione della controrivoluzione del maggio del 1795 gli aveva dato in moglie Giuseppina e quindi gli aveva proposto l'Italia come terra di conquista della Rivoluzione.
Tuttavia, la fame del popolo, la corruzione amministrativa e la guerra per bande a Roma; lo avevano indotto a non escludere Cesare dal governo per limitare la violenza nelle strade, cosa che intimoriva la classe media, il cui potere di acquisto veniva sempre meno a causa dell'inflazione, frutto della crescita della Repubblica nel Mediterraneo ed in Grecia dopo le guerre puniche e le guerre illiriche, senza contare i disordini sociali che la plebe ripeteva di continuo dopo la caduta del partito democratico di Mario e la dittatura oligarchica di Silla. L'anarchia e la sovversione dei pubblici uffici e della antica società repubblicana, era la causa del ritorno all'ordine che Pompeo e Crasso non avevano garantito. Cesare sembrava invece l'uomo forte del momento - e Napoleone, ma anche lo furono Mussolini e Hitler nel primo dopoguerra del '900 - e anche i repubblicani moderati, come Cicerone, Lucullo e Marcello, fecero alla fine quadrato contro Cesare. Gli chiesero di sciogliere i soldati al fine di mantenere comunque l'ordine pubblico, senza accettare le sue proposte proditorie. Anzi, Pompeo collaborò con loro facendo discorsi simili al Senato.
E qui, al par. 30, entra in scena Marco Antonio, tribuno della plebe, che prenderà le difese di Cesare e che dunque votò le sue proposte proprio per il ritorno all'ordine invocato e che ebbe un inaspettato plauso popolare, tanto che molti gli lanciarono corone di fiori come si faceva per gli eroi sportivi. Ma la classe più conservatrice, sempre secondo Plutarco, non venne a miti pretese. Per esempio Pio Scipione, ultimo erede dell'Africano e suocero di Pompeo, già console nel 52, fece imporre dal Senato un dictat, cioè o l'accettazione delle proposte di Cesare a condizione della liquidazione di armi e soldati, altrimenti la declaratoria di Cesare come nemico della Patria. Naturalmente tale condizione non vide favorevole Pompeo e anzi Gentulo voleva subito attaccare Cesare, malgrado Marco Antonio chiedesse la cessione delle armi da ogni parte. Il par. 31 riporta un'infuocata seduta del Senato che invitiamo a rileggere per considerare come tanto poco siano diverse parecchie sedute dell'attuale Parlamento. Poi, Plutarco, con un rapido salto di passo, dal Senato passa alle giornate di Cesare a Rimini, colà insediato con 300 cavalieri e 5000 fanti. Era la vecchia guardia delle Gallie e del fido maresciallo Lepido, suo braccio destro fino al primo Triumvirato, ma anche seguito da Marco Antonio, che Cesare apprezzava per la coerente azione mostrata a suo favore in Senato, peraltro espulso insieme al sodale Curione, politici popolari che ben presto lo seguiranno nelle successive avventure militari.
Il par. 32 è dedicato alle fasi preliminari del grande passo, cioè occupare finalmente Roma, l'anticamera della Dittatura. Cesare aveva pochi cavalieri fidati a Rimini prima, poi sul fatidico Rubicone, il confine fra la Gallia cisalpina, dove il suo potere civile era legale diversamente dal resto d'Italia, dove invece l'essere armati era un gravissimo colpo di Stato, come era avvenuto per il suo amato zio Mario che aveva violato la costituzione repubblicana nell'85 a. c. Ed ora toccava a lui. Il suo compagno nella fatidica notte dell'alea acta est era lo storico Asinio Pollione (Chieti, 76 a.C. - Tuscolo, 4 d. c.). Plutarco lo cita quasi a comprovare lo stato di ansia e sgomento di Cesare, diviso fra i mali che avrebbero recato ai suoi e forse attratto dalla fama che gli sarebbe venuta. La ragione e l'esperienza di Mario lo frenava; ma la spinta dello storico lo attirava. L'istinto prevalse. Con rara maestria, a fine paragrafo, Plutarco con un espediente estetico romanzesco, narra del sogno di Cesare, un coito incestuoso con la madre, che il prof. Freud duemila anni dopo avrebbe diagnosticato in un tremendo senso di colpa e che Shakespeare avrebbe ripreso in età moderna nelle pagine della sua tragedia in forme dialogate ancora insuperate.
A Roma, fin dal passaggio per Rimini e poi dopo la traversata del Rubicone, il terrore era palpabile. Il ricordo delle violenze della guerra civile fra Mario e Silla faceva paura. Del pari il senatore Favonio accusava Pompeo di essere stato troppo tenero con Cesare. Ma Pompeo ribatteva che al battere del piede poteva mettere in forza molti soldati. La marcia su Roma di Cesare sembrava ineluttabile, come lo sarà nel 1922 quella di Mussolini ed anche come sarà la occupazione di Roma nel 1943 da parte delle forze naziste. La fuga di Pompeo somiglia invece a quella di Vittorio Emanuele III l'8 settembre di quell'anno (par. 33). la presa di Roma da parte di Cesare fu analoga all'entrata degli spartani ad Atene, e Plutarco la paragona ad una nave in tempesta. Gli ex nemici caddero in ginocchio sul vincitore. Un vecchio amico - Labieno, il suo alter ego nelle guerre galliche - fuggirà con Pompeo. Ma Cesare non lo punirà. Anzi, gli manderà denari e rifornimenti. Il nostro eroe - dice Plutarco - era ben consapevole di essere per ora con poche truppe e trattava i prigionieri pompeiani con molta generosità. Tanto che un gustoso episodio non manca di narrare: il generale Domizio, suo acerrimo nemico durante il consolato di Cesare, prima cerca battaglia a Corfinio - oggi Isernia - e poi, vista la malaparata, si fa avvelenare da un suo servo per non finire nelle mani di Cesare.
Ma nelle ultime ore si rende conto di aver commesso un errore perché Cesare aveva liberato senza vendette tutti i suoi soldati. Per fortuna, lo schiavo gli aveva dato solo un sonnifero. Domizio, allora lo ringraziò e ritornò da Pompeo. Episodio che, fra ironia e teatralità, rivela la pochezza dell'animo umano, sempre un leit motiv di Plutarco (par. 34). Intanto Cesare, riunito un robusto esercito, cominciò a Roma a fare il dittatore. Fece amnistie, dialogò col popolo, chiese sostegni economici e militari. E al tribuno della plebe Metello, che lo criticava per l'eccesso di fondi sottratti al fisco dello Stato e per le nuove imposte di guerra, non minori che in tempi di pace; Cesare gli ribatté che proprio quella realtà di guerra civile non solo lo esigeva, ma che lo si doveva ringraziare per non avere lanciato i cavalli al galoppo per le strade. Anzi con fare minaccioso e tronfio - così nel testo di Plutarco, ancora una volta con plastica descrizione quasi teatrale - descrisse la rottura dei sigilli della stanza del tesoro e prelevarlo con la forza, stante la malevola spinta sullo stesso Metello, spaventato e pronto ad ubbidire, come quando il maresciallo dalla piazzaforte di Roma nell'ottobre del 1943, il famigerato Kappler, si fece consegnare con la forza dal Presidente della Comunità Ebraica di quella città ben 50 chili d'oro col pretesto della difesa dall'attacco angloamericano e con la generica assicurazione del non rastrellamento degli ebrei, che invece avvenne poco dopo (par. 35).
I paragrafi 36, 37 e 38 narrano il susseguirsi di episodi molto cruenti della guerra contro Pompeo, ormai fuggito in Asia Minore. Soldati, marinai e civili, da una parte erano ammaliati dalle capacità organizzative e militari del loro Duce: dall'altra cominciavano a serpeggiare fame e stanchezza, come avverrà con Napoleone dopo la ritirata di Russia e fino alla sconfitta di Lipsia. A Roma, intanto a ricucire i supporti istituzionali fra patrizi e plebei, erano rimasti il suocero Pisone ed il console Servilio Isaurico, mentre Marco Antonio, ormai diventato il suo nuovo alter ego, ricostituì il nuovo esercito, specialmente richiamando quel Labieno ormai perdonato per la scappatella con Pompeo. Il 27 marzo nel 48, Antonio arrivava a Brindisi (par. 39) e la traversata verso Farsalo - nella Tessaglia meridionale, fortezza dove Pompeo aspettava Cesare - segnò un lungo periodo di riflessione e di rinnovata amicizia con Antonio, mentre l'ombra della successione lo minava nello Spirito. Antonio? O il giovane figlioccio Giunio Bruto che peraltro era nel campo avversario? Oppure un quindicenne, Caio Ottavio, un pronipote promettente per ora dalla parte di Pompeo, ma presto passato dalla sua? La domanda non era troppo ardita in quel momento prima dello scontro finale col rivale. Militarmente il migliore erede era Antonio; politicamente Giunio Bruto però non era male, ma forse troppo legato alla democrazia repubblicana ed avrebbe riportato indietro la crescita di Roma. Ci voleva un mediatore fra le opposte esigenze di democrazia ed autorità. Chi? Intanto, sbarcati da Brindisi a Durazzo, nell'estate del 48, Cesare ed Antonio avanzavano fino alla fortezza di Farsalo.
I numeri dal 40 al 47, sono pieni di aneddoti che il lettore farebbe bene a leggere direttamente. Alla fine Pompeo, quando capì la rotta della sua cavalleria, che era anche il suo migliore battaglione, ebbe un moto di scoraggiamento, dimenticò di essere anche lui un ottimo generale, fuggì dal campo e si chiuse nella sua tenda, dietro una palizzata che poteva forse resistere all'attacco di Cesare. Sentiti gli urti contro di questa e comprendendo che la sua cattura era prossima, ebbe un colpo di genio: indossò la veste di un servo ed indisturbato uscì dal campo. Plutarco ci anticipa che morirà esule in Egitto, ucciso dal re Tolomeo, fratello di Cleopatra, operazione che Cesare non gradì, visto che la antica familiarità col genero non lo aveva privato di una sorta di rispetto. Sarà Asinio Pollione la fonte di Plutarco per queste vicende, fino alla sua biografia di Pompeo, considerato bene per la sua abilità politica, ma meno machiavellico di Cesare nel prendere il potere. Per Plutarco, Pompeo perse perché la sua figura idealista gli sembrò troppo prevalente rispetto a quella di Cesare certamente più realista.
Tanto più che nello stesso par. n. 46 compare più caratterizzata l'immagine di Giunio Bruto, alleato di Pompeo, ma democratico alla maniera di un Catilina. Addirittura cercato fra i morti dallo stesso generale, ma ritrovato vivo da un Cesare più lieto e che come si disse ancora fautore della successione, un idealista a lui tanto simile come in gioventù. Solo che non poteva immaginare che lo avrebbe pugnalato poco tempo dopo. Circostanza che costituirà il filone narrativo del Giulio Cesare di Shakespeare. Al par. 48, Plutarco non solo narrerà in breve della tragica morte di Pompeo di cui si è detto; ma anche descrive con attenzione la figura di Cleopatra, sorella del re d'Egitto e amante di Cesare e poi di Antonio. Costei è un personaggio essenziale per Plutarco, sia perché il suo amore con Cesare, molto più avanti in età, contribuì indirettamente all'improvvisa decadenza mentale del dittatore, disattento nei sui ultimi giorni di vita, nonché per le tragiche vicende del Secondo Triumvirato del 43 a.C. Dopo la guerra con l'Egitto, caduto in mano al tiranno Potino e reclamato dalla legittima erede Cleopatra; e con la guerra per acquisire il regno del Ponto di Farnace - guerricciuola ricordata dal Plutarco col famoso veni, vidi, vici - Cesare abbandonò la carica di Dittatore e ritornò ad essere un semplice Console Protettore dello Stato, per il 46 e il 47 a. c. Si limitò all'interno nel ringraziare i veterani di tante guerre, conferendo loro a ciascuno 1000 dracme e molte terre di Italia. Poi coprì le malefatte violente di Dolabella, suo fido governatore di Roma durante le predette guerre, assolse la corruzione dell'amico Mario, punì la condotta dissipatrice di Marco Antonio, che si era appropriato di beni di Pompeo e che già insidiava Cleopatra, che gli aveva dato un erede - Cesarione - pronta a diventare l'eminenza grigia del Tiranno. Che Cesare ne avesse tutta l'aria, Plutarco lo fa capire dalla battuta finale del paragrafo 51, quando tanti romani autorevoli, per esempio Cicerone, gli rimproveravano un’etica politica troppo illiberale e tollerante verso i suoi amici spesso delinquenti comuni. E il paragrafo n. 32, fino al par. 54, è dedicato alle guerre estere contro i Numidi di Giuba, vinti a Tapso - vicino Zama in Tunisia, dove presso quel Re si erano appoggiati gli ultimi eredi di Scipione l'Africano da tempo divenuti suoi avversari; e poi a Merida (Spagna), dove si erano attestati gli eredi di Pompeo.
A Tapso, un evento particolare gli accadde: un attacco fortissimo di epilessia lo lasciò mezzo morto e che per poco non gli costò di perdere in battaglia. Evento che Napoleone, lettore accanito di Plutarco, non seppe a Waterloo tenere presente, giacché anche lui colà ebbe un attacco di emorroidi che lo distrasse nella fase centrale della battaglia. Neppure va dimenticata la tragica morte di Catone a Utica, città costiera della Tunisia. Qui si era rifugiato l'ultimo ed il più tenace avversario repubblicano. Libertà va cercando, ch'è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta, scriverà Dante per significare il suo suicidio in nome della libertà. E qui Plutarco ricorda che Cesare non l'avrebbe forse fatto uccidere se Cicerone non lo avesse elogiato per la grandezza oratoria e politica negata allo stesso Cesare e di cui questi era invidioso fin dalla gioventù. Plutarco dice che il Dittatore ne restò male e perciò si dedicò subito a smontare il libretto di Cicerone con un antiCatone, che poteva essere anche un ottimo motivo per uccidere l'avvocato più importante del foro di Roma. Dal par. 55 al par. 59, Plutarco descrive gli ultimi due anni di vita - il 45 a.C. E il 44, fino alle fatali idi di Marzo - iniziando però dal piede sbagliato, perché la buona volontà di riordinare lo Stato, divenuto una regione così vasta da fornire migliaia di tonnellate di grano e milioni di litri di olio all'anno; nonché un territorio che andava dalla Spagna all'Africa, dall'Egitto alla Gallia, fino all'attuale Turchia, il c.d. Ponto. Fatto che non corrispondeva ad alcun limite della sua modestia, visto che non mancò subito al ritorno dalle ultime guerre di farsi eleggere dal Senato in parte filo repubblicano addirittura Imperator.
Plutarco - lettore dei resoconti di Giuba, figlio del re del Ponto - non poté non notare che feste, banchetti, spettacoli di gladiatori e finte battaglie navali in memoria della figlia Giulia (la moglie giovane di Pompeo, prematuramente morta, forse la donna con cui fu più legato, diversamente dalla seconda moglie Calpurnia, austera e più anziana; oppure dall'amante Cleopatra, un amore senile che lo aveva distaccato da Antonio e forse anche da Ottaviano, i due probabili successori). E poi a sentire Plutarco - quelli furono gli anni di un vero e proprio Monarca orientale, con aspirazioni universalistiche e cosmopolitiche. Riformò il calendario, disegnò audaci progetti urbanistici, valutò come successore forse l'austero Ottaviano raccomandato da Calpurnia. I veterani ora lo vedevano più stanco. E Plutarco ricorda quello che si disse di Scipione l'Africano: Uomo degno di essere ricordato, ma per le arti della guerra più che della pace. Intanto, i Parti - che si erano impadroniti dell'Impero Persiano dall'Armenia a Persepoli - dopo la vittoria su Crasso nel 53 d.c. a Carre, stavano premendo sul confine dell'Eufrate a Selenicia ed oltre Babilonia.
Già una spedizione di Publio Basso - luogotenente di Cesare in momenti difficili non appena Cesare era entrato a Roma da Rimini - stava dando risultati di buona resistenza ai confini medio orientali. Piuttosto, Cicerone, ormai divenuto capo dal partito moderato, non nascondeva qualche critica al programma di lavori pubblici e sociali. Antonio lamentava di non essere il vero successore e Lepido sperava che la malattia del Duce provocasse una scelta più rapida per la sua persona. Cesare (par. 58), aveva in animo piuttosto un'idea vana, quasi analoga alla malattia di grandezza di Alessandro, non a caso paragonato a Plutarco nella prima parte della biografia. Una tesi da lui sostenuta era quella di attaccare proprio i Parti e di ripetere l'avanzata in Oriente del suo omologo. Quindi prosciugare le paludi di Sezze, aprire nuove strade verso la Gallia, allargare e ripulire Ostia per renderlo un porto internazionale, invadere la Scozia e tagliare l'istmo di Corinto, erano le imprese che progettava per ingrandire l'impero di Roma.
Dal par. 60 al par. 66, Plutarco ci narra infine della sua morte violenta, ripresa in modo impeccabile dallo Shakespeare. Certamente ricordando l'età fascista nell'ultimo periodo, l'opposizione dell'Uomo qualunque al Regime autoritario - per esempio Cicerone, peraltro da intellettuale di punta qual era - si soffermava su indicazioni sarcastiche. Come nel caso del calendario dove si prendeva il moto della luna come modello delle ore serali; ma per ordine di Cesare e non per una effettiva evoluzione dall'astro notturno. Ma è proprio il tema della sua palese volontà di diventare Re che lo mise all'angolo nelle considerazioni di patrizi e plebei, mai così uniti fin dai tempi di Mario e Silla. La sua frequente ricerca del consenso degli Dei più popolari - raccolto nei libri Sibillini - lo portò per Plutarco alla improvvisa diffidenza, tanto che ai cittadini comuni diceva mentre gli recavano onori, invece di aggiungere onori ad onori, rafforzatemi quelli che ho! E mentre parlava in pubblico, spesso barcollava e delirava, forse per effetto dall'epilessia impetuosa che lo minava. Nondimeno, narra Plutarco, che alla festa dei Lupercali, riservata alla plebe, disprezzò, forse in buona fede, quel Lucio Bruto che miticamente aveva ordito la cacciata dei Re Tarquini alle origini di Roma.
Ecco perché i plebei - ma anche molti patrizi - vedevano in Giunio Bruto un epigono di Lucio e per di più genero di Catone, morto suicida ad Utica per non soffrire la perdita della libertà. Cesare, quasi inconsciamente, lo temeva e lo amava, perché vedeva in lui quello che era stato da giovane, prima che Pompeo lo suggestionasse nell'amare il potere.
Bruto era il simbolo di quella libertà perduta, onesto, incorruttibile e sincero, cose che erano state di Cesare, ma non lo erano più da tempo. Ma un altro dissidente di Cesare era apparso in Senato, Gaio Cassio Longino, un malizioso terrorista che per primo ordì l'attentato mortale a Cesare. Sopravvissuto a Carre, dove Crasso suo maestro era stato ucciso dai Parti, si legò a Pompeo e poi come Bruto venne graziato da Cesare. Giudice di pace degli stranieri, da una parte influenzò Bruto per quell'omicidio, dall'altra mostrò una falsa ammirazione per Cesare. Un classico doppiogiochista, un sottile mentore, un odiatore nascosto ed un grande simulatore, pallido ed infido, come lo rappresenta Plutarco. Poi, come in una romantica tragedia del destino, Plutarco descrive una serie di episodi tanto gustosi, quanto fantasiosi ed esteticamente drammatici, che presagivano a Cesare di stare lontano dal Senato un giorno che spesso portava sfortuna, le Idi di Marzo, giorno cioè a metà di quel mese di 31 giorni, quindi il 16 di Marzo (qualcuno lo ha paragonato al 16.3.1978, il giorno dell'agguato ad Aldo Moro...).
Dopo una notte travagliata da sogni strani per Cesare e per la moglie, mentre ormai la trama delittuosa di Giunio Bruto - l'idealista - e di Cassio Longino - il terrorista - era pronta a scattare proprio nell'udienza al senato del 16. Un Decimo Bruto venne però a prelevare Cesare per portarlo alle 12.00 in senato. Calpurnia - segnalata da Plutarco che qui spesso si appoggia al racconto di Tito Livio e mai moglie concorde con Cesare nelle sue paure causate da cattivi presagi - ora ne è atterrita proprio per il sogno di morte violenta del marito. La seduta al Senato, del resto, aveva all'ordine del giorno proprio la proclamazione di Cesare come Re. Turbato dalle preghiere della moglie, mai così allarmata da segni infausti, già Cesare aveva deciso di rinviare la seduta e perciò inviò Antonio a dire ai senatori di spostarla. Decimo Bruto, fiancheggiatore dei congiurati, però lo convinse del contrario. Cosa penseranno i senatori? Che hai paura di essere Re? Punto sull'onore e nella coerenza, Cesare uscì ed incontrò amici ed indovini che lo invitavano a non andare. Una ressa di clienti che era però un evento comune all'epoca e anche oggi lo è quando un politico passa per le strade affollate di Roma.
Ma al par. 66 Plutarco sottolinea un che di magico: il luogo prefissato per l'attentato era la Curia di Pompeo, accanto al teatro fatto costruire da questi nel 52, dove troneggiava la statua di Pompeo stesso. Nel resto del racconto - celeberrimo per la tragedia di Shakespeare, per vari dipinti e per le numerose scene cinematografiche - si susseguivano vari quadretti che consigliamo di leggere direttamente, fino alla morte violenta per un cumulo di pugnalate subite da Cesare in pieno Senato. Il par. 67 è dedicato poi al tentativo di rivolta popolare che Bruto e Cassio di sollevare il popolo chiamandolo a raccolta nel Campidoglio. Un momento però di confusione, col cadavere di Cesare ancora caldo, tutto sotto la statua di Pompeo. Antonio, Lepido ed Ottaviano cercarono di calmare la folla ed addirittura uccisero dei manifestanti per la libertà estranei all'evento. I giorni seguenti videro lo spegnersi e il riaccendersi di tumulti: la volontà dei futuri triumviri fu di mantenere in vigore le leggi di Cesare, il suo magnifico funerale, l'apertura del suo testamento, la ricerca dei colpevoli, e perfino un errore di persona su un aggressore, tale Cinna, che morì linciato dalla folla solo per essere omonimo di un congiurato.
L'epopea di Cesare fatta da Plutarco si chiude con una scarna quanto sconsolata considerazione: Cesare morì a 56 anni, dopo essere sopravvissuto a Pompeo appena 4 anni dopo, Quale fu il vero potere di Cesare e fu vera gloria politica? Se fu vera gloria, questa rimase solo militare (e questo fece riflettere molto Napoleone). Per vari anni successivi, i Triumviri - anzi divenuti ormai due, visto che Lepido già nel 36 a.C. dovette ritirarsi dalla politica perché accusato di avere tradito Ottaviano a favore di Antonio - inseguirono nel Nord Italia i congiurati - la c.d. guerra di Modena dal 43 a.C. - mentre ben presto Antonio e Ottaviano vennero in conflitto. Sebbene con la mediazione di Lepido, sia sorto il c.d. Secondo Triumvirato, con l'obiettivo di proscrivere tutti gli anticesariani - ivi compreso Cicerone, però assassinato da sicari di Antonio - nonché di punire con la morte i congiurati. Qui ancora riemerge il Plutarco moralista che affida all'aneddoto a sfondo etico la fine di Bruto (di Cassio solo dice che si ucciderà dopo la sconfitta di Filippi (42 d.c.) adoperando gli stessi pugnali usati per accoltellare Cesare).
L'aneddoto più famoso, ripreso dallo Shakespeare è quello del fantasma che apparve a Bruto per rilevare come la morte violenta di Cesare non fosse approvata dagli Dei. Quel tremendo fantasma - simile a quello che comparì ad Amleto la notte stessa dell'assassinio del padre da parte dello zio paterno e della madre - pronunzia una classica frase ripresa dalla cultura romantica: io sono il tuo cattivo Genio, o Bruto. Mi rivedrai a Filippi. E così fu: sconfitto nella città alessandrina, Bruto e Cassio si suicideranno, cedendo per ora il potere ai nuovi triumviri. Ma la seconda guerra civile è alle porte. Qui si può concludere come le pennellate di Plutarco hanno raffigurato con rara efficacia i fatti e i valori di quella storia, una sintesi sublime e terribile, dalla quale emerge il duello inesorabile fra Uomo e Destino, dove spesso non è facile comprendere se la storia sia fatta da attori coscienti del loro agire o sia un dramma già scritto per loro.
 
Giuseppe Moscatt 

 
Nota bibliografica
 
Per la storia di Roma, dalla guerra sociale (90-88 a. c.) alle guerre civili (89 al 31 a.C.), vd. la collana La Storia, ed. Corriere della sera, a cura di AMELIO BERNARDI, Milano, 2012, pagg. 326 e ss.; nonché INDRO MONTANELLI, Storia di Roma, Rizzoli, Milano, 2011, ultima edizione.
 

Per la figura di Plutarco, vd. ARNALDO MOMIGLIANO, Lo sviluppo della biografia greca, Torino, 1974.

  • Per la Vita di Cesare di Plutarco, cfr. la traduzione di Mario Scaffidi Abbate, Roma, 2014, nonché l'edizione integrale di Albino Garzetti, Firenze, 1954.

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