venerdì 9 febbraio 2024

La morte di Socrate (399 a. c.). Di Giuseppe Moscatt

La morte di Socrate (399 a. c.)
di Giuseppe Moscatt

 
Le fonti antiche ed il loro significato attuale
 
E' noto che la drammatica fine di Socrate avvenne poco dopo 27 anni di una guerra devastante fra Atene e Sparta lungo il Peloponneso e la Sicilia (431-404 a.c.). Atene, dopo l'infausta battaglia di Egospotami (405) dovette cedere le armi (404). Due fatti inattesi l'avevano fiaccata: nella citata battaglia la flotta era andata perduta, mentre le mura che la collegavano al Porto del Pireo erano state distrutte e le fortificazioni abbattute. Inoltre, l'ammiraglio spartano Lisandro abolì il regime democratico e varò un governo dittatoriale amico, quello dei cc.dd. trenta tiranni. Teramene ed altri democratici nemici di Sparta vennero proscritti ed altri giustiziati, come avverrà nella Roma di Silla nell'82 a.c. Tuttavia, il patriota esiliato Trasibulo riunì tutti i fuoriusciti e nel 430 rovescerà i Trenta. Il nuovo capo dei democratici, Crizia, morirà a Munichia nella relativa guerra partigiana e solo Pausania, nuovo re di Sparta, un moderato, otterrà un accordo di pace. Nel 403 l'Arconte Euclide varò un'amnistia generale e l'altro Arconte  firmò un nuovo codice di leggi aggiornate al commercio marittimo ed una nuova costituzione di governo (403-401) più liberale. Era ormai evidente, alla fine della lunga guerra che se Atene piangeva i morti e la fine del suo impero coloniale; Sparta non rideva perché la sua egemonia in tutta la Grecia non era del tutto consolidata.
Il quadro storico vedeva ad est un Impero Persiano ancora potente e a nord un regno di Macedonia in lenta ma costante ascesa. Chi legge Demostene, prima e dopo la battaglia di Cheronea - dove trionfarono nel 338 i macedoni di Filippo II- non può non vedere la reale rassegnazione dell'ancora ricca borghesia mercantile ateniese. Socrate all'epoca, secondo Platone, dopo aver partecipato alla guerra del Peloponneso, combattendo a Potidea, Delio ed Anfipoli, rimaneva un mero osservatore della politica, un esterno critico, ma non attivo. Ai giudici che lo interrogarono al processo, si giustificò citando un suo Spiritello che lo aveva dissuaso a partecipare. Egli si dichiarò solo un missionario della conoscenza, non un influencer come si dice oggi. La politica gli era estranea. Non si era arricchito, né aveva parteggiato per qualcuno, era solo una guida per la conoscenza del mondo. Neppure si era dimostrato lontano dalla sua famiglia; che mai era stato fuori Atene; che aveva combattuto per la sua città ed era stato all'istmo di Corinto per festeggiare Posidone. In armonia alle tradizioni religiose comuni. Unico suo fine da buon padre di famiglia era quello di indicare ai propri figli e concittadini la via per la Virtù. E nessuno fu in grado di contestargli la povertà o doppi fini di potere.
Il Dio di Delfi fu un suo testimone. Certamente, Aristofane lo aveva messo alla berlina nelle Nuvole, ma non lo aveva mai accusato di turbativa o di violenze. E dunque, non pochi critici dopo più di 15 secoli, si chiedevano come poi poteva essere stato accusato di fare da manipolatore politico, un rivoluzionario, un terrorista? Perché accusarlo di essere un pericoloso sovversivo tale da meritare la pena di morte? Ma chi lo accusava? Le fonti al riguardo, parlano di Anito, lo Stratego, una sorta di Procuratore Generale, giunto a tale carica per elezione e non per nomina. Sebbene Aristotele lo avesse messo in dubbio per la presunta onestà, quando questi aveva proposto di compensare per legge i giudici; tuttavia, il principio del compenso era già presente nel Diritto Attico fin dall'età di Pericle. Del resto Anito non era un democratico estremista e con Teramene aveva attuato con scrupolo la suddetta amnistia.
E dunque, perché era così contrario all'attività di Socrate? Forse era un problema di natura psicologica propria del sentire morale dall'accusatore? Neppure è possibile trarre argomenti dalla ordinanza di rinvio a giudizio dinanzi alla Corte che apriva nel Diritto Attico l'istruttoria per il giudizio stesso, perché non ci è pervenuta. Dagli atti processuali che abbiamo, emerge - secondo Diogene Laerzio, che li trovò nel tempio di Cibele, un antico Archivio di Stato - una dichiarazione giurata di Mileto, per cui Socrate ha commesso un delitto di non riconoscimento degli Dei che lo Stato ammette, ma invece introduce un nuovo Dio demoniaco... e ciò è un delitto di corruzione della gioventù. Si domanda perciò la pena di morte.
La dottrina moderna - per esempio Wolfang Menzel - crede questo documento vero. Perché il filologo Favorino, che lo passò a Diogene Laerzio, lo avrebbe falsificato, oppure creato ad hoc? Senofonte e Platone lo ribadiscono, pur con varianti poco diverse. Platone nella Apologia lo fa anche sottoscrivere da Anito e Licone, un altro Procuratore. E poi lo stesso Socrate - per bocca di Platone - conferma l'odio dei politici e dei borghesi contro la sua persona. Benché l'accusa fosse stata firmata dal solo Mileto; Platone rileva che questi era un giovane di poco conto, tanto più che il famoso poeta omonimo era del tutto disinteressato in materia. Era un accusatore debole che Socrate non temeva. Altri - per Platone - stavano alle sue spalle, tanto che nella fase preliminare del processo, i giurati accolsero l'accusa a lieve maggioranza. E poi Licone, cattivo oratore, era riconosciuto da Socrate molto secondario, visto che fu appena citato nelle repliche di Socrate all'atto primo di accusa. Invece, Anito era più quotato.
Aristotele lo ricorda come ambasciatore a Sparta dopo la sconfitta di Egospotami ed insieme a Teramene e Archino, esponenti del partito centrista che governò Atene dopo la pace con Sparta. Anzi l'amicizia di Anito con Archino durò a lungo, anche quando questo era l'altro stratego in pieno processo di Socrate, peraltro come si disse buon esecutore della amnistia promossa da Teramene. Socrate comprendeva bene come nella fase istruttoria chi era il suo vero nemico: quando Socrate nel Teeteto disse all'amico Teodoro di dover andare in tribunale per rispondere all'accusa di Mileto, non sapeva ancora chi stava dietro a quel giovanotto quasi a lui sconosciuto. Però Socrate aveva un sospetto di chi veramente lo stava accusando nella prima udienza e nella sua prima difesa. Infatti citava che l'accusa è voce dell'opinione pubblica, nemica più dello stesso Anito … Perché lo cita di sbieco? Perché non parlò di Mileto? E Licone? Anzi, Socrate fa una strana parentesi: non teme la morte, che non conosce, neppure se l'accusa di Anito venisse accolta...  Anzi, perché non condannate anche i giovani che avrei corrotto come ha detto Anito?
L'accanimento di quell'accusatore ora è evidente. Forse non errava quella critica moderna che vede nelle parole del filosofo un malcelato sentimento di offesa da parte di Anito che non insiste nel generalizzare l'accusa ai tanti giovani che seguivano i precetti del maestro, per esempio Platone e Senofonte, scrittori già famosi. L'accusa di Anito, per l'interposta persona di Mileto, poteva al massimo provocare la fuga di Socrate, oppure una pena molto più lieve, magari una multa. Insomma, la macchia c'era, ma non era opportuno allargarla... Ma Aristofane aveva già messo il dito sulla piaga: nelle Nuvole del 421 a. c., il poeta si era chiesto - come ora ci chiediamo - perché il moderato Anito chiese una pena così forte contro uno dei tanti filosofi sofisti dell'epoca, tanto più che l'oracolo di Delfi lo aveva celebrato come il più saggio dei saggi? Non era un motivo politico inquisirlo perché era stato fuori della politica? E poi perché stroncare quella missione di conoscenza senza avere aspettato gli esiti, magari positivi, di tale condotta? Platone non poteva avere taciuto su tale aspetto, del tutto assente nella famosa Apologia. Sebbene sia nota ed ormai certa la partigianeria del suo illustre discepolo, il fatto che questi abbia taciuto sulla eventuale colpevolezza di ignavia politica, il senso della accusa su tale motivo, ci pare significativo.
Ora è tempo però di passare all'altro suo grande discepolo, Senofonte. Nei non meno famosi memorabili su Socrate, lo storico ateniese (430-354 a.C.), racconta come Socrate abbia obiettato sulla nomina degli Arconti, la massima autorità di Atene, paragonabili a quella dei consoli nella Roma repubblicana. E' però strano che Platone taccia al riguardo, senza contare che nell'Agorà non era affatto vietato discutere su diverse forme di elezione dei podestà della città,  per esempio se era possibile allargare  la platea degli elettori alla classe dei teti - artigiani e commercianti - per le elezioni delle supreme magistrature (Arconti e Strateghi). Neppure Senofonte crede ad un eventuale astio politico per Socrate perché maestro di Alcibiade (il mostro manipolatore del potere e l'arrogante per eccellenza, un voltagabbana per Platone e Aristotele) e protettore di Crizia, il perfido servo di Lisandro, capo dei 30 tiranni di cui si disse. Infatti l'amnistia di Teramene vietava ogni loro favore per ipotetiche alleanze o simpatie espresse in pubblico, specialmente se li si fosse indicati positivamente. Cosa che Socrate mai aveva fatto in pubbliche assemblee. Dunque, Senofonte sposta l'attenzione su un tema imputabile ben chiaro nel predetto atto di accusa, cioè il presunto ateismo di Socrate, colpevolezza che Diogene Laerzio estende al secondo punto, cioè la corruzione dei giovani. Ecco dunque la vera tara del pensiero di Socrate, cosa che atterriva il buon borghese Anito, la scelta di una fede laica che impestava la gioventù ateniese, specialmente in un regime moderato che vuole voltare pagina, dopo la retorica di Pericle, la grandeur di Alciabide e la fortissima corruzione di un Nicia.
Le paure di Anito, di Licone e di Isocrate svelate nella sua orazione contro Callimaco, e perfino dell'equilibrato Trasibulo, di una intera nuova classe dirigente  conservatrice dopo la fine della dittatura dei 30 tiranni; somiglia al ritorno all'ordine del Termidoro francese ed al centrismo democristiano italiano del secondo dopoguerra, che vedeva nel Partito Comunista, il diavolo perturbatore, contro cui il Don Camillo di Guareschi lanciava dal cinema i suoi suoi strali. Del resto Socrate parlava di un Daimonión che lo voleva estraneo a quella politica, un ostacolo formidabile all'esercizio della sua vocazione. Anzi, Anito da benpensante, non poteva pensare nulla di buono vedendolo circondato da giovani ogni giorno per le strade della città, come non era tranquillo chi vedeva a Monaco Hitler bere birra con tanti ragazzi che non accettavano i loro professori, non più nostalgici del Kaiser Guglielmo ed ammaliati dalle sirene comuniste di Weimar. Oppure perplessi per il numero imponente di studenti di medicina a Vienna che seguivano le lezioni di Freud. Certo, Socrate aveva pure di fronte l'accusa del giovane Mileto, un probabile contestatore come si diceva dei giovani francesi alla Sorbona, nelle turbolente assemblee del '68. Era il metodo a stupire, non l'obiettivo. Il sistema delle domande e delle risposte, la c.d. maieutica, era ciò che non poteva essere sopportato, secondo l'analisi sociologica di Senofonte. E quindi di Anassagora, Eraclito e perfino i religiosi Eleati, con Parmenide in testa, potevano incappare nell'accusa di ateismo, mai formulata contro di loro solo perché formalmente rispettavano gli dei omerici.
Ma Socrate ruppe la tradizione, perché mentre costoro o fuggivano, o accettavano l'esilio, o subivano la condanna del silenzio; Socrate aveva avuto invece il coraggio di apparire in tribunale e come Giordano Bruno controbatteva le loro accuse accettando il rischio di essere ateo. Andò a morte in armonia alla volontà del suo daimonion, una morte sacrificale che nel suo spirito meritava il sacrificio. Condotta che meravigliò la scuola stoica romana, da Seneca a Marco Aurelio, da Cicerone a Ovidio, senza contare l'effetto di una meravigliosa anticipazione di San Paolo e Sant'Agostino e di buona pare della patristica cristiana dell'alto Medioevo, fino a Boezio e Cassiodoro. Eppure Aristotele - nella sua Costituzione di Atene del 322 a .c. - rilevò anche le buone ragioni di Anito, oggi forse incomprensibili, ma che allo Stagirita sembrarono coerenti col politically correct dell'epoca, in una cornice storica formatosi dopo decenni di guerre che erano succedute ad una straordinaria età di potenza e di cultura, già riconosciuta come irripetibile alla fine del quarto secolo a.C. Con una capacità di notevole acutezza storica, Aristotele rilevava che la rinascita di Atene non poteva non passare per un ritorno ai vecchi costumi ed ad una legislazione più certa, alquanto tranquillizzante, nonché più ben accolta da una classe più conformista di Sacerdoti ed anche di laici, dove l'Arconte - Re era a capo di un ordine che eseguisse riti derivati dai vecchio valori di fede, inseriti nella Costituzione dello Stato da Solone e Clistene in poi. Tutti i cittadini erano obbligati a placare od impedire l'ira dagli Dei di Esiodo, Sofocle, Eschilo ed Euripide, a rispettare gli oracoli e le Pizie e a fare i dovuti sacrifici, cosa che perfino Socrate aveva per una volta ottemperato a Corinto, come si disse, e che anche le donne, i giovani, i magistrati ed i filosofi dovevano eseguire. Chi si sottraeva o peggio criticava, fino a smontarne l'essenza, era da sempre reo di morte. Pericle - che aveva difeso Anassagora solo perché questi aveva detto che Il Sole era un sasso incandescente - cominciò da allora a declinare; mentre il sofista Protagora, per il suo relativismo religioso, dovette andare in esilio e nella fuga fu forse buttato in mare dall'equipaggio insolentito dalle sue tesi ateiste.
Ecco perché Socrate - come Galileo - trovò fortissime opposizioni nel popolo. Non tanto perché avesse disobbedito alle leggi, quanto perché queste non erano frutto di conoscenza come egli la predicava. Senofonte ci dice che il Dio di Socrate non era il numeroso assembramento di dei che da Omero in poi affollavano le usanze greche; ma che il suo Dio  era unico, onnisciente ed onnipresente, come ebbe ad avvertire nelle prime pagine dei Memorabili. Platone nel Fedro e nel Simposio insiste poi a dire che Zeus è un solo Essere, pur dotato di vari nomi. E poi anche il filosofo e scienziato Talete, alle origini della Scienze naturali, si era prodigato alla ricerca di un Principio Unico Naturale che Anassagora ed Empedocle, pur materialisticamente convinti della presenza nel mondo di due entità in competizione - la spirituale e la materiale - avevano avuto un qualcosa di unitario fin dalle origini. E che dire del più volte citato daimonion, lo spiritello che albergava nel suo animo e che lo portava a vedere ed a sapere del mondo fuori dalla pratica scettica soggettiva dello stesso Pitagora? Un animo che influenzò Platone, Plotino e Sant'Agostino... Ma restava in questo singolare pensiero, fecondo per la filosofia che seguì, l'ombra che spaventava Anito e la luce che reggeva invece Socrate.
L'ignoranza che acquietava il tessuto sociale era rivolto a lavorare ed a figliare; ad arricchirsi ed a godere; obbediente ai Capi e sordo alle domande di cambiamento che inevitabilmente il progresso impone alla società, ogni volta però frenata da timori di un futuro indeterminato. Nietzsche ci ha dato le ragioni soggettive dello scontro; Marx le ragioni sociali; Freud le cause individuali del conflitto continuo dell'uomo e della società con se stesso. Platone e Senofonte avevano già scavato nella società pacificata e restia ai cambiamenti e avevano tentato di mediare le ragioni di Anito e di Socrate. Solo che il primo cadde nella pietas dei Mos Maiorum e come Catone il Censore a Roma fece fronte al pericolo ellenico come un richiamo ai valori universali; come l'ebraismo conservatore eliminò dal suo orizzonte Cristo il rivoluzionario. Così fu per Anito, che da politico non comprendeva la fede laica progressista di Socrate. In realtà fu l'empietà sostanziale a spingere al processo, non tanto quella formale di mero rispetto delle leggi. Del resto, lo stesso Senofonte in vari passi fa dire al filosofo che era necessario per tutti rivolgersi agli oracoli, benché negasse sia pure in privato la veridicità dei misteri, per altro parodiata da Alcibiade, donde gli venne imputato lo sfregio delle Erme poco prima della partenza della disgraziata spedizione in Sicilia. Se poi il delitto di empietà nascondesse un qualche fermento politico, è l'opera di interpretazione cui ora è opportuno volgere lo sguardo.
 
 
Sul concetto di daimonion, un tema da approfondire
 
Nel corso delle brevi considerazioni testé concluse, merita attenzione il concetto di daimonion che si è voluto sottolineare, come l'oggetto oscuro che Socrate indica come suo angelo custode e che lo guida nel difficilissimo duello col mondo che lo giudica. Tale voce interiore ci pare ancora il bandolo della matassa per capire il grande filosofo nel suo iniziale insegnamento, fino all'esperienza di una morte perfino ricercata. A leggere le uniche fonti antiche - i citati Platone e Senofonte, visto che dello stesso Socrate nulla si ha - sono spesso in contraddizione ed anzi nella questione del demonion raggiungono la misura più ampia, tanto da coinvolgere la soluzione della definizione di tale voce. Premesso che a fatica la critica moderna è riuscita a separare il pensiero di Socrate da quello di Platone iniziando proprio dalla delimitazione del concetto in esame.
Qui va detto che nei Romantici il platonismo è necessario per comprendere necessariamente Socrate. Ora per Platone il Daimanion non è mai una voce che guidi di per sé il Maestro, mentre avrebbe carattere esclusivamente interdittivo. Purtroppo, Senofonte appare di senso contrario perché la giudica ambivalente, come se dicesse non fumare al fumatore incallito che proprio dal divieto prende spirito oppositivo e continua a fumare... Insomma, per lo Storico dell'Anabasi, l'attività psichica di Socrate sembrerebbe dipendente da quella voce, cosa che Platone rigetta, anche perché la ricostruzione del suo concetto di anima è notoriamente ben diversa. Ma chiusa questa parte equivoca - specialmente dopo le famose traduzioni del teologo tedesco F.D. Schleiermacher del 1804/1828 - si riapre il portone della c.d. apologia di Socrate, attribuita dai classici a Senofonte, ma ormai un'opera apocrifa per di più colletanea, di carattere più artistico che di mera cronaca giudiziaria. La prova più diretta al riguardo - al di là degli studi filologici qui impossibili da riportare -  è data del rilievo che essa ha prodotto nella cultura occidentale fino ad oggi.
L’elevatezza etica dei discorsi di Socrate è un fiore all'occhiello non tanto dell'oscuro redattore compilativo, quanto della superba rielaborazione artistica derivata da un organico mosaico presente  nella stessa Apologia di Platone, nonché dei dialoghi come l'Eutidemo, il Teeteto, il Fedro e la Repubblica. Ecco perché suscita ancora interesse uno dei capi d'accusa opposti a Socrate, cioè essere colpevole di avallare e garantire nuovi Daimonion, nuove divinità.
Abbiamo già anticipato cosa fosse, una voce divina - a suo dire - che lo blocca a fare quello che voleva razionalmente, mentre lo lascia libero nel fare. Ironia? Coscienza? Presunzione di genialità? Oppure una patologia schizofrenica? Come conciliare il metodo socratico di mera sapienza umana, colla voce divina che richiama una Rivelazione piuttosto che un logos umano? Non era un ordine, ma un divieto, disse la dottrina Romantica, confondendo la prassi morale con la teoretica metodologica, lettura che oggi al riguardo vede in Giovanni Reale come miglior interprete. Qui sta l'autonomia del pensiero di Platone, non più un semplice cronista del processo, quanto e piuttosto la sua chiara interpretazione del Maestro. Infatti è oggi più evidente che il daimonion era una realtà che riguardava l'uomo Socrate e la sua vita esistenziale, magari la sua difesa in tribunale contro l'accusa del fare politica trasgressiva. E lo rivela proprio la cronaca del suo discepolo, facendogli dire: Voi lo sapete bene, o ateniesi! Che se veramente mi fossi dedicato a fondo alla politica dello Stato e se non fossi stato trattenuto dal Daimonion, non solo sarei morto, ma non avrei prodotto per voi e per me nulla di importante. Del resto, nella Repubblica, Socrate dice che questo sentimento interiore era proprio suo e non di nessun altro, mai cioè ripetuto o ascoltato da altri (VI, 496 c.). Dunque è questo un'altra caratteristica eccezionale del suo pensiero, spesso testimoniato dallo stesso Platone in vari dialoghi, legato al silenzio estatico in cui si immergeva.
Un segno premonitore che la psicologia moderna non ha giudicato secondario nella ricostruzione del suo pensiero, dove però questa particolare  essenza non vuole indicare un angelo cristiano od un genio della lampada sul modello islamico, Né Platone, né Senofonte, lo qualificano nella dizione ebraica di demonio, quanto e piuttosto di voce di Dio. Forse un carattere per cui i demoni sono figli degli dei o dei stessi? Un modo d'agire dell'Uomo? E se non vogliamo pensare che questo sia un classico tentativo di ogni imputato di estraniarsi dalle accuse e di metterle in sordina per essere assolto; ma se invece esso sia stato frutto di un sentimento di pace a salvaguardia dell'Uomo ed un comando spirituale. Allora sarebbe la premessa della prospettiva della morte come un lungo sonno sereno verso la beatitudine immortale. Un richiamo ad Omero e Pitagora, un’anticipazione dell'immortalità dell'anima da cui Platone trarrà forti impulsi per il suo pensiero trasmigrato nel pensiero cristiano da Paolo ad Agostino. Meditiamo su questa feconda possibilità.

Giuseppe Moscatt
 
 
Note bibliografiche
 
·         Socrate e Platone, vd. vol. XVI di ROMANO GUARDINI, a cura di O. Bruno, introduzione di E. Berti, ed. Morcelliana, Brescia, 2006, nonché PIERRE HADOT. Elogio di Socrate, a cura di E. Giovanelli, ed. Il nuovo mulino, Genova, 1999.
·         Per il contesto storco, vd. GIOVANNI REALE, Storia della filosofia greca e romana, ed. Bompiani, Milano, 2004.
·         Per il processo e la morte di Socrate, vd. il film Socrate di ROBERTO ROSSELLINI, 1971.
·         Sul pensiero di Schleiermacher, cfr. FRANCESCO ADORNO, Introduzione a Socrate, ed. Laterza, Bari, 1999.

·         Per Wolfang Menzel, cfr. LADISLAO MITTNER, Storia della letteratura tedesca, vol. 3, tomo I, pagg. 365 e ss. ed. Einaudi, 1971.

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