Beati nella concezione del Cristianesimo |
“Il makarismós (“Beato chi…) è uno schema retorico
caratteristico della poesia antica, dagli Inni omerici (A Demetra 480:
“Beato chi ha visto i sacri riti ” fino alle Georgiche di
Virgilio (II, 490 ss. : “Felix qui potuit rerum cognoscere causas (…) fortunatus
et ille” ecc.). Lo schema del makarismós si applica frequentemente (…)
alla beatitudine dell’iniziato, alla felicità di chi ha visto la luce di una
rivelazione divina: si vedano per esempio i versi di Pindaro sui Misteri
Eleusini (fr. 137 M) o la celebrazione della gioia dei fedeli di Iside
nelle Metamorfosi di Apuleio (XI, 16)”[1].
Vediamo
altri versi delle Baccanti di Euripide
Nella
strofe a della parodo le menadi cantano:
“ O beato
chi d’accordo con se stesso w\ mavkar o{sti" eujdaivmwn
conoscendo i
misteri degli dèi,
santifica la
vita ed
entra nel
tiaso con l’anima,
baccheggiando
nei monti
con sacre
purificazioni,
e celebrando
secondo il rito
le orge
della grande madre Cibele
alto
scuotendo il tirso,
e incoronato
di edera
venera
Dioniso (vv. 73 - 82).
Infine
l’epodo di questo coro con altri momenti di gioia
“E’ cosa
dolce nei monti, quando dai tiasi in corsa
Si cade a
terra, indossando
il sacro
indumento della nebride, cacciando
il sangue
del capro ucciso, gioia di mangiare la carne cruda - wjmovfagon
cavrin -
spingendosi
sui monti frigi, lidi, e il capo è Dioniso,
evoè.
Scorre latte
a terra , scorre il vino, scorre il nettare
delle api.
Bacco
sollevando
la fiamma
ardente
dalla torcia
di pino
come fumo di
incenso di Siria
si
precipita, con la corsa e
con danze
eccitando le erranti
e con grida
spingendole,
e scagliando
nell’aria la molle chioma.
e insieme
con urla di evoè grida così:
“O andate
Baccanti,
andate
Baccanti,
con lo
splendore dello Tmolo aurifluente,
cantate
Dioniso
celebrando
con urla di evoè il dio dell’evoè
tra clamori
e gridi frigi
quando il
sacro flauto melodioso
freme sacri
ludi che si accordano
alle erranti
al monte, al monte: felice
allora, come
puledra con la madre
al pascolo,
muove il piede rapido, a balzi, la baccante” (Baccanti, vv.135 - 166).
Nell’incipit
del primo stasimo dell’Ifigenia in Aulide il Coro di donne
della Calcide canta:
mavkare" oi} metriva" qeou'
metav te swfrosuvna" mete -
scon levktrwn jAfrodivta" (543 - 545)
beati quelli
che sono stati partecipi della dea moderata e con temperanza dei letti di
Afrodite.
Già il coro
di donne corinzie nel secondo stasimo della Medea aveva auspicato
la moderazione e invocato la temperanza
Prima strofe
(vv. 627 - 635)
Gli Amori
che oltrepassano l'eccesso e[rwte" uJpe;r me;n a[gan
non
procurano buona reputazione né virtù agli uomini: ma se con moderazione
giungesse Cipride (eij d j a{li" e[lqoi Kuvpri"), nessun'altra dea sarebbe così
gradevole.
Non
scagliare mai, o signora, contro di me dal tuo arco d'oro
il tuo dardo
inevitabile dopo averlo intinto nel desiderio.
Prima
antistrofe (vv. 636 - 644)
Mi abbia
cara temperanza,
il più bel
dono degli dèi (stevrgoi dev me swfrosuvna - dwvrhma kavlliston qew'n);
né mai
Cipride tremenda mi scagli addosso le ire della discordia
e contese
insaziabili, sconvolgendomi l'animo
per talami
altrui, ma onorando i letti senza conflitti
giudichi con
mente acuta le unioni delle donne.
Di
tale swfrosuvnh si trova una definizione nel Simposio di
Platone dove Agatone fa l’encomio di Eros dicendo che questo dio giovane, bello
e delicato “pro;" de; th'/ dikaiosuvnh/ swfrosuvnh"
pleivsth" metevcei. ei\nai oJmologei'tai swfrosuvnhn to; kratei'n hjdonw'n
kai; ejpiqumiw'n” (196c),
oltre che della giustizia partecipa anche della più grande temperanza. Si è
d’accordo che la temperanza consiste nel dominare i piaceri e i desideri.
La felicità di vedere la luce
"La
luce è la più rallegrante delle cose: è divenuta simbolo di tutto
ciò ch'è
buono e salutare. In tutte le religioni indica la eterna salvezza, mentre
l'oscurità indica dannazione"[3].
Però vedere la luce è fonte di gioia sicura solo su questa terra, dice
Ifigenia al padre quando lo prega di non sacrificarla: “to; fw'"
tovd j ajnqrwvpoisin h{diston blevpein - ta; nevrqe d j oujde;n : maivnetai d j
o}" eu[cetai - qanei'n. kakw'" zh'n krei'sson h] kalw'" qanei'n” (Ifigenia in Aulide, 1250
- 1252), vedere questa luce per gli uomini è la cosa più cara: laggiù non cìè
niente: matto è chi si augura di morire. Vivere male è meglio che morire bene.
Esattamente
il contrario di quanto dice Polissena nell’Ecuba di Euripide, come
pure l’Aiace e l’Antigone di Sofocle.
Soltanto nella bellezza si può tollerare il dolore di vivere, afferma la
principessa troiana quando antepone una morte dignitosa a una vita senza
onore:"to; ga;r zh'n mh; kalw'~ mevga~ povno~, (Ecuba , v. 378), vivere senza bellezza è un grande
tormento".
Così Aiace dice al corifeo (vv.479 - 480):"ajll j h]
kalw'" zh'n h] kalw'" teqnhkevnai - to;n eujgenh' crhv" ma il nobile deve o vivere con
stile, o con stile morire.
Infine Antigone alla sorella Ismene: ma lascia che io e la pazzia che spira da me/soffriamo
questa prova tremenda: io non soffrirò/nulla di così grave da non morire
nobilmente"peivsomai ga;r ouj - tosou`ton oujden w{ste mh; ouj
kalw`~ qanei`n ( Antigone,
vv. 95 - 97).
Ma anche
l’Ifigenia di Euripide fa in tempo a cambiare idea e a convertirsi alla morale
eroica offrendo la sua vita per la Grecia (Ifigenia in Aulide, 1397 - 1401).
Esistono pure makarismoiv degli
uccelli. Aristofane e Leopardi.
Aristofane nella sua
commedia dedicata alle creature alate ne fa cantare uno agli stessi uccelli
nella II Parabasi:" eu[daimon fu'lon pthnw'n/oijwnw'n, oi} ceimw'no" me;n/claivna" oujk
ajmpiscnou'ntai: /oujd j au\
qermh; pnivgou" hjma'"/ajkti;" thlaugh;" qavlpei", beata la stirpe degli
uccelli alati che d'inverno non indossano mantelli, né d’altra parte l’ardente
fulgido raggio della calura ci brucia (Uccelli , 1088 - 1092).
Anche
il pessimismo di Leopardi ha
dovuto riconoscere qualche felicità agli uccelli: 'E che gli uccelli sieno e si
mostrino lieti più che gli altri animali, non è senza ragione grande. Perché
veramente, come ho accennato a principio, sono di natura meglio accomodati a
godere e ad essere felici. Primieramente non par che sieno sottoposti alla
noia. Cangiano luogo a ogni tratto; passano da paese a paese quanto tu vuoi
lontano, e dall'infima alla somma parte dell'aria, in poco spazio di tempo, e
con facilità mirabile, veggono e provano nella vita loro cose infinite e
diversissime; esercitano continuamente il loro corpo; abbondano soprammodo
della vita estrinseca. (...) E siccome abbondano della vita estrinseca,
parimenti sono ricchi della interiore; ma in guisa, che tale abbondanza risulta
in loro benefizio e diletto, come nei fanciulli; non in danno e miseria
insigne, come per lo più negli uomini"(Elogio degli uccelli ).
Forse proprio per la sua libertà l'uccello
viene perfino collegato alla nobiltà: i tratti degli antichissimi e nobili
Guermantes di Proust :"il naso a becco di falco e gli occhi
penetranti" sono "caratteristici...di quella razza rimasta così
speciale in mezzo a un mondo in cui non si è confusa e resta isolata, nella sua
gloria divinamente ornitologica: perché essa sembra nata, in un'età favolosa,
dall'unione d'una dea con un uccello"[4].
Dodds chiarisce che l’aggettivo mavkar “describes this happiness from the point of view of an observer,
descrive questa felicità dal punto di vista di un osservatore esterno,
mentre eujdaivmwn (one of the key - words of the play), una delle parole chiave
della tragedia, “gives it
from the experient’s point of view, and suggests the reason for it (‘having a
good daivmwn)”[5], la dà dal punto di vista di chi la
prova e ne suggerisce la ragione ( in quanto ha un demone buono).
Il regius professor of Greek in the University of Oxford fa anche notare
che “such formulas of beatitude are traditional in Greek
poetry ”, tali formule di beatitudine sono tradizionali nella poesia
greca e fa degli esempi: Inno a Demetra (v. 480), Pindaro (fr. 121
Bowra) e Sofocle (fr. 837 Pearson), e aggiunge che mentre le altre promesse di
felicità riguardano la prossima vita “the happiness which Dion. gives is
here and now”[6],
la felicità data da Dioniso è qui e ora.
Anche
secondo Leopardi è
questa la felicità cui aspira l’uomo: “ La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità temporale,
una felicità materiale e da essere sperimentata dai sensi ( …) una felicità
insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di una
esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non
sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la
perfezione e il fine dell’esistenza (…) Promettere all’uomo, promettere
all’infelice una felicità celeste, benché intera e infinita, e superiore senza
paragone alla terrena, e a’ piccoli beni che egli desidera, si è come a un che
si muor di fame e non può ottenere un pezzo di pane, preparargli un letto
morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori (…)
Osservisi che di due future vite, l’una promessa l’altra minacciata dal
Cristianesimo, questa fa sul mortale molto maggior effetto di quella. E perché?
Perché ci s’insegna che nell’inferno (e così nel Purgatorio) avrà luogo la
pena del senso”[7].
[2] Il suono del tamburo è considerato liberatorio dal professore di greco
Adolph Cusins, il fidanzato di Barbara, maggiore dell’esercito della salvezza
nella commedia di Bernard Shaw Maggiore Barbara. Egli dice al futuro
suocero, un ricchissimo fabbricante di armi: “You do not understand the
Salvation Army. It is te army of joy, of love, of courage (…) It takes the
poor professor of Greek, the most artificial and self - suppressed of human
creatures, from his meal of roots, and lets loose the rhapsodist in him;
reveals the true worship of Dionysos to him; sends him down the public street
drumming dithyrambs” (Major Barbara, Act II.) , tu non
capisci l’Esercito della Salvezza. E’ l’esercito della gioia, dell’amore,
del coraggio (…) Porta via il povero professore di Greco, la più artificiale e
autorepressa delle creature dal suo pasto di radici, e libera il rapsodo che è
in lui; rivela in lui il vero cultore di Dioniso; lo manda nella pubblica
strada a tambureggiare ditirambi.
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