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giovedì 19 settembre 2019

Il reperimento e il potenziamento della propria identità

Domínguez Sánchez, La morte di Seneca

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Conosci te stesso, diventa quello che sei, e potenzia quello che sei diventato!

Segnalo una non conoscenza che è nello stesso tempo non sapienza ed è sempre causa di infelicità. 
Il secondo coro del Tieste di Seneca (cfr. v. 542 - 544) conclude anteponendo alla vita dell'uomo famoso e di potere quella del privato e augurandosi di morire ignoto agli altri, ma noto a se stesso: "me dulcis saturet quies:/obscuro positus loco,/leni perfruar otio;/nullis nota Quiritibus/aetas per tacitum fluat./Sic cum transierint mei/nullo cum strepitu dies,/plebeius moriar senex./Illi mors gravis incubat,/qui, notus nimis omnibus,/ignotus moritur sibi " (Thyestes, vv. 393 - 403), mi sazi una dolce tranquillità: rifugiato in un luogo sconosciuto, possa godere di un dolce tempo tutto per me; la mia vita trascorra in silenzio sconosciuta a tutti i cittadini. Così quando saranno passati i miei giorni senza chiasso alcuno, morirò vecchio uno dei tanti. La morte pesa grave su chi troppo noto a tutti, muore ignoto a se stesso.

Nel secondo episodio delle Baccanti Dioniso dice a Penteo
“Non sai che vita vivi, né quello che fai, né chi sei” “oujk oi\sq j o{ti zh'/" oujd j o] j ojra/'" oujdj o{sti" ei\ (vv. 506).

“Il problema dell’identità e dell’origine segna il destino di Edipo che sarà condotto suo malgrado a scoprirsi altro da ciò che immaginava. Nel caso di Penteo, la crisi dell’identità è diretto prodotto dello scontro con Dioniso che fa deflagrare ogni certezza e ogni pretesa di coerenza del suo interlocutore. E’ rilevante che Dioniso riattivi il modello del Tiresia sofocleo e che insieme si trovi in una posizione corrispondente al Tiresia del precente episodio del dramma: se l’indovino aveva ammonito Penteo, qui il dio completa, con una maggiore e diversa autorevolezza, l’annuncio della catastrofe che non mancherà di punire la cecità del sovrano”[1].

Penteo fornisce i suoi dati burocraticamente 
“Penteo, figlio di Agave e mio padre è Echione” (507)
Quindi Dioniso interpreta il nomen con l’omen del dolore: Penqeuv" preannuncia il dolore (pevnqo") dell’uomo predestinato a penare - penqei'n - .. 
 “Sei adatto a essere un disgraziato secondo il nome” (508).
Precedentemente, alla fine del primo episodio, Tiresia aveva detto a Penteo:
“Disgraziato! Come non sai quello che dici!
Oramai sei diventato pazzo; e già prima eri uscito di senno” (Baccanti, 358 - 359)
Poi a Cadmo:
“Che Penteo non porti pena - Penqeu;" d j o{pw" mh; pevnqo" eisovsei - nella casa
 tua, Cadmo: non parlo profeticamente,
ma secondo i fatti: poiché quello è folle e dice follie” (Baccanti, 367 - 369).

L’ignoranza della propria identità dunque è la più grave. Talora serve a procrastinare il dolore, aggravandolo, mai a risolverlo
Nell’Edipo re, Tiresia, minacciato da Edipo replica con questo avvertimento maleominoso:
"E dico, poiché mi hai rinfacciato anche la cecità:/tu, pur se guardi fisso, non vedi dove sei nel male/né dove abiti, nè con chi dimori” (vv. 412 - 415).

 La conoscenza di se stesso dunque è un preliminare della felicità ed è un presupposto della definizione e del potenziamento dell’identità: “quella moltiplicazione di noi stessi che è la felicità[2].

I gradini dunque possono essere: conosci te stesso gnw`qi sautovn diventa quello che sei[3], poi accresci quello che sei diventato.
A proposito di “Conosci te stesso”, l’iscrizione di Delfi, sentiamo Platone
Il dialogo Carmide verte sulla swfrosuvnh, e il personaggio Crizia ne dà questa definizione: “ e[gwge aujto; tou'to fhmi ei\nai swfrosuvnhn, to; gignwvskein eJautovn”, io per me affermo che proprio questo sia assennatezza, conoscere se stesso, e tale l’iscrizione (to; toiou'ton gravmma) di Delfi corrisponde a un Cai`re, un salve, un saluto del dio (164d) il quale dice a colui che di volta in volta entra nel tempio: “oujk allo ti h] Swfrovnei”, nient’altro che sii saggio. Infatti Conosci te stesso e Sii saggio sono la stessa cosa “to, ga;r Gnw'qi sautovn kai; to; Swfrovnei e[stin me;n taujtovn” (165a).

Nel dialogo Protagora le scritte delfiche Gnw`qi sautovn, “Conosci te stesso, e Mhde;n a[gan, “Nulla di troppo”, sono esempi di una scuola che ammirava la paideia spartana e ne impiegava lo stile brachilogico. Socrate dice che Lacedemoni e Cretesi fingono di essere ignoranti “schmativzontai ajmaqei'" ei\nai” (342b) ma la loro vera superiorità è la sofiva. La nascondono poiché non vogliono che altri la coltivino. Infatti i laconizzanti in altre città li imitano ammaccandosi le orecchie, avvolgendosi i pugni con strisce di cuoio, facendo spesso esercizi ginnici e portando mantelli corti.
In realtà Cretesi e Lacedemoni praticano cultura di nascosto dagli stranieri, e sono orgogliosi della loro educazione, non solo gli uomini, ma anche le donne. Essi sono ottimamente educati alla filosofia e alle parole: infatti se uno si mette a conversare con il più mediocre dei Lacedemoni, costui può sembrare inetto nel parlare, ma poi, quando sia capitata l’occasione, questo, come un terribile lanciatore di giavellotto, ha già scagliato una frase memorabile, breve e densa di significato “ejnevbalen rJh'ma a[xion lovgou bracu; kai; sunestrammevnon, w{sper deino;" ajkontisthv"” 342e) 





[1] D. Susanetti , Euripide, Baccanti, p. 219.
[2] M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, p. 397.
[3] Gevnoio oi|o" ejssi;, Pindaro, Pitica II, 72.

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