John Strudwick, A Golden Thread |
Gevnoio oi|o~ ejssiv” (Pindaro, Pitica II v. 72), diventa quello che
sei.
Il mito di Er dell’ultimo
libro della Repubblica di Platone ci
ricorda che prima di venire sulla terra ci siamo scelti un daivmwn, che è carattere e destino. Eujdaimoniva, felicità
è, etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn. Se non
ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici e saremo
colpevoli della nostra infelicità: “aijtiva
eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~” (Repubblica, 617e), responsabile è chi ha
fatto la scelta, il dio non lo è.
È quello del resto che
afferma già Omero, attraverso Zeus nel primo canto dell’Odissea:
“Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi!/ da noi infatti dicono
che derivano i mali, ma anzi essi stessi/per la loro stupida scelleratezza
hanno dolori oltre il destino" (vv. 32-34).
Durante la vita terrena "ci resta accanto
un compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il
modello del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al
compimento di quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che
abbiamo dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla
base del suo Codice dell'anima…Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il
dolore: il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi
recalcitriamo"[1].
"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un
daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può
trasmettere un effetto di felicità all'anima"[2].
"Nella natura nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell'uomo
che è sfuggito al suo genio e adesso sbircia a destra e a sinistra, indietro
e ovunque. Alla fine non è più lecito attaccare un tal uomo, perché egli è tutto esteriorità senza
nocciolo, una veste logora, tinta, rigonfia, uno spettro agghindato, che
non può suscitare paura e certo neppure compassione"[3].
"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro
essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[4].
"Molti provavano, per un istante, una penosa
tristezza perché tra la loro vita e i
loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era
affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi:
pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[5].
Per diventare se stessi è necessario prendere le distanze anche dai genitori:
lo insegna il Vangelo di Giovanni nel quale il Cristo dice alla madre: “tiv
ejmoi; kai; soiv, guvnai; - Quid mihi
et tibi mulier?” (2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?
T. Mann commenta queste
parole, da par suo, nel Doctor Faustus: "In fondo, per una madre, il volo di Icaro del figlio
eroe, la sublime avventura virile dell'uomo che non è più sotto la sua
protezione è un'aberrazione tanto
colpevole quanto incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta
mortificazione, le parole lontane e severe: "Donna, io non ti
conosco". E così ella riprende nel suo grembo la povera, cara creatura
caduta e annientata, tutto perdonando e pensando che questa avrebbe fatto
meglio a non staccarsene mai" (p. 691).
Ancora più esplicito è
il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non veni pacem mittere sed gladium.
Veni enim separare
Hominem adversus patrem
suum
Et filiam adversus
matrem suam”
(10, 34-35), non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a
separare l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre.
L’età dell’oro e le
altre
Si
ricordi quanto afferma Esiodo dei bambini ritardati, potenzialmente violenti,
che vivevano fino a cento anni con la madre: mevga nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento
anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un
tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non potevano
astenersi da un’insolente prepotenza reciproca (Opere e giorni, vv
130-135).
Sentiamo
Fromm: “Rimanendo legato alla natura,
alla madre o al padre, l'uomo
riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della
sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della
sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre
vorrebbe diventare un adulto"[6].
Diventare quello che si
è costituisce una forma particolare di virtù: “esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà
assoluta alla nostra natura, al nostro destino e alle nostre inclinazioni”[7].
Cfr. l’eroe cedere nescius.
“Ed ecco apparire la
cosa più sorprendente del dramma vitale: l’uomo
possiede un ampio margine di libertà rispetto al suo io o destino. Può
rifiutarsi di realizzarlo, può essere infedele a se stesso. In questo caso la sua vita è priva di
autenticità…il nostro io è la nostra vocazione. Ebbene, possiamo essere più
o meno fedeli alla nostra vocazione e di conseguenza la nostra vita può essere
più o meno autentica…La cosa di maggior interesse non è la lotta dell’uomo con
il mondo, con il suo destino esterno, ma la lotta dell’uomo con la sua vocazione.
Come si comporta davanti alla sua inesorabile vocazione? Si attiene radicalmente ad essa, oppure, al contrario, la diserta e
riempie la sua esistenza con un surrogato di ciò che sarebbe la sua autentica
vita? Forse l’aspetto più tragico
della condizione umana è che l’uomo
può cercare di soppiantare se stesso, cioè di falsificare la sua vita”[8].
"È forse questo che si
cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza
possibile per diventare se stessi prima di morire"[9].
Cfr. Le memorie di Adriano della Yourcenar.
Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per
tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho
compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con
maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata
concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso"[10].
Altrettanto l’imperatore Giuliano nella commedia di
Ibsen: “E che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso?
L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli
d’argento? O forse ilmelograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante
pietre preziose?”[11].
[1] James Hillman, Il piacere di pensare. conversazione
con Silvia Ronchey, pp. 53-54.
[2] J. Hillman, Il codice dell'anima, p. 112.
[3] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer
come educatore, p. 166.
[4] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p.
42.
[5] H. Hesse, Klein e Wagner,
p. 126.
[6] E. Fromm, La
rivoluzione della speranza, p. 80.
[7] S. Màrai, La recita
di Bolzano, p. 97.
[8] J. Ortega y Gasset, Meditazioni
sulla felicità, p. 198 e p 199.
[9] L. F. Céline, Viaggio
al termine della notte, p. 249.
[10] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, p. 84.
[11] L’imperatore
Giuliano, Atto III, quadro primo.
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