La
parola latina munus che significa “compito”
e “dono” è appunto significativa della reciprocità.
Benveniste segnala il legame (attraverso la radice
indoeuropea *mei-) con mutuus (reciproco): questi termini fanno
parte di " una grande famiglia di parole indoeuropee che, con suffissi
vari, marcano la nozione di reciprocità (…) La radice è l’indoeuropeo *mei- che denota lo scambio, che ha dato
in indoiranico mitra, nome di un dio
(…) Ma il senso di munus,
particolarmente complesso, si sviluppa in due gruppi di termini che indicano da
una parte ‘gratificazione’, dall’altra ‘incarico ufficiale’. Queste nozioni
sono di carattere reciproco, perché implicano un favore ricevuto e l’obbligo
della reciprocità "[1].
Dove non c’è reciprocità c’è l’uso della persona
ridotta a strumento, a oggetto. Il capitalismo esclude la reciprocità nei
rapporti di lavoro: “più l’operaio produce, meno ha da consumare; quanto più
valore egli crea, tanto più diventa privo di valore e dignità; quanto meglio
formato è il suo prodotto, tanto più l’operaio diventa deforme; quanto più
raffinato è il suo oggetto, tanto più l’operaio diventa rozzo; quanto più
potente è il lavoro, tanto più l’operaio diventa impotente (…) il lavoro
produce bellezza, ma deformità per l’operaio (…) mangiare, bere, procreare ecc.
sono senza dubbio anche funzioni schiettamente umane. Ma nell’astrazione che le
isola dalla restante sfera dell’attività umana e le trasforma in scopi ultimi e
unici sono funzioni bestiali”[2].
Marx ha
sbagliato nel denunciare tale condizione come limitata all’operaio che anzi con
il tempo avrebbe dovuto liberarsene: oggi, 174 anni dopo, tale situazione di
sfruttamento, asservimento, abbrutimento fisico e mentale include anche la
piccola borghesia.
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