illustrazione risalente al 1474 di Circe e Odisseo con i compagni trasformati in animali |
L’età
del ferro nel primo libro delle Metamorfosi di
Ovidio
21
versi tradotti e commentati
Durante
l'ultima età dunque, quella del metallo più vile, ogni
infamia irruppe nel genere umano: " omne
nefas, fugitque pudor verumque
fidesque;/in quorum subiere locum fraudesque dolusque/insidiaeque et
vis et amor sceleratus habendi. /vela dabat ventis (nec adhuc bene
noverat illos)/ navita, quaeque diu steterant in montibus
altis/fluctibus ignotis exsultavere carinae; /communemque prius ceu
lumina solis et auras/cautus humum longo signavit limite mensor./nec
tantum segetes alimentaque debita dives/ pascebatur humus, sed itum
est in viscera terrae/quasque recondiderat Stygiisque admoverat
umbris/effodiuntur opes, inritamenta malorum;/ iamque nocens ferrum
ferroque nocentius aurum/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat
utroque,/sanguineaque manu crepitantia concutit arma./ Vivitur
ex rapto; non hospes ab hospite tutus,/non socer a genero, fratrum
quoque gratia rara est./Imminet exitio vir coniugis, illa
mariti;/lurida terribiles miscent aconita novercae;/filius ante diem
patrios inquirit in annos./Victa iacet pietas, et Virgo caede
madentis,/ultima caelestum, terras Astraea reliquit"
(Metamorfosi, I, 129-150) e fuggì il pudore la sincerità, la
fiducia; e al posto di questi valori subentrarono le frodi, gli
inganni, le insidie e la violenza e l'amore criminale del possesso.
Dava le vele ai venti senza ancora conoscerli bene, il marinaio, e le
chiglie che a lungo erano state dritte sugli alti monti saltarono sui
flutti non conosciuti, e la terra, prima di tutti come la luce del
sole e l’aria, segnò con un lungo confine il misuratore guardingo.
E alla terra ricca non si richiedevano soltanto le messi e il
sostentamento dovuto, ma si entrò nelle viscere del globo e le
risorse che aveva nascosto e riposto tra le ombre del fiume
dell’odio, si estraggono , stimolo dei mali; e già il
ferro funesto e, più funesto del ferro, l'oro era venuto alla luce :
venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con l'altro, e
con mano sanguinaria scuote ordigni che scoppiano. Si vive
di rapina; l'ospite non è al riparo dall'ospite, non il suocero dal
genero, anche l'accordo tra fratelli è poco frequente. Il marito
minaccia di rovina la moglie, questa il marito; mescolano squallide
pozioni velenose le terrificanti matrigne; il figlio scruta la morte
anzi tempo negli anni del padre. Giace sconfitta la carità e la
Vergine Astrèa, ultima dei celesti, ha lasciato le terre sporche di
strage.
Pudor v.
129. Il pudore è considerato già
da Esiodo uno dei pilastri del vivere umano e civile:
nelle Opere il poeta afferma che nell'ultima
fase dell' empia età ferrea gli uomini nasceranno con le tempie
bianche (poliokrovtafoi, v.
181) oltraggeranno i genitori che invecchiano, useranno il diritto
del più forte, la giustizia starà nelle mani (divkh
d j ejn cersiv , v. 192) e se ne
andranno Cavri" ,
Gratitudine, Aijdwv" Rispetto
e Pudore, Nevmesi" ,
lo Sdegno; quindi non vi sarà più scampo dal male
"kakou' d j oujk
e[ssetai ajlkhv" (v. 201).
Altrettanta
forza, se non anche di più, ha il Pudore nella cultura latina.
"Pudor è
il senso morale per cui si prova scrupolo e ripugnanza davanti a
tutto ciò che nega i valori morali e religiosi. E' affine
all' aijdwv" dei
Greci, ma ha vitalità molto maggiore: la Pudicitia era
una divinità oggetto di un culto importante; al culto
della Pudicitia
patricia la
plebe aveva affiancato e contrapposto un culto della Pudicitia
plebeia "[1].
Fides v.
129. Altro valore di base della civiltà latina. Cicerone nel De
officiis (del 44 a. C.) dà una definizione
della fides " Fundamentum autem est
iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et
veritas " (I, 23), orbene la fides è
il fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità
delle parole e dei patti convenuti.
Amor
sceleratus habendi v. 131. Virgilio
nell'Eneide vede
la brama dell'oro come motore di efferati delitti e ricorda quello
del barbaro re tracio:" Polydorum
obtruncat et auro/ vi potitur. Quid non mortalia pectora cogis ,
/auri sacra fames! ", massacra
Polidoro e con violenza si impossessa dell'oro. A cosa non spingi i
cuori umani, maledetta fame dell'oro! (III, 55-57).
Seneca
nel De ira ricorda
che i re incrudeliscono, compiono rapine e distruggono città
costruite con lunga fatica di secoli per cercare oro e argento dentro
le ceneri delle città:"reges
saeviunt rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas
evertunt ut aurum argentumque in cinere urbium scrutentur "
(III, 33, 1).
Anche
il Satyricon è
ricco di anatemi del denaro:"quid
faciant leges, ubi sola pecunia regnat? ",
cosa possono fare le leggi dove comandano solo i quattrini? (14), e,
più avanti :"noli
ergo mirari, si pictura defecit, cum omnibus dis hominibusque
formosior videatur massa auri, quam quicquid Apelles Phidiasque,
Graeculi delirantes, fecerunt "
(88), non devi dunque stupirti se la pittura è morta, dato che a
tutti, dèi e uomini, sembra più attraente un mucchio d'oro di
quello che fecero Apelle e Fidia, Grechetti matti.
Dante biasima
Firenze, tra l'altro, poiché "produce e spande il maladetto
fiore/ch'a disviate le pecore e li agni,/però che fatto ha lupo del
pastore"[2]. Si
tratta ovviamente del fiorino.
Shakespeare nel Timone
d'Atene (IV,
3) chiama l'oro yellow
slave-
schiavo giallo- che metterà insieme e spezzerà religioni, benedirà
i maledetti, farà adorare la lebbra canuta, place
thieves,
darà dei posti ai ladri, e assegnerà loro delle cariche, e applausi
nei banchi del senato”, " common
whore of mankind”,
comune bagascia del genere umano, che semina discordie tra la
marmaglia delle nazioni.
C. Marx ne
i Manoscritti economico-filosofici del 1844 ,
commenta il drammaturgo inglese dicendo che nel denaro rileva
soprattutto due caratteristiche:
"1
) la divinità visibile, la trasformazione di tutte le
caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione
universale e l'universale rovesciamento delle cose. Esso fonde
insieme le cose impossibili;
2)
è la meretrice universale, la mezzana universale degli uomini e dei
popoli”
Poi:
“il denaro è il mezzo universale e il potere universale di ridurre
la rappresentazione a realtà e la realtà a rappresentazione (…)
Chi può comprare il coraggio, è coraggioso anche se vile”.
Il
denaro “è la fusione delle cose impossibili; esso costringe gli
oggetti contraddittori a baciarsi. Se presupponi l’uomo come uomo e
il suo rapporto con il mondo come un rapporto umano, potrai scambiare
amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia ecc. Se vuoi
godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se
vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un
uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli
realmente (…) Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza,
cioè se il tuo amore non produce una corrispondenza d’amore, se
nella tua manifestazione
vitale di
uomo amante non fai di te stesso un uomo
amato,
il tuo amore è impotente, è un’infelicità”[3].
Leopardi in Il
pensiero dominante condanna l’ossessione dell’utile
da parte della sua età "superba,/ che di vote speranze si
nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util
chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede"(vv.
59-64).
Ancora
più duramente si esprime nei confronti del lucro il poeta
di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi :"
anzi coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico
mar (...) sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di
pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate
canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni"(vv. 61-67).
Vela
dabat ventis (132)
Seneca attraverso
il secondo coro della Medea maledice la
navigazione come attività troppo audace per l'uomo:" Audax
nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque
suas post terga videns/animam levibus credidit auris… "
(vv. 301-304), audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto
fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle la sua terra affidò
la vita ai venti incostanti. Il primo a violare il mare è stato
Giasone la cui audacia e perfidia ha trovato degni antagonisti
nei freta perfida.
Nella Tebaide di
Stazio c’è un ricordo dell’audacia del navigare: audace è
l’abete (audax abies, VI, 104) che in questo
contesto però viene abbattuto con altri alberi per la colossale pira
funebre del piccolo Archemoro ucciso da un serpente. Allora vennero
istituiti i giochi Nemei. Il taglio del bosco fa comunque piangere la
terra: “dat gemitum tellus” (v. 107) e fuggire le divinità
silvane. Uno scempio del genere si ha quando un comandante concede il
saccheggio ai soldati vincitori i quali abbattono e portano via tutto
senza freno con un fragore più grande di quando combattevano:
“immodici, minor ille fragor quo bella gerebant” (v. 117).
Nell’Achilleide di
Stazio, Tetide, in ansia per la sorte di Achille, rinfaccia a Nettuno
di avere aperto la disgraziata distesa marina a usi criminali: “Eunt
tutis terrarum crimina velis,/ex quo iura freti maiestatemque
repostam/rupit Iasonia puppis Pagasaea rapina” (vv. 63-65),
veleggiano sicuri i delitti delle terre, da quando la poppa di Pagase
ha violato con la rapina di Giasone i diritti del mare e la sua
remota maestà.
Il
delitto successivo (aliud scelus, v. 66) che inquieta Tetide è
il ratto di Elena da parte di Paride: porterà infatti Achille alla
morte che la madre tenta di scongiurare, invano.
Ma
torniamo alla Medea di Seneca:"dubioque
secans aequora cursu,/potuit tenui fidere ligno,/inter vitae
mortisque vias/nimium gracili limite ducto" (305-308), e
fendendo gli spazi marini con rotta infida, fu capace di affidarsi a
un legno debole guidato sul confine troppo sottile tra le vie della
vita e della morte.
Insomma
questo Coro della Medea situa l'età edenica nel
passato antecedente l'impresa di Argo:"Candida nostri saecula
patres/videre, procul fraude remota./Sua quisque piger litora
tangens,/patrioque senex factus in arvo,/parvo dives, nisi quas
tulerat/natale solum, non norat opes./Bene dissaepti foedera
mundi/traxit in unum Thessala pinus,/iussitque pati verbera
pontum;/partemque metus fieri nostri/mare sepositum" (vv.
328-338), secoli immacolati videro i nostri padri, tenuta lontano la
frode. Ciascuno tenendo pigro i suoi lidi e divenuto
vecchio nel campo paterno, ricco con poco, non conosceva ricchezze se
non quelle prodotte dal suolo natale. La nave Tessala unificò le
regole del cosmo ben diviso in parti, e ordinò che il ponto patisse
le frustate dei remi; e che il mare già separato divenisse parte
della nostra paura.
Il
terzo coro di questa
tragedia, con l’ultima strofe saffica, consiglia "vade,
qua tutum populo priori;/rumpe nec sacro, violente, sancta/foedera
mundi! "
( Medea,
vv. 605-606), procedi per dove il cammino è stato sicuro alla gente
di prima; e non spezzare con violenza le sacrosante regole del mondo.
Quindi
i coreuti Corinzi procedono con questo avvertimento:"Quisquis
audacis tetigit carinae/nobiles remos nemorisque sacri/Pelion
densa spoliavit umbra,/ quisquis intravit scopulos vagantes/et
tot emensus pelagi labores/barbara funem religavit ora/raptor externi
rediturus auri,/exitu diro temerata ponti/iura piavit./Exigit poenas
mare provocatum "
( Medea,
vv. 607-616), tutti quelli che toccarono i remi famosi della nave
audace, e spogliarono il Pelio dell'ombra densa della foresta
sacra[4];
chiunque passò tra gli scogli vaganti e, attraversati tanti travagli
del mare, gettò l'ancora su una barbara spiaggia, per tornare
impossessatosi dell'oro straniero, con morte orribile espiò le
violate leggi del mare. Fa pagare il fio il mare provocato.
Alla
fine del coro i Corinzi chiedono agli dèi di graziare Giasone, di
risparmiargli l’exitus dirus, (cfr. v. 614), la
morte orribile degli altri Argonauti, dato che egli è
partito iussus: “Iam satis, divi, mare
vindicastis:/parcite iusso” ( Medea, v. 668-
669).
Quaeque diu steterant (Metamorfosi, I, v. 133). Sono gli alberi abbattuti per costruire le navi. Cfr. il Pelio spogliato dell’ombra nella Medea di Seneca (v. 609 citato sopra). Ricorda anche Monti AL SIGNOR DI MONTGOLFIER
Quando
Giason dal Pelio
spinse
nel mar gli abeti,
e
primo corse a fendere
co'
remi il seno a Teti.
Signavit
limite v.
136. Marx fa derivare il capitalismo proprio da queste
recinzioni del terreno: “Il processo che ha portato alla
separazione dei lavoratori dalla proprietà dei mezzi produttivi
tramite l’espropriazione delle terre comuni, in nome della parola
d’ordune “trasformare i campi in pascoli per pecore”[5],
avvenne in maniera violenta. Furono infatti scacciati con la forza,
tramite l’usurpazione coercitiva, i contadini che, in pieno accordo
con la giurisdizione feudale, occupavano e lavoravano le terre
comuni: le leggi per la recinzione di queste ultime-i
cosiddetti Bills
for Inclosures of Commons-
non fecero altro che fornire una legittimazione formale a quanto, di
fatto, stava già accadendo in opposizione alle legislazione
dell’epoca feudale. Con questi decreti,“per mezzo dei
quali i signori dei fondi regalarono a se stessi, come proprietà
privata, terre del popolo”[6],
viene portato a compimento l’esproprio ai danni delle masse, che
così si trovano prive di tutto ciò che serve loro per sopravvivere
e, dunque, costrette a mettersi in vendita ai proprietari che ora
dispongono in forma esclusiva delle proprietà che un tempo erano
comuni”[7]
Del
resto tale occupazione da parte dei ricchi e potenti era già
avvenuto nella Roma repubblicana con l’occupazione dell’agro
pubblico. I Gracchi si opposero, invano.
Tiberio
Gracco aveva notato l’oppressione dei contadini
Quando
parlava diceva che le bestie hanno una tana, mentre chi combatte per
l’Italia ha solo l’aria. Eppure i comandanti chiedono loro di
combattere per il proprio focolare e per le tombe degli avi. Di fatto
combattono per difendere il lusso altrui. Vengono chiamati padroni
del mondo e non hanno nemmeno una zolla di terra (Plutarco, Vita
di Tiberio, 9). I territori conquistati venivano occupati
dai ricchi e fatti lavorare dagli schiavi.
Nocens
ferrum (Metamorfosi, I, v. 141 E' un topos
antitecnologico che risale a Erodoto :"il
ferro fu inventato per il male dell'uomo" (ejpi;
kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai", Storie,
I, 68).
Euripide
nelle Fenicie attribuisce
alla strage un cuore di ferro:"sidarovfrwn…fovno" "
(vv. 672-673).
Nocentius
aurum (v. 141). Si può pensare a quello nero: il petrolio
per il quale si è versato tanto sangue. Che il ferro e
l'oro creino discordia tra gli uomini portando
differenziazioni economiche e sociali lo afferma anche
Platone nelle Leggi (679b).
Fratrunm
quoque gratia (v.
145). Lucrezio afferma che gli uomini, credendo di sfuggire al
terrore della morte, gonfiano gli averi col sangue civile, e
ammassano avidi le ricchezze, accumulando strage su strage, godono
crudeli dei tristi lutti fraterni, e odiano e temono le mense
dei consanguinei "et
consanguineum mensas odere timentque "
(De
rerum natura ,
III, 73).
Astraea v.
150. Dea della Giustizia
Pesaro 4
settembre 2019
Giovanni
ghiselli
[3] Terzo
manoscritto, pagine finali
[4] Si
noti l’oltraggio all’ambiente. Anche
nella Tebaide di
Stazio la terra soffre il disboscamento dovuto alla costruzione di
una pila colossale per il piccolo Ofelte: “ dat gemitum
tellus”(VI,
107), ne piange la terra. Pale, dea dei campi e Silvano signore
dell’ombra della foresta (arbiter
umbrae,
v. 111) abbandonano piangendo i cari luoghi del loro riposo
(linquunt
flentes dilecta locorum/otia, vv.
110-111), mentre le Ninfe abbracciate ai tronchi degli alberi e non
vogliono lasciarli: “nec
amplexae dimittunt robora Nymphae”
(v. 113).
Nell’Achilleide Stazio
ricorda che la costruzione della flotta necessaria alla guerra
contro Troia spogliò delle loro ombre i monti e li rimpicciolì:
“Nusquam umbrae veteres:
minor Othrys et ardua sidunt/ Taygeta, exuti viderunt aëra
montes./Iam natat omne nemus” (I,
426-428), in nessun luogo le antiche ombre: è più piccolo l’Otris
e si abbassa l’erto Taigeto, e i monti spogliati videro l’aria.
Oramai ogni monte galleggia.
L’Otris
è una catena montuosa della Tessaglia; il Taigeto, si sa, è la
montagna che sovrasta Sparta. Chi scrive l’ha scalata da Kalamata
alla cima (km 33, 12) in bicicletta in 2 ore, 14 minuti e 27
secondi, alla media di 14, 7 Km all’ora. All’età di 62 anni e 8
mesi.
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