Conclusione del percorso sulla GIOIA che ppotete trovare pubblicato qui tra maggio e giugno 2019
La difficile e pericolosa felicità della solitudine
La difficile e pericolosa felicità della solitudine
La “feroce gioia” di essere
solo
Nella commedia di Menandro, Dyskolos, l’anziano
protagonista Cnemone è diventato misantropo - Knhvmwn,
ajpanqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra (v. 6), un uomo che si è escluso del tutto dagli uomini, uno proprio
disumano, constatando l’opportunismo e l’egoismo della gente la cui presenza
gli è diventata insopportabile.
Quando Sostrato, il ragazzo innamorato della figlia del vecchio, si
avvicina per parlargli lo sente gridare:
"quanto era beato Perseo per
due ragioni:
poiché aveva le ali
e non si incontrava con nessuno di quelli che
camminano per terra,
poi perché possedeva un arnese con il quale
trasformava in pietre tutti gli scocciatori" (153 - 157).
Si ricorderà che Perseo aveva sandali alati e che impietrava i nemici con
la testa della Gorgone.
Cnemone vorrebbe essere come quel figlio di Zeus:
"Cosa che vorrei capitasse
pure a me! Non ci sarebbe niente di più
abbondante
che le statue di pietra da tutte le parti!" (157 - 159).
Il vecchio insomma non sopporta di vedere la gente né di sentirla parlare:
"Non si può più vivere, per
Asclepio.
Mettono piede nel mio podere e fanno chiacchiere
(“lalou's j”) (vv. 160 - 161).
Questo misantropo, quando vede Sostrato davanti alla porta di casa, invoca
il suo bene supremo: "non è
possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!" (“ejrhmiva"
oujk e[stin oujdamou' tucei'n”, Duvskolo", v.169).
Nel corso della commedia però Cnemone capisce che l’autarchia cui aspirava
non è possibile, e, arrivato - come certi personaggi della tragedia - a capire
attraverso la sofferenza, dà una spiegazione della genesi del proprio
isolamento volontario che lo ha fatto diventare un intollerante e sordido
anacoreta.
"In una cosa probabilmente ho
sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino,
uno che ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro
calcoli (tou;" logismouv")
e l'attenzione che hanno per il profitto (pro;" to;
kerdaivnein). Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno benevolo con un altro.
Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia[2] con
fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo
nobilissimo[3]: infatti
ha salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, nè lo aiutavo mai
in alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con
gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci
avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un
piacere?
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e
quello che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a
te:
procurale un marito. Io, anche se fossi del tutto
sano,
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi
piacerebbe mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come
voglio (zh'n eja'q j wJ" bouvlomai)" (vv. 713
- 735).
Nella tragedia di Sofocle Filottete il protagonista invece
depreca senz’altro la propria solitudine coatta e desolata: abbandonato su
un'isola deserta, lamenta di essere movno" (v. 227), e[rhmo" (…) ka[filo" (v. 228) solo, abbandonato e senza amici.
Kierkegaard in Enten Eller, nota che" il mondo antico non
aveva la soggettività riflessa in sé. Benché si muovesse liberamente,
l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato,
nella famiglia, nel fato (…) La riflessione di Filottete non si sprofonda in se
stessa, ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno sia a conoscenza
del suo dolore. Si ha qui una grande verità, e proprio qui si vede anche la
differenza con il vero e proprio dolore riflessivo, che sempre desidera d'esser
solo con il suo dolore, e che nella solitudine di questo dolore cerca sempre un
nuovo dolore"[5].
Vediamo il misantropo Timone
Plutarco nella Vita di Alcibiade (16) racconta che Tivmwn oJ misavnqrwpo~ , imbattutosi un giorno in Alcibiade che tornava dall’assemblea
popolare soddisfatto per un successo, non lo scansò come era solito fare con
gli altri, ma anzi gli andò incontro, gli strinse la destra e gli disse: “fai
bene ragazzo a crescere in potenza: mevga ga;r au[xei kako;n a{pasi
touvtoi~, poiché
accresci di molto il male a tutti questi.
Nel Timone d'Atene (1607) di
Shakespeare il protagonista
diventato misantropo per l’ingratitudine umana dice: All’s obliquy; - there
is nothing level in our cursed natures - but direct villainy. Therefore be
abhorred - all feasts, societies, and throngs of men - His semblable yea
himself, Timon disdains - Destruction fang mankind. IV, 3, 18 -
24), tutto è storto, non c’è niente di diritto nella nostra natura maledetta,
se non la malvagità diretta al male. Perciò sono da detestare tutte le feste,
compagnie e folle di uomini. Timone disprezza il suo simile, anzi se stesso.
Che la distruzione azzanni l’umanità.
La condanna alla solitudine è deprecata da Filottete; la scelta della
solitudine viene condannata come disumana da Omero (nell’episodio del Ciclope)
a Menandro.
Tucidide fa dire a Pericle nel logos epitafios:
“movnoi ga;r tovn te mhde;n tw`nde
metevconta oujk ajpravgmona,
ajllÆ ajcrei`on
nomivzomen” (II, 40,
2) solo noi infatti consideriamo non pacifico, ma inutile chi non prende
parte a questa vita politica.
Più avanti però, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la
trasformazione delle persone in "turba ", folla
fastidiosa e fuorviante, diventerà non solo dignitosa ma necessaria.
Prendiamo Seneca che
tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia omicidi veri e
propri, commenta:" avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo
vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui ", torno a
casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano
proprio perché sono stato in mezzo agli uomini (Ep. 7, 3). Il consiglio
allora è:"recede in te ipse quantum potes ",
rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “Seneca
Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge
multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca
saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i
pochi, evita anche uno solo.
Parere simile in Nietzsche:
“c'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e
solamente sofferto per la moltitudine”[6]. Poi: “ogni compagnia è cattiva, ad
eccezione di quella con i propri simili”[7].
Des Esseintess di Huysmans desidera la lontananza dalla “sconcia folla”.
“Non meno d’un eremita, egli era maturo per l’isolamento, affranto
dalla vita, più nulla attendeva da essa. Non meno d’un monaco, sentiva
un’immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più
nulla in comune col prossimo: composto, ai suoi occhi, di profittatori e
d’imbecilli. Insomma (…) nutriva una vera simpatia per il frate che si chiude
in un convento, per il monaco perseguitato da un’astiosa società che non gli
perdona né il sacrosanto disprezzo che egli ha per essa, né la volontà ch’egli
professa di riscattare, d’espiare col silenzio la sempre crescente
sfacciataggine dei suoi vaniloqui stupidi e assurdi”.[8]
C. Pavese scrive: "Maturità
è l'isolamento che basta a se stesso" (Il mestiere di vivere, 8
dicembre 1938). E più avanti (15 ottobre, 1940): "Ci sono servi e padroni,
non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli". E
infine (25 aprile 1946): "Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria,
andate le compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio di essere solo. E'
l'unico vero bene quotidiano".
E' pur vero che questo nostro autore si uccise il 18 agosto del 1950.
[2] Il figlio di primo letto della moglie. I due avevano lasciato Cnemone che
era rimasto con la figlia e una vecchia serva
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