Pericle, principe di Tiro (Accademia Nazionale d'Arte Drammatica “Silvio d'Amico”) |
All’inizio del terzo episodio dell’Elettra di Sofocle entra in scena Crisotemi portando alla sorella la notizia che Oreste è vivo: “ uJf j hjdonh'" toi, filtavth, diwvkomai - to; kovsmion meqei'sa, su;n tavcei molei'n” (vv. 871 - 872), dalla gioia sono spinta carissima a venire di corsa trascurando il decoro. Quindi la ragazza ribadisce: fevrw ga;r hJdonav" (872).
Elettra
ribatte dicendo alla sorella che non può certo trovare un aiuto contro le
sventure delle quali non è possibile vedere un rimedio ( i[asin, 876).
Ma Crisotemi
insiste: “ pavrest j jOrevsth" hJmi'n i[sqi tou't j ejmou' -
kluvous j ejnargw'" , w[sper eijsora'" ejmev (877 - 878), Oreste è qui da noi, ora che mi
ascolti sappilo con chiarezza come mi vedi.
Ha visto sul
sepolcro del padre una ciocca di capelli tagliata da poco - newvrh
bovstrucon tetmhmevnon (901)
ed è sicura che quell’offerta è di Oreste. E’ un indizio di chiara evidenza,
sufficiente ad autorizzare una congettura, un eijkasmov" capace di anticipare una
conoscenza che suscita felicità.
Nello Ione di
Euripide c’è l’ajnagnwvrisi" fra il trovatello custode del tempio di Delfi e sua
madre Creusa che lo ebbe in seguito a una violenza subita da Apollo. Ognuno dei
due meditava di uccidere l’altro, ma poi si riconoscono attraverso gli oggetti
della cesta dove il neonato era stato posto e lasciato.
Allora il
ragazzo dice alla madre trovata: “w\ filtavth moi mh'ter,
a[smenov" s j ijdw;n - pro;" ajsmevna" pevptwka sa;"
parhivda"” (1437 - 1438),
o madre mia carissima, sono felice di vederti e mi getto sulle tue guance
felici.
Creusa
chiama Ione figlio, luce per una madre più fulgida di quella del sole - w\ tevknon , w\
fw'" mhtri; krei'sson hJlivou (1440) - , poi domanda: “ povqen moi - sunevkurs
j ajdovkhto" hJdonav povqen - ejlavbomen caravn;” (1447 - 1449) da dove mi è
capitata questa felicità inattesa? Da dove abbiamo preso la gioia?
Seguono
delle perplessità da parte di Ione, ma alla fine, una fine lieta, compare
Atena, dea ex machina, la quale convince Ione, saluta lui e Creusa,
quindi annuncia un destino di gioia dopo questo sollievo dai travagli - “kai; caivret j
: ejk ga;r th'sd j ajnayuch'" povnwn - eujdaivmon j povtmon ejxaggevllomai ”(1604 - 1605)
L’ultima
parola di questa lunga tragedia la dice il coro delle ancelle di Creusa le
quali universalizzano il lieto fine della vicenda affermando che anche quando
sulla casa si abbattono eventi negativi bisogna venerare gli dèi e avere
coraggio, siccome alla fine i buoni ottengono quanto hanno meritato e i malvagi,
secondo la loro natura non saranno mai felici:
“ej"
tevlo" ga;r oij me;n ejsqloi; tugcavnousin ajxivwn,
oiJ kaloi; d j w{sper pefuvkas j, ou[pot j eu\ pravxeian a[n” (vv. 1621 - 1622).
Questi versi
smentiscono la taccia di assoluta empietà attribuita a Euripide[1].
Un altro riconoscimento che procura gioia si
trova nella Ifigenia fra i Tauri. Qui i fratelli si riconoscono
dalla lettura di una tavoletta che Pilade deve portare a Micene e Ifigenia, per
timore che lo scritto vada perduto, legge a lui e al fratello non ancora
riconosciuto. Ne consegue l’ajnagnwvrisi" e la gioia: prima quella di Oreste - “ej"
tevryin ei\mi, puqovmeno" qaumavst j ejmoiv.” (v. 797) entro nella gioia, venuto a conoscenza di
essere miracolato. Poi, dopo qualche resistenza, si aggiunge la gioia di
Ifigenia cui il figlio di Agamennone ha dato prove inconfutabili di essere suo
fratello: una gioia strana (a[topon hjdona;n e[labon, w\ filai, 842), accompagnata dalle lacrime
sue e di Oreste.
Nell’Elena ,
che ha una struttura simile all’ Ifigenia fra i Tauri, la
protagonista eponima e Menelao si ritrovano in Egitto, e, superate le
perplessità, si riconoscono con gioia.
Elena dice
che, dopo un tempo interminabile, la gioia adesso è presente “hJ tevryi~ ajrtivw"
pavra” (625).
Menelao
protende le braccia verso di lei e la moglie aggiunge gevghqa (632) gioisco, mentre le
cadono dagli occhi lacrime di felicità cui seguono quelle dell’Atride: "le
lacrime sono la mia gioia: hanno una maggior quantità di piacevolezza che di
dolore"( - ejma; de; carmona; davkrua: plevon e[cei - cavrito"
h] luvpa" (654 - 655).
La gioia dei ritrovamenti e dei riconoscimenti in tre drammi romanzeschi
di Shakespeare
Nel
primo dei drammi romanzeschi (romances) di Shakespeare, Pericle
principe di Tiro (rappresentato nel 1608), il protagonista eponimo
ritrova la figlia Marina e la moglie Taisa credute morte. Nel riconoscere la
ragazza, il padre sente un grande mare di gioia - (great sea of joy) - che
lo assale con tanto impeto da fargli temere che lo anneghi nella sua dolcezza.
Quindi chiama a sé la figlia che, generata da lui in circostanze lontane, dopo
una ventina di anni rigenera il padre e lo fa rinascere dalla gioia (V, i) . La
gioia si rinnova più avanti nel ritrovamento della moglie: Taisa è overjoyed (V,
iii) sopraffatta dalla gioia e Pericle associa di nuovo la felicità al rischio
della sparizione e del dissolvimento: “I may/ melt, and no more be seen”
(V, iii). Infine il marito propone alla sposa ritrovata un abbraccio dove la
morte si intrecci con la vita: “O, come, be buried/a second time within
these arms (V, iii)
Nel V atto
del Cimbelino (del 1610) i riconoscimenti significano il
trionfo della virtù incarnata nella principessa Imogene fuggita dalla reggia
del padre per non sposare l’uomo che volevano imporle, poi travestitasi da
ragazzo, poi caduta in catalessi per un farmaco e creduta morta. Il re di
Britannia eponimo di questo romance ritrova i propri figli
maschi che gli erano stati rapiti da bambini e riconosce la figlia tornata sé
stessa provandone una gioia che quasi lo uccide (the gods do mean to strike
me/to death with mortal joy (V, v 9). Postumo l’uomo che Imogene amava
riamata, ma l’aveva reputata infedele e odiata in seguito a una calunnia,
finalmente viene a sapere come sono andate davvero le cose e riconosce la virtù
di Imogene: “The temple/of virtue was she; yea, and she herself” (V, v).
Tutti questi riconoscimenti sanciscono la vittoria della verità sulla menzogna
e del bene sul male. Alla fine lo sguardo innocente di Imogene lampeggia su
Postumo che getta una luce di gioia su ogni cosa e Cimbelino riassume: “All
o’ erjoy’d”(V, v), tutto è pieno di gioia.
Il racconto
d’inverno (The
winter’s tale, 1611) presenta uno schema analogo. Dalla felicità si passa
al dolore dovuto al non capire, ma poi la sofferenza porta alla comprensione e
riporta la gioia.
Leonte, re
di Sicilia, pazzo di gelosia immotivata, fa chiudere in prigione la moglie
Ermione incinta credendo che sia stata ingravidata dal loro ospite e amico,
Polissene re di Boemia. La donna partorisce una bambina, Perdita, destinata dal
padre a morire, poi anche la madre appare morta e viene custodita in forma di
statua nella casa della buona Paolina mentre il marito di questa, Antigono
porta e abbandona l’infante nella Boemia, quindi viene sbranato da un orso. La
bambina, come diversi piccoli futuri eroi di tanti miti, non muore siccome
viene salvata dai pastori e diventa una splendidissima adolescente. Sedici anni
dopo si reca in Sicilia con il principe di Boemia, Florizel, che la ama
riamato, e viene riconosciuta dal padre da tempo ravveduto e pentito del male
che ha fatto. Il riconoscimento di Perdita viene raccontato da un gentiluomo di
corte invece che recitato dal re e dalla figlia, come succede con i messi delle
tragedie greche.
Il gentleman
riferisce che il re quasi saltava fuori di sé per la gioia di avere ritrovato
la figlia “being ready to leap out of himself for joy of his found daughter”
(V, ii), eppure sentiva ancora il rimorso e il dolore della morte della madre
di Perdita. Ma anche questa viene ritrovata poiché la statua conservata nella
casa dell’amica Paolina un poco alla volta si rianima (come la donna velata
alla fine dell’Alcesti di Euripide). Leonte dichiara a Paolina che
ogni movimento e parola della staua lo rende contento e che non cambierebbe il
piacere di quella follia (the pleasure of that madness, V, iii) con la
pacatezza dei sensi. Paolina dunque procede con il suo rito di resurrezione: “You
perceive she stirs”, come vedete si muove. I numerosi presenti (Leonte,
Polissene, Florizel, Perdita, Camillo il barone siciliano che si era rifugiato
in Boemia per sfuggire alla follia del suo re, nobili e servitori ) non devono
trasalire: “her actions shall be holy as/you hear my spell is lawful”,
V, iii) i suoi atti (di Ermione) saranno sacri e il mio incantesimo è lecito
afferma Paolina. Quindi Ermione e Leonte si abbracciano. Paolina allora dice :
“but it appears she lives,/thought yet she speak not”.
Anche
nell’Alcesti di Euripide - e francamente non so se Shakespeare ne
avesse letto una traduzione come aveva fatto con le Vite di
Plutarco - il marito Admeto viene colpito da una gioia di provenienza
ultraterrena -
“m j ejk qeou'
ti" ejkplhvssei carav” (1125), una
felicità che però potrebbe essere ingannevole (kevrtomo") siccome la donna condotta da
Eracle sta ferma e non parla “e{sthken a[naudo" gunhv”, 1143). Il figlio di Zeus e
Alcmena allora spiega all’ospite che il morto risuscitato deve giungere al
terzo giorno prima che sia tolta al dominio degli dèi infernali, purificata e
possa parlare (Alcesti, 1145 - 1146). Cfr. “Il terzo giorno risuscitò da
morte”.
Anche
Paolina chiede di aspettare un po’ : “mark a little while”. Quindi
ingiunge a Perdita di inginocchiarsi e implorare la benedizione della madre: “fair
madam, kneel/and pray your mother’s blessing”.
E infine a
Ermione: “Turn, good lady/Our Perdita is found”.
Allora
Ermione alla figlia e le dice che, avuta dall’Oracolo la speranza che la sua
bambina non era morta, si era mantenuta viva per assistere a questo finale.
Infine la
ierofante spinge gli illustri vincitori a dividere con tutti la loro esultanza:
“your exultation - Portake to everey one”.
Lo stesso re
di Sicilia le chiede: “Good Paulina,/lead us from hence”, “buona
Paolina, guidaci via di qui dove possiamo interrogarci l’un l’altro con agio e
rispondere, ognuno spiegando la parte che ha recitato in questo ampio
intervallo di tempo, da quando fummo separati. Facci uscire presto”
Sono le
ultime parole del dramma.
[1] Il mito era già stato messo in discussione dalla “pretesa della religione
alla fondatezza storica”. Poi con la tragedia, quella di Eschilo, esso si
risollevò: “Questo mito morente fu afferrato allora dal rinato genio della
musica dionisiaca; e in mano sua esso fiorì ancora una volta, con colori quali
non aveva mai mostrati, con un profumo che suscitava uno struggente
presentimento di un mondo metafisico”. Ma poi giunse Euripide a dargli il colpo
di grazia che aprì la strada a tutti “i beffardi Luciani” dell’antichità: “Che
cosa volevi, empio Euripide, quando cercasti di costringere ancora una volta
questo morente a servirti? Morì tra le tue braccia violente, e allora sentisti
il bisogno di un mito imitato, mascherato, che come la scimmia di Ercole sapeva
oramai soltanto adornarsi con l’antica pompa. E come per te moriva il mito,
moriva per te anche il genio della musica: per quanto tu saccheggiassi con
avide mani tutti i giardini della musica, anche così giungesti solo a una
musica imitata e mascherata. E poiché avevi abbandonato Dioniso, anche Apollo
abbandonò te”. Nietzsche, La nascita della tragedia , capitolo
10.
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