il Gruppo Speleologico del CAI Varese esplora un abisso |
Tutto quello che è degli dei si muove lentamente verso l’incerto e la sorte
svia verso l’ignoto –hj ga;r tuvch parhvgag j ej" to; dusmaqev" - dice la figlia di Agamennone nell’Ifigenia fra i Tauri (476
- 478)
Nelle Troiane di Euripide la regina Ecuba
conclude la rievocazione dei fasti cui è succeduta la rovinosa caduta della sua
vita con queste parole:"tw'n d j eujdaimovnwn - mhdevna nomivzet j eujtucei'n,
pri;n a]n qavnh/ " (vv. 509 - 510), di quelli felici non
considerate buona la sorte di nessuno prima che sia morto.
Più avanti Andromaca fa notare alla suocera che cadere da una condizione
fortunata a una sciagurata significa precipitare in un dolore che rende la vita
peggiore della morte. Dunque Polissena sacrificata sulla tomba di Achille sta
meglio di lei, la vedova di Ettore, costretta a diventare schiava e amante del
figlio dell’assassino di suo marito:
“Ma è meglio
morire che vivere miseramente.
Infatti
nulla soffre chi non ha più percezione dei mali;
mentre chi
ha avuto fortuna poi è caduto nella sventura -
- oJ d’ eujtuchvsa" ej"
to; dustuce;" peswvn -
sente
nell’anima la privazione del precedente benessere. (Troiane, 637 - 640).
Insomma
perde l’identità, cosa peggiore che perdere la vita.
Cfr, Dante: “E quella a me: “Nessun maggior dolore - che ricordarsi
del tempo felice - nella miseria: e ciò sa il tuo dottore” parla Francesca nel
V canto dell’Inferno (vv. 121 - 123, secondo cerchio, quello dei
lussuriosi)
Queste
parole ribadiscono
gli insegnamenti delfici del conoscere, anche attraverso se stessi, la natura
umana, i suoi limiti e pure le sue connessioni con il cosmo, per rifuggire ogni
eccesso, ogni rottura dell'equilibrio e dell'armonia.
Aristofane nella parodo
della Lisistrata echeggia,
attraverso il semicoro dei vecchi, il locus dell’imprevedibilità in chiave
parodica: “h\ povll j a[elpt j e[nestin ejn tw'/
makrw'/ bivw/ " (v. 256) davvero in una lunga vita ci
sono molte cose impreviste. Al punto che le donne "odiose a Euripide e a
tutti gli dèi", come le definisce il corifèo (v. 283) hanno occupato
l'Acropoli e intendono fare lo sciopero del sesso per impedire la continuazione
della guerra. La parola d'ordine lanciata dalla loro "capa"
Lisistrata è :"ajfekteva toivnun ejstivn hJmi'n tou' pevou""(v. 124),
bisogna astenersi dal bischero.
nelle Rane Aristofane fa recitare al
personaggio Euripide i primi due versi della sua Antigone che
non ci è arrivata:" Edipo dapprima era un uomo felice" ( h\n
Oijdivpou" to; prw'ton eujdaivmwn ajnhvr.
1182)... "poi divenne viceversa il più disgraziato dei mortali" (ei\t j ejgevnet
j au\qi" ajqliwvtato" brotw'n (v. 1187).
Ogni giorno infatti è diverso dal precedente.
Nell'Ippolito
il coro sentenzia:" oujk oi\d j o[pw" ei[poim j a]n
eujtucei'n tina - qnhtw'n: ta; ga;r dh; prw't j ajnevstraptai pavlin"(vv. 981 - 982), non so come
potrei dire che alcuno dei mortali sia fortunato: infatti le posizioni più alte
vengono rovesciate.
Nell'Ecuba
la vecchia regina, dopo il sacrificio - assassinio della figlia Polissena
constata la vanità della ricchezza e del potere, quindi conclude:"kei'no"
ojlbiwvtato" , - o{tw/ kat j h\mar tugcavnei mhde;n kakovn"(vv. 627 - 628), il più felice
è quello cui giorno per giorno non tocca nessun male.
In
un'altra cara tragedia di Euripide, l'Andromaca ,
la protagonista eponima sentenzia :"Crh; d j ou[pot j eijpei'n oujdevn j
o[lbion brotw'n - pri;n a]n qanovnto" th;n teleutaivan i[dh/" - o{pw"
peravsa" hJmevran h{xei kavtw"(vv.100 -
102), non si deve mai dire felice nessuno dei mortali/prima di avere visto
l'ultimo giorno/ del defunto, come avendolo passato, andrà laggiù.
Nell'Eracle il
Coro constata che in un attimo il dio ha rovesciato la situazione dell’eroe
vincitore di tanti mostri trasformando in un mostro lui stesso:"tacu; to;n
eujtuch' metevbalen daivmwn - tacu; de; pro;" patro;" tevkn j
ejkpneuvsetai " (vv.
884 - 885), in fretta il demone ha rivoltato un uomo fortunato; in fretta i
figli spireranno per mano del padre.
"Chi
lotta coi mostri deve guardarsi dal diventare un mostro anche lui. E se tu
guarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di
te"[1].
Nell’Alcesti [2] di Euripide Eracle espone una
sua morale che prefigura il carpe diem oraziano[3] come conseguenza di questa
imprevedibilità della vita umana. Dalla constatazione della volubilità della
sorte scaturisce una saggezza che sa godere dell’esistenza durante i giorni
risparmiati dalla sventura.
"tutti gli uomini devono morire/, e non c'è tra i mortali chi sa/ se
vivrà il domani che deve venire/. Il cammino della sorte infatti non si vede
dove procederà/, e non si può insegnare né si può prendere con una tecnica/.
Allora avendo udito e imparato questo da me/, rallegrati, bevi (eu[fraine sauto;n, pi'ne), calcola/
come tua la vita del giorno, il resto della sorte./ Onora anzi in particolare
quella che è la divinità del piacere massimo per i mortali, Cipride che è
infatti una dea benevola " (vv. 782 - 791).
Una sentenza del genere viene pronunciata da Anfitrione che si rivolge ai
vecchi tebani del coro nell’Eracle: “ajll ,j w\ gevronte", smikra;
me;n ta; tou' bivou - tou'ton d j o{pw" h{dista diaperavsate, - ex
hJmevra" ej" nuvkta mh; lupouvmenoi” (503 - 505), via, o vecchi,
piccine sono le cose della vita, attraversatela nel modo più piacevole, senza
affliggervi dal giorno alla notte.
L’Elettra di Euripide si chiude con queste parole del Coro
“Caivrete: cavirein d j o{sti" duvnatai
kai; xuntuciva/ mh; tini kavmnei
qnhtw'n , eujdaivmona pravssei” (1357 - 1359),
state bene: chi può stare bene e non è afflitto per qualche sventura tra i
mortali, è felice.
Nel Thyestes il terzo coro di vecchi micenei approva la
conciliazione offerta da Atreo, non conoscendo le vere intenzioni del tiranno,
e ammonisce i regnanti sulla mutevolezza della sorte: "Nulla sors longa
est: dolor ac voluptas/invicem cedunt; brevior voluptas./Ima permutat levis
hora summis" (vv. 596 - 598), nessuna sorte dura a lungo: il dolore e
il piacere si alternano; più breve è il piacere. Un'ora veloce cambia gli
abissi con le cime.
Questo coro
del Thyestes si chiude ribadendo il topos con altre parole e
applicandolo ai regnanti:"Omne sub regno graviore regnum est;/quem dies
vidit veniens superbum,/hunc dies vidit fugiens iacentem./Nemo confidat nimium
secundis,/nemo desperet meliora lapsis:/miscet haec illis, prohibetque
Clotho/stare fortunam; rotat omne fatum./Nemo tam Divos habuit
faventes,/crastinum ut posset sibi polliceri:/res Deus nostras celeri
citatas/turbine versat" (vv. 612 - 621), ogni regno si trova sotto un
regno più potente; quello che il giorno spuntando ha visto arrogante, questo il
giorno al tramonto lo ha visto steso a terra. Nessuno si fidi troppo dei
successi, nessuno disperi nel meglio di quanto è caduto: mescola il bene e il
male Cloto e non permette alla sorte di stare ferma: fa girare ogni fato.
Nessuno ha avuto gli dèi così favorevoli, da potersi promettere il domani: Dio
fa girare le nostre vicende accelerate da un rapido turbine.
Vediamo
ancora la formulazione del tovpo" dell'imprevedibilità negli
esametri di Ovidio:"Iam stabant Thebae, poteras iam, Cadme,
videri/exilio felix: soceri tibi Marsque Venusque[4]/contigerant;
huc adde genus de coniuge tanta,/tot natas natosque et, pignora cara,
nepotes,/hos quoque iam iuvenes, sed scilicet ultima semper /expectanda dies
hominis, dicique beatus/ante obitum nemo supremaque funera debet"
(Metamorfosi , III, 131 - 137), già era costruita Tebe, e tu Cadmo
potevi sembrare felice nell'esilio: ti erano toccati come suoceri Venere e
Marte; a questo aggiungi tanti figli e figlie dalla moglie di stirpe divina , e
cari pegni, i nipoti, oramai giovani anche loro, ma certo bisogna sempre
aspettare l'ultimo giorno dell'uomo e nessuno può dirsi beato prima dell'ultima
funebre pompa!
La non prevedibilità della vita fa parte non solo della sapienza tragica,
ma anche di quella erodotea: il Solone dello storiografo di Alicarnasso
dichiara a Creso che, essendo la vita umana fatta mediamente di 26250 giorni,
nessuno di questi porta una situazione uguale all'altro, pertanto l'uomo è del tutto
in balìa degli eventi ("pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv" (I, 32, 4). Quindi il saggio ateniese, sebbene abbia visto il re di
Lidia al culmine della sua ricchezza e potenza, non può dire se sia felicissimo
prima di avere avuto la notizia che ha finito bene la vita.
Nelle Leggi di Platone l'Ateniese afferma che "non è cosa
sicura onorare i viventi con encomi e inni prima che uno abbia percorso fino in
fondo tutta la vita e vi abbia posto una bella fine" (802a).
La vita è un'avventura
In
conclusione: la pretesa odierna di assicurarsi dalle sventure è fasulla e non
rende la vita più sicura, né felice.
"Ognuno deve essere pienamente consapevole che la propria vita è
un'avventura anche quando la crede chiusa in una sicurezza da burocrate: ogni destino
umano comporta un'irriducibile incertezza anche nella certezza assoluta, che è
quella della sua morte, poiché se ne ignora la data. Ognuno deve essere
pienamente consapevole di partecipare all'avventura dell'umanità, che è, ormai
con una velocità accelerata, proiettata verso l'ignoto"[5].
Ho insistito su questo tovpo" dandone parecchie testimonianze poiché adesso i più cercano
disperatamente, e risibilmente, di assicurarsi su tutto, da tutto.
[3] Ode I, 11, 8. Do la traduzione di tutta l’Ode: “Tu non chiedere (è un orrore saperlo) quale termine a me, quale/a te
abbiano assegnato gli dèi, Leuconoe, e non provare/i calcoli astrologici. Com'è
meglio prendere qualsiasi cosa verrà./Sia che Giove ti abbia assegnato parecchi
inverni, sia questo l'ultimo/che ora sulle opposte scogliere corrose stanca il
mare/Tirreno, sii saggia, filtra il vino, e, siccome lo spazio è breve,/
dai un taglio alla speranza lunga.
Mentre parliamo, sarà fuggito/invidioso il tempo della vita: cogli il dì
presente e al futuro dai credito meno che puoi.
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