La dipartita delle due donne più amate. Qual rugiada o qual pianto...[1]
La
stessa cosa sapevo all’alba del 17 ottobre del 2011, un lunedì,
quando salutai la mamma morente e partii da Pesaro per fare lezione
a Bologna. Sentivo che non le avrei più viste per chissà quanto
tempo e comprendevo che era bene così. Elena non poteva trapiantarsi
in Italia: non avrebbe avuto di che riempirsi la vita standomi a
fianco senza un lavoro suo. Pensando a questo, non piansi. Anzi, la
guardai con occhi pieni di riconoscenza, grato alla vita di avermela
fatta incontrare, a lei di avermi accolto, di avermi donato un mese
di gioia.
La
mamma novantottenne aveva avuto una serie di ictus da aprile in
avanti e non ne poteva più di soffrire. Aveva smesso di mangiare da
due settimane.
Dopo
la prima settimana le avevo detto: “mamma mangia, ti prego,
altrimenti muori”
“A
me non dispiace morire” rispose. “Ne ho paura, non credere che
non ne abbia, ma stai sicuro che non mi dispiace”
“Dispiace
moltissimo a me” replicai “io voglio che tu viva!”
“Ti
sembra vita questa?” mi domandò, con intonazione retorica.
Era
stata indipendente e autonoma per oltre novantasette anni e non
sopportava di non esserlo più.
Risposi
soltanto: “a me basta che tu non muoia, mamma”.
“A
me non basta, ma ti ringrazio” concluse. Era contenta che io ci
tenessi tanto alla sua sopravvivenza, ma non se la sentiva di
continuare, siccome non era più vita la sua, assistita da due
badanti, una di giorno, l’altra di notte, lei che fino a novantadue
anni andava a fare la spesa in bicicletta e fino a novantacinque non
aveva avuto bisogno di nessuno, nemmeno dei figli. Quando io e mia
sorella la portavamo a cena fuori, le piaceva molto andare al Pesce
azzurro di Fano, era tutta contenta, era felice, ma non era mai lei a
chiederlo.
Una
sera due fratelli, un uomo e una donna sui cinquanta anni, mentre
parlavo con la mamma vezzeggiandola e corteggiandola in quel locale
fanese popolare e per niente volgare, vennero vicino a noi e ci
chiesero se eravamo madre e figlio. In effetti ci assomigliavamo
molto. Quando risposi “sì certo”, il maschio disse: “beato te,
sei molto fortunato. Noi abbiamo perso la mamma da adolescenti”. Li
ringraziammo e ne fummo felici. La madre mia già ultranovantenne
stava ancora bene. Poi nel 2011 si ammalò.
Una
vita priva di autonomia non era vita per tale donna nobile e antica,
non
le si addiceva.
Come
non sarebbe stata confacente a Helena la vita che poteva fare in
Italia.
Volere
ancora con me le due donne benedette sarebbe stato egoismo mio.
A
tutte due sono grato: una mi ha dato la vita e mi ha sostenuto fino a
che ne ho avuto bisogno, l’altra mi ha reso più felice, più
sicuro, più bello nell’aspetto, e più buono nell’anima.
Martedì
pomeriggio, quando dopo la scuola tornai da Bologna a Pesaro,
la
mamma era morta da un paio di ore. Per lei invece ho pianto e mi
succede di piangere ancora: con lei ho smarrito una parte grande
della mia stessa vita, del corpo mio addirittura. Mi consolai, mi
consolo pensando di ritrovarla. Già la ritrovo dentro me stesso.
Ogni tanto mi guardo allo specchio e dico alla mia faccia che mi
guarda: “tu sei la mamma!”.
La
baciai sulle labbra, cosa che non avevo mai fatto quando era viva,
nonostante fosse, e sia, la prima delle mie donne, quella che mi ha
partorito e che ho amato più di tutte le altre.
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