madri etrusche |
Le due madri: la mamma etrusca di
Borgo Sansepolcro e la mamma finlandese di Yväskylä
“Ecco la mamma”, pensai.
Digressione su mia madre
E mi venne in mente la mamma mia,
di occhi azzurri e di capelli nerissimi, quando durante il pranzo, bella e
terribile1, mi guardava fissamente, con aria ostile, poiché non le davo retta e
non si sentiva amata abbastanza, o pensava di essere mal giudicata da me, o
posposta alle sorelle sue. Io l’amavo come non ho più amato nessun’altra donna
in vita mia, ma non riuscivo a farglielo capire, e lei si sentiva ingiustamente
sottovalutata in favore delle zie, le sorelle sue, Rina e Giulia, dalle quali
mi rifugiavo poiché, a mia volta mi sentivo meglio capito e più apprezzato da
loro. Quando la Giulia, che come la Rina non aveva figli, mi portava a Moena in
via Damiano chiesa 11, tutti gli agosti degli anni Cinquanta, sentivo la
mancanza della mamma, il desiderio di una cartolina di lei, al punto che ogni
mattina aspettavo il postino, o addirittura gli correvo incontro fino alla
fontana del Turco, sperando di leggere parole sue. Anche solo “Saluti e baci.
Mamma”. Ma queste quasi mai arrivavano, e io aspettavo il giorno seguente, e
agognavo il ritorno a Pesaro per provare di nuovo a piacerle, a conquistarne
l’affetto, la stima, l’ammirazione.
Elena era una mamma, bella e
bruna anche lei, e quella sera del 4 agosto 1971, mentre i crapuloni pieni di
palinke e vini ripetevano quei loro ontosi metri 2 contro le donne, avrei
potuto far pagare a quella femmina gravida le frustrazioni subite dalla mamma
mia quando era indifferente o furente perché non le obbedivo e non si sentiva
amata da me. Elena però non era furente né indifferente, anzi manteneva lo
sguardo buono anche quando era infelice.
La madre mia, solo quando il gran
dispetto le era passato, diventava affettuosa. Allora mi accarezzava i capelli
e diceva: “Pipo, sei bellino, sei buono, a scuola sei il più bravo: io sono
fiera di te. Ho sempre desiderato un figlio così; tu mi ripaghi di una vita
tribolata. Hai occhi grandi e belli, anche se quelli non li hai presi da me: i
tuoi sono color cacca, però si vede lo stesso che sei intelligente. Una volta,
quando eri piccino piccino, avevi forse tre anni, ti portai da un calzolaio.
Gli avevo detto che era troppo caro. Sicché volevo uno sconto e tu, che avevi
capito tutto, per sostenermi, dicesti più volte “brutte ’ca’”, brutte scarpe e
facesti linguacce a quel ciabattino esoso.
Appena hai imparato parlare, hai
dato segni di genio. Mi aspetto molto da te. Vedrai che uomo diventi, vedrai
quanto ti ameranno le donne! Quando mi fai arrabbiare, ti sgrido, talvolta
ti do qualche scapaccione, ti prendo e tiro per la cuticagna quando non
vuoi lasciarti lavare i capelli, ma ti voglio bene lo stesso!”
Allora sentivo che quella donna
mi capiva, mi apprezzava e mi amava. E fuggivo nel bagno per piangere, ma di
consolazione e di gioia, poiché la madre mia contraccambiava il mio
amore.
La mamma era l’unica donna che mi
piaceva del tutto e mi emozionava, perché era bruna, di capelli nerissimi e
occhi colore smeraldo, oppure, secondo la luce, men chiara o più chiara,
azzurri. Aveva l’incarnato sempre brunito dal sole, era ben fatta, snella e
formosa, elegante, ma ancora di più la ammiravo poiché era capace di pensieri
originali, di azioni sue, magari non tutte buone, però sue, non imitate da
altri, e sapeva dare giudizi brevi e acuti su un personaggio, un libro, un film.
Se amo la letteratura e il cinema
con la loro potenza ricreativa, lo devo anche a lei, soprattutto a lei.
Le zie erano state fascistizzate
e pretificate, mi apprezzavano molto come scolaro e ma poco come persona: la
Rina mi chiamava “l’intelligente - deficiente; il nonno beveva, rimpiangeva le
sue numerose ex amanti e le tante gare ciciclistiche vinte; la sorella era
ancora un’infante, la chiamavamo toscanamente “la Citta”, cioè la bambina; la
nonna Margherita gelosa faceva la guerra alla “serva” di casa, una poveretta
scema, brutta e mezza vecchia, ma - “ghiotta per quel porcaccione del tuo
nonnaccio” - diceva. “Cerca di non assomigliargli, anche se ho paura che hai
preso molto da lui”. A me voleva bene però e forse proprio per questo.
E per stornare le corna,
d’inverno sputava nelle fiamme del focolare, in cucina. Mia madre aveva
un’anima: non sempre diritta e lucida invero, ma ce l’aveva. E io per questo
l’amavo, l’amavo come non ho amato mai più, né mai più probabilmente amerò una
femmina umana mortale, e la prendevo sul serio, e volevo correggere le sue
distorsioni con un impegno che non avrei messo nemmeno con le mie figlie
spirituali: mia sorella Margherita, Luciana, Ifigenia, Carlotta, Daniela,
Polina e le altre. Sbagliavo a volerla cambiare e soffrivo quelli che, con la
mia piccola e misera mente dogmatica, consideravo i suoi errori. Non erano
errori. Era la natura sua, una natura non fiacca, quella che mi ha trasmesso
oltretutto, e io gliene sarò grato per sempre.
Quando capivo che anche lei mi
amava, piangevo di gioia; poi mi osservavo a lungo nello specchio, e notavo
quanto le somigliavo nel volto bruno bruno, nell’espressione degli occhi
tagliati a mandorla, seppure di colore assai meno lucente, nel naso pronunciato
in modo nobile e bello. Antichi entrambi. Antica etrusca di Borgo Sansepolcro
era Luisa Martelli come suo padre Carlo. Nell’angolo tra la piazza centrale del
Borgo e via Agio Torto si affaccia ancora un palazzo antico con il loro nome,
sebbene il nonno l’abbia venduto ai Buitoni nel 1945, quando la nonna volle
tornare a Pesaro da dove era fuggita diciottenne, nel 1900, per seguire il suo
grande amore, Carlino appunto.
Nel mio volto vedevo la stessa
irrequietezza della mamma, la sua stessa inquietudine, che volevo rivolgere al
bene, a creare qualcosa di buono, di bello, di grande.
Questo avveniva negli anni
Cinquanta, verso la metà degli anni Cinquanta, quando avevo una decina di anni.
Il 4 agosto del ’71, vicino
oramai ai ventisette, potevo evitare di opprimere una donna che mi aveva
aiutato, risparmiandole un’ingiustizia dolorosa e umiliante. Avevo incontrato
una persona che si era fidata di me, riconoscendo l’uomo tendenzialmente buono
e intelligente che volevo diventare, che forse ora, prossimo ormai ai
settantasei anni, mi avvicino a essere. Non dovevo tradire la sua fiducia. Avevo
bisogno però dell’aiuto di Elena poiché il mio animo, come la testa della mamma
e del nonno, era ambivalente, intermittente, incline alla seduzione attiva e
passiva, allo qumov~ anche distruttivo, seppure
non tanto quanto quello della madre furente e assassina immortalata da
Euripide3.
Nell’ottobre del 2011 la mamma
mia è morta, pochi giorni dopo avere compiuto novantotto anni. Grazie a Dio,
eravamo del tutto pacificati e armonizzati noi due, da tanto tempo oramai. Ci
eravamo riconosciuti. Ci fidavamo completamente l’uno dell’altro. Ci amavamo
molto alla fine. Ne eravamo felici entrambi. La notte del giorno della sua
morte pedalando sulla pista ciclabile tra Pesaro e Fano, l’ho sentita vivere
nelle stelle, nell’innumerevole sorriso delle increspature marine che
riflettevano la luna, una luna crescente piena di luce. Ho sentito la mamma
viva nell’armonia della vita dell’Universo. E ho pianto di dolore ma anche di
gioia, come quando ero un bambino davanti allo specchio. La mamma non era
sparita: era viva nel cosmo e viva dentro di me. Non è uscita dall’Universo la
mamma. Tanto meno è uscita da me, piuttosto è entrata in me. Sono certo che
rimarrà viva, e bella, e buona per sempre. La madre terra è in mezzo alle
stelle e tu mamma, sei dappertutto, sei in quelle lucentissime margherite
celesti, sei nel sole che ci abbronza e ci rende più belli, sei nel vento che
ci accarezza, nelle farfalle che volano sui fiori d’oro che ti piacevano tanto,
negli uccelli dell’aria, nei piccioni e nei passeri cui davi da mangiare ogni
mattina.
Ti ritrovo dovunque, sempre
pronta a darmi il coraggio e la forza di diventare quello che sono, di fare le
cose buone e belle che devo a me stesso e devo a te che mi hai dato la vita.
Quando mi osservo allo specchio,
e vedo nel mio volto, l’impronta del volto tuo, irrequiet e geniale, sussurro:
“Tu sei la mia mamma, tu sei la mia mamma”, e lo bacio. Poi tocco le vene
azzurre della parte interna dell’avambraccio e dico: “questo è sangue tuo
Luisa, io sono uscito dal tuo corpo”.
Ma torniamo all’era di Debrecen,
precisamente alla sera del 4 agosto del 1971, ai miei ventisei anni e otto
mesi.
Diedi retta al mio demone che non
voleva il male della donna pregna, né quello del feto, né il mio. Sarebbe stata
azione non degna di me.
Mi scusai con la ragazzetta
francese che mi salutò citando a sua volta La montagna incantata: “N’oubliez
pas de me rendre mon crayon” 4. Forse era l’incoraggiamento che avevo
cercato. Mi aveva allungato una matita perché le scrivessi un verso di Euripide
che avevo citato e le era piaciuto.
You are quoting from Thomas Mann, le dissi con un sorriso di
approvazione. Avevo riconosciuto l’allieva5. Le restituìi la matita,
la salutai, poi andai in
fretta da Elena che aveva osservato e, probabilmente, compreso.
“Ciao cara, come vanno la salute
e l’umore? ”, le domandai non senza imbarazzo.
“Non bene”, rispose con serietà.
“Ti voglio parlare, ma non qui tra la gente e il chiasso. Andiamo via”. Aveva
visto e capito che ero stato lusingato e attirato dalle moine, le parole e i
vezzi di quella adolescente liscia e fresca come una prugna, spregevolmente da
parte mia, dopo tutti i giuramenti d’amore e di stima impiegati per convincere
lei, la donna di un altro, di uno lontano, a venire a letto con me, l’uomo che
diceva di amarla quanto una persona buona ama la vita.
Le proposi di andare in collegio,
in camera mia, dove si poteva parlare stando seduti e guardandoci in faccia.
Sentivo anche io il bisogno di una spiegazione chiara e completa.
Il collegio era deserto, la camera
vuota. Ci sedemmo sul letto ordinato, e casto, di Fulvio, l’onesto Fulvio.
Nemmeno con se stesso fornicava l’amico innamorato della futura moglie.
“Senti Gianni”, cominciò andando
direttamente al centro della questione, “se la mia presenza ti pesa, io posso
tornare in Finlandia domani”. Aveva gli occhi gonfi, rossi, cerchiati, e l’aria
infelice. Ancora una volta, con la sua capacità di arrivare subito al nocciolo,
con la sua calma, pur nel dolore, mi dava una lezione di intelligenza e di
stile. La guardavo pensando quanto era diversa dalla gente rozza e affettata,
che frequentavo di solito; quanto mi rendeva migliore. Riflettevo, esitavo a
rispondere. Allora si mise a piangere sommessamente. Finalmente parlai. Dissi:
“Elena, non piangere, ti prego, mi dispiace, non piangere. Fammi capire che
cosa ti rende infelice. Io voglio aiutarti”. Si asciugò gli occhi, poi mi
guardò con fermezza e disse: “A me dispiace di essermi lasciata andare ad
amarti troppo presto. Ti ho creduto quando dicevi che ti piacevo, che mi volevi
bene, e mi sono sbagliata”.
“Non ti sei sbagliata”, la
confutai, ma senza la convinzione e la forza necessarie a lenirne la pena.
Allora disse: “Non essere falso
almeno. Ho visto quanto ti attirava la ragazza francese e quanto avresti voluto
essere libero per lasciarti andare con lei. Ebbene, puoi farlo, o puoi
continuare a farlo. Non preoccuparti per me: considerati libero, come se non mi
avessi mai conosciuta; io adesso torno in camera mia e domani sparisco dalla
tua vita. Addio”. E si mosse per andare via.
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1. Cfr. G.
Leopardi, Dialogo della natura e di un islandese.
2. Cfr.
Dante, Inferno, VII, 33.
3. La Medea di
Euripide individua nel suo animo un conflitto tra la passione furente e i
ragionamenti, quindi comprende che l'emotività, sebbene sia causa dei massimi
mali, per gli uomini è più forte dei suoi propositi: " Kai; manqavnw me; n oi\\\a dra'n
mevllw kakav, - qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn, - o{sper megivstwn ai[tio"
kakw'n brotoi'""
(vv. 1078 - 1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei
miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i
mortali", dirà la furente nel quinto episodio dopo avere preso la
decisione folle di uccidere i figli.
4. Sono le
ultime parole, dette in francese da Madame Chauchat, del V capitolo (Notte
di Valpurga)
5. Tre anni più
tardi, nel tempo della storia di Päivi, Josiane mi porterà un fiore con la
dedica “Magister, tibi”. L’ho raccontato nella Storia di Päivi presente
nel blog
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