Menade Farnese |
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Nel terzo Stasimo delle Baccanti le Menadi cantano " to; de; kat j h\mar o{tw/
bivoto" - eujdaivmwn, makarivzw" (vv. 910 - 911), considero beato l'uomo
la cui vita è felice giorno per giorno.
Nell'Ippolito il coro
sentenzia:" oujk oi\d j o{pw" ei[poim j a]n
eujtucei'n tina - qnhtw'n: ta; ga;r dh; prw't j ajnevstraptai pavlin"(vv. 981 - 982),
non so come potrei dire che alcuno dei mortali è fortunato: infatti le
posizioni più alte vengono rovesciate.
Nell'Ecuba la vecchia regina, dopo il sacrificio - assassinio
della figlia Polissena constata la vanità della ricchezza e del potere, quindi
conclude:"kei'no" ojlbiwvtato" , - o}tw//
kat j h\mar tugcavnei mhde;n kakovn"(vv. 627 - 628), il più fortunato è
quello cui giorno per giorno non tocca nessun male.
Negli Eraclidi il
Messaggero che porta la notizia della sconfitta di Euristeo conclude il suo
racconto con questa sentenza derivata dall’insegnamento della sorte del
persecutore abbattuto: “to;n eujtucei'n dokou'nta mh; zhlou'n
pri;n a]n - qanovnt j i[dh/ ti~: wJ~ ejfhvmeroi tuvcai” (vv. 865 - 866), non
si deve invidiare quello che sembra avere successo, prima di averlo visto
morto; poiché le fortune cambiano ogni giorno.
Nelle Troiane
la vedova di Priamo insegna:"nessuno dei felici considerate che sia
fortunato, prima che sia morto"(vv. 509 - 510).
In un'altra cara tragedia di Euripide, l'Andromaca , leggiamo:"Crh;
d j ou[pot j eijpei'n oujdevn j o[lbion brotw'n - pri;n a]n qanovnto" th;n
teleutaivan i[dh/" - o}pw" peravsa" hJmevran h}xei kavtw"(vv.100 - 102), non bisogna dire mai felice uno
dei mortali/prima che tu abbia visto l'ultimo giorno/ del defunto, come, avendolo
passato, andrà laggiù.
Nell'Eracle il
Coro constata che in un attimo il dio ha rovesciato un uomo fortunato, e in un
attimo i figli dell’eroe spireranno per mano del padre:"tacu;
to;n eujtuch' metevbalen daivmwn - tacu; de; pro;" patro;" tevkn j ejkpneuvsetai " (vv. 884 - 885).
Nel primo stasimo dell’Oreste il coro di donne argive sentenzia: oJ
mevga~ o[lbo~ ouj movnimo~ ejn brotoi'~ (v.
340), la grande prosperità non è stabile per i mortali. Nel terzo stasimo le
coreute compiangono le stirpi mortali e le invitano a considerare wJ~
par j ejlpivda~ - moi'ra baivnei (vv. 976 - 977), come il destino procede contro le aspettative. Il dolore tocca ora all’uno ora all’altro in un lungo periodo e
ogni vita di mortali è imponderabile (979 - 981).
Nell’esito dello Ione la
corifea commenta le varie, impreviste vicende del dramma dicendo che quanto di
inopinato capita suggerisce che nessuno degli uomini deve considerare niente
inatteso - mhdei;" dokeivtw mhde;n ajnqrwvpwn pote; - a[elpton
ei\nai pro;" ta; tugcavnonta nu'n (1510 - 1511)
Nel Thyestes di Seneca il terzo coro di
vecchi micenei approva la conciliazione offerta da Atreo, non conoscendo le
vere intenzioni del tiranno, e ammonisce i regnanti sulla mutevolezza della
sorte:"Nulla sors longa est: dolor ac voluptas/invicem cedunt; brevior
voluptas./Ima permutat levis hora summis" (vv. 596 - 598), nessuna
sorte dura a lungo: il dolore e il piacere si alternano; più breve è il
piacere. Un'ora veloce cambia gli abissi con le cime.
La non prevedibilità della
felicità o infelicità della vita fa parte non solo della sapienza tragica, ma anche di quella erodotea: il Solone dello storiografo di Alicarnasso dichiara a
Creso che, essendo la vita umana fatta mediamente di 26250 giorni, nessuno di
questi porta una situazione uguale all'altro, pertanto l'uomo è del tutto in
balìa degli eventi ("pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv" (1, 32, 4). Quindi, sebbene il saggio ateniese abbia
visto che il re di Lidia è ricco e potente, non può dire se sia felicissimo
prima di avere avuto la notizia che ha finito bene la vita. Tucidide viceversa
ha la pretesa di assicurarci, dandoci regole per i fatti che si
ripresenterebbero sempre nello stesso modo.
Mazzarino mette in rilievo un quesito ricorrente nell'opera di Erodoto :" l’unità
dell’opera erodotea è dominata, appunto, da alcuni motivi centrali; motivi che
commuovevano ed esaltavano la pubblica opinione di tutti i Greci. E con questa
trama andranno spiegate le corrispondenze di più ampio respiro, che attraversano
l’opera: il colloquio tra Creso e Solone nel lovgo~ lidio, al quale
fanno eco le parole di Artabano a Serse (VII 46, 3 - 4)[5].
Dall’attuale primo libro, dunque, al settimo si richiama questa domanda
essenziale per il pensiero di Erodoto: “Son felici il ricco e il monarca?
Perché il vivere può preferirsi al morire?”. A questa domanda rispondono i
discorsi tra Creso e Solone, tra Serse e Artabano...anche Anassagora si
sforzava di rispondere alla stessa domanda...secondo Anassagora il dotto
soprattutto era felice"[6].
Nelle Storie di Polibio, Annibale prima della
battaglia di Zama (202 a. C.) parla a Scipione cercando un accordo: io ho
sperimentato come la tuvch sia mutevole, gli dice, e faccia pendere
la bilancia alternatamente da una parte o dall’altra kaqavper
eij nhpivoi~ paisi; crwmevnh (15, 6, 8), come se trattasse con dei bambini
infanti.
Su questa linea anche Platone che
nel Gorgia (470e) fa
dire a Socrate di non sapere se il gran re dei Persiani sia felice poiché non
sa come stia quanto a paideia e a giustizia:"ouj
ga;r oi\da paideiva" o{pw" e[cei kai; dikaiosuvnh" ; quindi, a Polo che lo
incalza, chiedendogli se la felicità consista in questo, risponde che l'uomo e
la donna sono felici quando sono belli e buoni, quando sono ingiusti e malvagi
invece sono infelici.
Nelle Leggi (VII,
802a) più in generale Platone afferma che "non è cosa sicura onorare
i viventi con inni e canti prima che ciascuno abbia percorso fino in fondo
tutta la vita e vi abbia posto una bella fine".
Vediamo ancora la formulazione del tovpo" data da Ovidio:"Iam stabant Thebae,
poteras iam, Cadme, videri/exilio felix: soceri tibi Marsque Venusque[7]…sed
scilicet ultima semper /expectanda dies hominis, dicique beatus/ante obitum
nemo supremaque funera debet" (Metamorfosi , III, 135 - 137), già
era costruita Tebe, e tu Cadmo potevi sembrare felice nell'esilio: avevi come
suoceri Venere e Marte…ma certo bisogna sempre aspettare l'ultimo giorno
dell'uomo e nessuno può dirsi beato prima dell'ultima funebre pompa!
Essere felici secondo Strabone è
un atto di pietas.
Strabone[8] nella sua Geografia[9] afferma che gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma, si
potrebbe dire anche meglio, quando sono felici (" a[meinon
d j a[n levgoi ti", o{tan eujdaimonw'si", Geografia,
X, 3, 9).
Infernale e colpevole allora può essere considerata
l'infelicità:" E' una vergogna essere infelici. E' una vergogna non poter
mostrare a nessuno la propria vita, dover nascondere e dissimulare
qualcosa"[10].
La malattia e la salute
Anche le malattie talora vengono considerate
segno di colpa. Quando il principe Andrej Bolkonskij domanda al padre :"Come va la
vostra salute?", il vecchio risponde:"Mio caro, solo gli stupidi e i
viziosi si ammalano. Tu però mi conosci: dalla mattina alla sera sono occupato,
sobrio, e quindi sano"[11].
T. Mann La montagna incantata
“La malattia porta con sé minorazioni sensorie, deficienze, narcosi
provvidenziali, misure di adattamento e di alleggerimento spirituali e morali
della natura, che il sano ingenuamente dimentica di mettere in conto. L’esempio
migliore era tutta quella marmaglia di malati di petto con la loro leggerezza,
la loro stupidaggine, il loro leggero libertinaggio, e la mancanza di buona
volontà per raggiungere la salute”[12].
La teoria della inumanità della malattia convince Hans Castorp, la cui anima
viene contesa dall’umanista Settembrini che l’ha esposta, e dal suo rivale
Naphta: “Giovanni Castorp trovò la cosa bellissima , interessante, e disse al
signor Settembrini che la sua teoria plastica lo aveva completamente
conquistato. Poiché, si dicesse pure quello che si voleva - e qualcosa si
poteva pur dire; per esempio: che la malattia era uno stato vitale accentuato,
ed aveva quindi in sé qualcosa di festivo, di solenne - si dicesse dunque pure
quello che si voleva, fatto sta che la malattia significava una
superaccentuazione dell’elemento corporeo; essa additava, per così dire,
all’uomo il suo corpo e lo riconduceva, lo respingeva ad esso, pregiudicando la
dignità umana fino al suo annientamento, appunto perché abbassava l’uomo fino a
diventare soltanto corpo. La malattia era dunque inumana”.
Il gesuita naturalmente ribatte e confuta questa teoria: “Naphta replicò
dicendo che la malattia era invece altamente umana; poiché essere uomo
significa essere malato”[13].
Laboriosità e pietas si addicono molto alla salute. In effetti la Salus per
i latini era una divinità, di antica origine italica. Plauto la menziona più
volte (Captivi 529; Poenulus 128).
Le assicurazioni
In conclusione: la pretesa odierna di assicurarsi dalle
sventure è fasulla e non rende la vita più sicura né più sana né felice.
"Ognuno deve essere pienamente consapevole che la
propria vita è un'avventura anche quando la crede chiusa in una sicurezza da
burocrate: ogni destino umano comporta un'irriducibile incertezza anche nella
certezza assoluta, che è quella della sua morte, poiché ne si ignora la data.
Ognuno deve essere pienamente consapevole di partecipare all'avventura
dell'umanità, che è, ormai con una velocità accelerata, proiettata verso
l'ignoto"[14].
“La formula
del poeta greco Euripide, antica di venticinque secoli, è più attuale che mai:
“L’atteso non si compie, all’inatteso si apre la via”. L’abbandono delle
concezioni deterministe della storia umana, che credevano di poter predire il
nostro futuro, l’esame dei grandi eventi del nostro secolo che furono tutti
inattesi, il carattere ormai ignoto dell’avventura umana devono incitarci a
predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso per affrontarlo (…) Non abbiamo ancora
incorporato il messaggio di Euripide: attendersi l’inatteso. La fine del XX
secolo è stata tuttavia propizia, per comprendere l’irrimediabile incertezza
della storia umana. I secoli precedenti hanno sempre creduto in un futuro o
ripetitivo o progressivo. Il XX secolo ha scoperto la perdita del futuro, cioè
la sua imprevedibilità. Questa presa di coscienza deve essere accompagnata da
un’altra, retroattiva e correlativa: quella secondo cui la storia umana è stata
e rimane un’avventura ignota”[15].
Nel Romanzo
di Alessandro (composto in età ellenistica, fra il 300 e il 150
a. C.), l’eroe macedone dice a Nicolao, re degli Acarnani, superbo per la
ricchezza e la fortuna: “mh; ou{tw~ gauriw', Nikovlae basileu', wJ~
iJkano;n e[cwn peri; th'~ au[rion nevcuron zwh'~: hJ tuvch oujc e{sthken ejf j
eJno;~ tovpou, rJoph; de; metabavllei kai; tou;~ ajlazovna~ aujcenivzei” (I, 18, 7), non essere così orgoglioso, re Nicolao,
come se avessi una garanzia sulla vita di domani: la sorte non sta ferma in un
solo luogo, il piatto della bilancia cambia posizione e prende alla gola i
gradassi.
Bologna, 19 marzo 2020 giovanni ghiselli
[5]E’ un momento di “sapienza silenica”: Serse,
invadendo la Grecia, vide l'Ellesponto coperto dalle navi e dapprima si disse
beato (oJ Xevrxh" eJwuto;n ejmakavrise, VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta;
de; tou'to ejdavkruse) al pensiero di quanto è breve la vita
umana. Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò dicendogli che, essendo la
vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile per l'uomo ("ouJvtw"
oJ me;n qavnato" mocqhrh'" ejouvsh" th'" zovh",
katafugh; aiJretwtavth tw'/ ajnqrwvpw/ gevgone",
VII, 46, 4) ndr.
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