La chiusura in casa. Il nuovo monachesimo[1]
Isolarci, non dare la mano, non abbracciare, non baciare insomma
desocializzarci, adesso costituisce una misura necessaria, anche se mi pare
eccessiva la proposta di impedire una corsa in solitudine, di notte. Non mi
sembra rischioso. Lo è molto di più andare in banca o a fare la spesa.
Fare
esercizio fisico è necessario quanto mangiare.
Ma trovo
ripugnante la tesi di molti gravi “ospiti” televisivi addetti a creare
consenso. Secondo costoro questo stare chiusi in casa, invece di andare a
scuola e al lavoro dove trovarci con colleghi e amici, è un effetto collaterale
positivo e benefico, da portare avanti progressivamente anche dopo la minaccia
del virus. E’ un progresso, dicono gli addetti. Lo sarà per chi deve vendere
strumenti sempre più complicati che dovremmo imparare a usare rinunciando a
leggere, a parlare in pubblico e in privato con persone presenti e vive, ad
abbronzarci, all'ascesi corporea, a gareggiare. L’estendersi di questo uso
della tecnologia ridurrà i rapporti umani già molto inficiati dai cellulari. A
chi serve questo? Cui prodest come si diceva una volta? Serve
a chi vuole eliminare gli affetti e la salute tra noi umani. Serve a chi vuole
ridurre sempre più donne uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini, tutti
gli umani insomma, nelle condizioni di un gregge dai cervelli omologati,
una turba lucifugarum, una folla di gente che evita la luce, quella
del sole e quella dei rapporti umani, un branco che
segue gli stereotipi diffusi dalla propaganda mentre vive ciascuno rinchiuso in
un suo spazio, spesso angusto, talora malsano almeno moralmente e intellettualmente
patogeno e morboso.
Pensate solo alla tristezza per gli insegnanti
che non vedono presenti e vivi le ragazze e i ragazzi, i colleghi, le mamme e i
babbi degli allievi, e non possono confrontarsi agevolmente con loro. Perino
nella televsione i collegamenti attraverso skype (si scrive così?) non
funzionano.
Alla
tristezza segue sempre lo squallore.
L’
ossimoro concettuale del gregge degli individui isolati può costituire una
delle conseguenze nefaste di questo veleno. Pensate a questo dopo avere sentito
le bestemmie di chi ci vuole tutti lucifugi, umbratici[2].
giovanni
ghiselli
p.s. Mi
mancano le mie conferenze seguite da domande e discussioni, con la presenza
delle persone attentissime e un po’ meno attente, favorevoli o contrarie a
quanto dicevo. Imparavo sempre dell’altro da loro mentre insegnavo quanto avevo
già imparato.
giovanni
ghiselli
“Processu pelagi iam se
Capraira tollit;
squalet
lucifugis insula plena viris
Ipsi se monachos Graio cognomine
dicunt,
quod soli nullo vivere teste volunt
Munera fortunae metuunt, dum damna
verentur.
Quisquam sponte miser, ne miser esse
queat?
Quaenam perversi rabies tam stulta
cerebri,
dum mala formides, nec bona posse
pati? ( De
reditu , vv. 439 - 448 distici elegiaci, secondo decennio del V
secolo)
traduzione
Gia (vedo) la Capraia (che) si alza
sul mare;
l’isola desolata è piena di uomini
che fuggono la luce.
Costoro si dicono monaci con nome
greco,
poiché vogliono vivere soli senza
alcun testimone.
Temono i doni nella fortuna, mentre
ne paventano i danni.
Vuole essere infelice qualcuno, per
non poterlo essere?
Quale furia di un cervello
stravolto,
mentre si temono i mali, non poter
sopportare i beni?
Già Seneca denuncia la turba
lucifugarum (Ep. 122, 15), la folla di gente che evita la
luce: a una cattiva coscienza la luce riesce molesta Gravis malae
coscientiae lux est (122, 14)
[2] Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque
lyrici Homericis versibus canere timuerunt ”(Satyricon , 2 - 3), non ancora i giovani erano rinchiusi nelle declamazioni, quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare.
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