Prendo spunto da un articolo di Tomaso Montanari : Tieopolo L’ultimo dei giganti (il venerdì
di Repubblica, 27 marzo 2020, pp. 94-97).
Pindaro
chiama l'uomo "sogno di ombra" (skia'" o[nar/a[nqrwpo"", Pitica
VIII, vv. 95-96 ).
Nell'Aiace di Sofocle,
Odisseo esprime la convinzione che l'ombra sia la quintessenza dell'uomo e
manifesta la compassione del poeta per tutte le creature umane cadute sulle
spine della vita:"oJrw'
ga;r hJma'" oujde;n o[nta" a[llo plh;n--ei[dwl j o{soiper zw'men h]
kouvfhn skiavn",
io infatti vedo che non siamo se non immagini quanti viviamo, o inconsistente
ombra (Aiace, vv.125-126).
“Pulvis et umbra
sumus”, polvere e ombra siamo, ricorda Orazio (Odi, IV, 7, v. 16).
Prospero in La tempesta [1]
di Shakespeare afferma:" we are such stuff-as dreams are made on; and
our little life –is rounded with sleep” (IV, 1), noi siamo fatti co,n la
materia dei sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno"( Quindi
il duca si avvia con la mente alla sua Milano "dove un pensiero su tre,
sarà la tomba" (V, 1).
Nel
Macbeth il protagonista dice:"Life's but a walking shadow
" (V, 5), la vita non è che un'ombra che cammina.
Nel Seicento
questa idea va di moda, tanto che Calderòn
de la Barca
intitola il suo capolavoro (del 1635) La
vita è sogno, e, nel corso del dramma (I, 2), scrive:" il delitto
maggiore dell'uomo è essere nato".
Vediamo anche
un sonetto di Pietro Metastasio che
mi viene suggerito da un bell’articolo di Tomaso
Montanari su “il venerdì di Repubblica”
del 27 marzo 2020
Sogni e favole io fingo (1733)
Sogni e favole io fingo; e pure in carte
mentre favole e sogni orno e disegno,in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
che del mal che inventai piango e mi sdegno.
Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,
più saggio io sono? È l’agitato ingegno
forse allor più tranquillo? O forse parte
da più salda cagion, l’amor, lo sdegno?
Ah che non sol quelle, ch’io canto o scrivo
favole son: ma quanto temo o spero,
tutto è menzogna, e delirando io vivo!
Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
fa’ ch’io trovi riposo in sen del Vero.
L’articolo di Montanari è intitolato Tiepolo l’ultimo dei Giganti e accosta il pittore al poeta contemporaneo. Riporto alcune parole dell’autore che si confanno a questa mia breve rassegna del topos “La vita è sogno”
“Tutto è sogno, la realtà stessa lo è: e l’arte, in
un’inversione fatale, rischia di essere l’unica cosa vera. La morale di questo
celebre sonetto di Pietro Metastasio è molto simile a quella del suo
contemporaneo Giovan Battista Tiepolo. Un’arte ineffabile, indecifrabile,
ambigua quella di Tiepolo: come l’espressione delle sue sante, in cui “si legge
chiaramente il dolore … misto con piacere”, come notava il suo amico Francesco
Algarotti, gran conoscitore di pitture. (…) Ha scritto Adriano Mariuz (…) che
Tiepolo ha dipinto “un mondo: un mondo in cui trovano posto mitologia,
allegoria, religione: che proprio allora venivano attaccate dal pensiero del
razionalismo dominante. Egli si è avvalso di quel razionalismo ormai frusto per
affermare, come per sfida, i diritti della fantasia: per celebrare i poteri
dell’arte, che nella sua sfera accoglie quanto sta per essere travolto dai
tempi, rifiutato dalla storia. Dalla grande deriva del Barocco, Tiepolo ha
suscitato la visione luminosa di uno spazio ritrovato, consentendoci di
contemplare gli dèi come se fossero ancora tra noi”
Uno spazio ritrovato: proprio come il tempo inseguito
da Marcel Proust, che tanto amava il color “rosa Tiepolo”. Ma non tutto è roseo
in Tiepolo, non ci sono solo gli dèi, le sue nerissime incisioni parlano di un
mondo sotterraneo e misterioso, pieno di demoni che siamo ancora ben lontani
dal riuscire a comprendere fino in
fondo. Perché, ormai l’abbiami imparato, “tutto è menzogna, e delirando io
vivo!/Sogno della mia vita è il corso intero” (Tomaso Montanari, “il venerdì di
Repubblica”, pp. 94-97
Sentiamo dunque
Proust:"Ci si accanisce
a cercare i rottami inconsistenti d'un sogno, e intanto la nostra vita con la
creatura amata continua: la nostra vita, distratta dinanze a cose di cui
ignoriamo l'importanza per noi, attenta a quelle che forse non ne hanno,
succube di esseri senza nessun rapporto reale con noi, piena di oblii, di
lacune, di ansietà vane; la nostra vita simile a un sogno" (La
prigioniera, Vita comune con Albertine, p. 147).
Concludo con Pirandello
Il fu Mattia Pascal resuscitatosi quale Adriano Meis
passeggia per Roma e riflette sulla
propria ombra: “Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per via
Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno;
poi gli occhi mi s’affissarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a
contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, non potevo
calpestarla, l’ombra mia. Chi era più ombra di noi due? Io o lei? Due ombre!
Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa,
schiacciarmi il cuore: e io, zitto, l’ombra, zitta. L’ombra d’un morto: ecco la
mia vita (…) Ma sì! Così era! Il simbolo, lo spettro della mia vita era
quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercè dei piedi altrui. Ecco
quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma. Ma aveva un cuore
quell’ombra, e non poteva amare, aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva
rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di
un’ombra e non l’ombra di una testa” (Il
fu Mattia Pascal , capitolo XV. Io e l’ombra mia)
giovanni ghiselli
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