Magda Szábo |
La notte del dì di festa
Pensai
che finita la cena saremmo andati nel grande bosco, un altro
santuario del nostro connubio sacro, della nostra ierogamia.
“Il
grande bosco è rimasto per sempre il bosco più bosco di ogni bosco,
più suggestivo delle foreste del Caucaso o della Svizzera, forse
perché crescendo su terre sabbiose forniva un esempio di tenacia che
gli dava una vita, nonostante le sue misere risorse, piena di forza e
di robustezza, che altrove non vedevo mai”.
Questa
è Magda Szábo, la brava scrittrice di Debrecen cui ora è
intitolato il caffè sotto l’hotel Aranybika. Non ricordo però in
quale romanzo ha scritto queste parole che ho fatto mie. La Szábo è
una degli scrittori che hanno contribuito a formare il mio repertorio
costituito di parole che come “SESAMO” fanno aprire le porte
chiuse.
Fulvio
dice che il cantore di Debrecen sono io e che dovrebbero dare il mio
nome alla Nyári Egyetem, l’Università Estiva dove
abbiamo passato alcuni mesi tra i più belli di nostra vita mortale.
Caro compagno dell’età mia nova, e pure di questa da rinnovare,
ricordi ancora quei nostri giorni fatati e fatali? E come potresti
averli scordati, carissimo amico in esilio anche tu dalla nostra
città incantata? All’apparir del vero anche se non siamo caduti,
ci siamo annoiati. Ora va meglio. Tu dipingi. Io scrivo e tengo
conferenze, faccio lezioni per educare i giovani a non dimenticare il
bello, il buono, la cultura e l’arte.
E
il mio blog, sapessi che soddisfazioni mi dà con le tante visite
quotidiane di persone che mi leggono, e trovano i nostri classici
greci, latini, italiani, inglesi, russi e tedeschi! Entro quest’anno
saranno un milione.
Pensa
agli scrittorucoli che, pur pompati dai media, nessuno legge perché
non dicono niente!
Ti
ricordi quella canzone, mi pare si chiamasse Delilah:
“C’era una volta un bianco collegio fatato, un grande mago
l’aveva creato per noi”?
Sì,
noi amavamo, amavamo le donne e ci volevamo bene tra noi, tu, io e
parecchi altri! Cantavamo insieme. E adesso chi vuole più bene a
chi? Chi canta in coro, in tutte le lingue: “Gallus
est mortus, gallus est mortus, gallus est mortus, gallus est mortus,
non cantabit iam coccodì coccodà, non cantabit iam coccodì
coccodà”?
Oppure Bocca
di rosa: “La chiamavano Bocca di Rosa, metteva l’amore,
metteva l’amore. La chiamavano bocca di rosa, metteva l’amore
sopra ogni cosa”. Chi ama più?
Intanto
io continuo ad amare, a cantare la bella Debrecen che non c’è più,
con la sua Università circondata da grande bosco, privo di sfarzi
dipinti1 ma ricco di gioia, di affetti, di sapere, più ricco dei
tanti ambienti falsi, inquinati, invidiosi che abbiamo
frequentato in seguito.
Ora
però è fradicio e rotto anche il ponticello di legno dove si
camminava o correva con lieto rumore.
Ma
torniamo alla sera del primo agosto del 1971.
Prima
di andare a dormire facemmo un giro nel bosco. Non senza qualche
sosta.
Le
cantai e tradussi, con variazioni minime, una strofa della Canzone
di Marinella di Fabrizio de Andrè, un altro dei miei
educatori.
“E
c’era il sole e avevi gli occhi belli,
io
ti baciai le labbra ed i capelli.
C’era
la luna e avevi gli occhi stanchi,
io
misi le mie mani sui tuoi fianchi”.
Minä
rakastan sinua 2, mi sussurrò
nella sua lingua dolce. Le risposi con un sorriso: non sapevo dire
“anche io” in finlandese. Ma non era necessario: si vedeva che
l’amavo. Si vedeva dal piacere mai esausto. Non c’era bisogno di
dirlo. Con lo sguardo sentiva.
Eravamo
felici. Una donna e un uomo in mezzo alla natura. Dove l’Italia e
la Finlandia si erano strette in alleanza.
Senza
calcoli, senza arzigogoli, senza dolore, senza noia: nient’altro
che noi due, il nostro amore e la nostra felicità. Sono rari nella
vita momenti del genere.
Vengono
e vanno. Comunque ritornano, siccome il cammino della vita, come
quello dell’eternità ha le sue curvature, i suoi giri3. Ma questo
con Elena, posso dirlo dopo tante e varie giravolte, è stato il più
bello.
Nei
paraggi scorreva un fiume. Dissi a Elena che potevamo andarvi per
fare una nuotata. “Voglio ribattezzarmi nelle onde della vita dopo
il nostro amore di oggi”, spiegai con aria mistica.
“Sei
matto?” domandò, quasi incoraggiandomi tuttavia con l’espressione.
“No, non sono matto; voglio sfogare un poco della mia gioia e sento
il dovere di fare una bella figura con te”.
“Non
ne hai bisogno”.
“Lo
so, ma voglio farla lo stesso. Non temere: io sono cresciuto al mare.
Ho dentro di me i suoi flutti, sono una creatura marina dal vigore
ancora non avvizzito, né questo fiume trasuda olio e catrame”.
“Allora
va bene” acconsentì lei con un sorriso leonardesco. Poi aggiunse:
“ti guarderò dalla riva e, se tornerai quale eroe vincitore come
hai appena promesso, ti applaudirò per la tua forza primordiale. Poi
torneremo in collegio. Domani ci divertiremo ancora con nuovi
balocchi”. Eravamo contenti di noi e della vita. La sua ironia
derivava dalla confidenza e mi rallegrava.
Andammo
a dormire ciascuno nel proprio collegio, ma nel sonno gocciava
davanti agli occhi il sogno che eravamo nello stesso letto e facevamo
l’amore. Elena e io. Prima di dormire mi venne in mente che quella
notte, così com’era stata, non sarebbe tornata ma più. La
felicità non ha il tempo né la voglia di concedere il medesimo dono
due volte. Ma non ne piansi al lume della luna tremulo sul vetro
della finestra, tenue e delicato nel pavimento come in un sottobosco,
non versai una lacrima poiché quella felicità che sapevo
irripetibile nella stessa maniera, quella gioia mi aveva reso meno
mediocre, meno debole, addirittura meno mortale.
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1
Nella commedia pastorale As
you like it (1599)
di Shakespeare, il duca esiliato dal fratello e rifugiatosi nella
foresta di Arden con i nobili suoi fedeli dice: “Now
my co-mates and brothers in exile, -hath not old custom made this
life more sweet-than the painted pomp? Are not these woods-more
free from peril than the envious court? ” (II,
1) , ora miei compagni e fratelli d’esilio, non ha l’antico
costume reso questa vita più dolce che lo sfarzo dipinto? Non sono
questi boschi più liberi dal pericolo dell’invidiosa corte?
2.
Io ti amo
3.
Cfr. F. W. Nietzsche, “Also
sprach Zarathustra”,
’Der Genesende’, 2, 59-69 “Così parlò Zarathustra”, ‘Il
convalescente’, 2, 59-69: “Die Mitte ist überall. Krumm ist der
Pfad der Ewigkeit. ” Il centro è dappertutto. Ricurvo è il
sentiero dell’eternità"
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