Unity Art Nabiha and Thom, Nightgarden |
L’alba nell’orto botanico. Summertime
“Magnifica”
pensai. La stimai e l’amai ancora di più per questa bella affermazione della
sua dignità di donna e di persona; quindi vidi con chiarezza maggiore quanto
fossi stato volgare, crudele e immorale civettando con la ragazza francese.
“Non tutte le femmine dunque”,
pensai, “sono creature contraffatte, segugi sagaciamente a caccia di
matrimonio, maschere prive di interiorità: leziose e smancerose, o tetre e
arrabbiate, parassitarie o prepotenti, istrioni tragiche o guitte comiche,
volgari mime arcisfrontate o ipocrite perbeniste pudibonde, quali le
considerano, e spesso le condizionano a essere, i maschi frustrati nell’amore e
nel lavoro. Se ci sono nemiche, siamo noi uomini che spesso le rendiamo tali1
Guarda questa finlandese: una
donna autentica, una che ti mette addosso la vergogna di essere rozzo e sozzo,
egoista, immaturo e ti fa crescere con l’esempio di un comportamento, di uno
stile elevato”.
Quindi le dissi: “Elena, oltre
all’amore e al rispetto, io per te provo ammirazione poiché tu sei capace di
aprirmi ogni giorno nuovi spiragli sull’anima mia. Davvero tu non sei soltanto
né soprattutto materia, anche se bella. Prima di tutto sei spirito: mente,
cuore, stile sei.
La tua parte materiale è
spiritualizzata, mentre lo spirito traspare nelle tue forme, tesoro.
Ti prego, non andare via,
non lasciarmi troppo per tempo, ante diem, amore mio! Da te ho
imparato più che dai libri. Quello che tu mi hai insegnato, lo insegnerò. Quod
a te didici, docebo”.
Così, con l’amore, le
contraccambiai pure il latino.
Rispose con un sorriso di
gratitudine e gioia. Qualche giorno più tardi mi rese felice dicendo che mi
amava anche perché, quando ne avevo avuto l’occasione e la possibilità, non le
avevo fatto del male. Come fa la canaglia di tutte le classi sociali, le caste,
le religioni, i partiti.
Così la sera del 4 di agosto del
1971 io le chiesi perdono e facemmo la pace, poi parlammo a lungo e facemmo
l’amore nel letto dei nostri colloqui e dei nostri sospiri; quindi tornammo a
ballare sulla terrazza sotto il cielo colmo di astri. Eravamo felici. Prima di
andare a dormire, ciascuno nel suo edificio del collegio immerso nella grande
foresta di Debrecen, passeggiammo in mezzo alle piante strane dell’orto
botanico. Notavo con gioia e meraviglia l’originalità della vita in tutto quanto
osservavo.
Volevamo stare insieme ancora del
tempo, sebbene oramai l’alba cedesse all’aurora.
Elena cantava: “Summertime and
the living is easy, fishes are jumping and the cotton is high”, con voce
calma e calda; e bruna com’era, vestita della tunica bianca, calzata di sandali
neri con fibbia, sembrava un’antica poetessa greca che recita una sua lirica in
lode della bella stagione, dell’amore e della vita. Quella donna, di
sensibilità aristocratica, possedeva l’eleganza nella propria memoria. Quella musica
e quelle parole mi commuovono ancora quando le sento. Nessun disincanto me le
ha fatte obliare. Già sulle prime note sorge il ricordo con Elena, il bosco, i
fiori, il cielo, con tutto insomma.
Tutte le cose intorno a noi
sembravano prossime a schiudersi per rivelarci chissà quali segreti. Ma
compresi che non c’era nessun segreto nella bellezza del cosmo così dispiegata.
“La terra è in mezzo alle stelle
che ora si spengono nel bianco rosa del cielo, mentre il tuo volto si
illumina”, pensai.
“Il ricordo di te durerà quanto i
moti degli astri fulgenti nel cielo, e il nostro amore sarà l’eredità delle
nostre vite”, le dissi.
Quel momento, verso le tre del mattino, è stato uno dei più chiari e luminosi di mia vita mortale.
Mentre la donna, rischiarandosi alle
rosee carezze di quell’aurora lontana,
celebrava l’estate e la nostra
felicità con limpido canto, la luce crescendo e propagandosi ovunque, mostrava
la bellezza ordinata dell’esistenza terrena e io me la sentivo fluire dentro,
nei polmoni e nel sangue pulsato dal cuore pieno di gioia. Avvertivo il
richiamo dell’arte che è fusione di bellezza, bontà e verità.
Tutte le piante, i fiori e le
erbe dell’orto botanico si vivacizzavano: i campanellini dell’Heuchera
sanguinea trillavano di felicità, la Campanula carpatica brillava
di luce azzurra, e la Tunica saxifraga dal carneo colore
danzava nella brezza mattutina al canto della donna innamorata.
Sentivo l’ordine del cosmo e
sapevo che il nostro amore ne faceva parte, contribuiva a formarlo. Respiravo
con il mondo: ero entrato in quella unità, secondo natura, della mia persona
con l’universo. Credo che sia questa la quintessenza della felicità.
“L’amore è la vita, l’amore è
Dio”, pensai. “Un dio tanto umano da rendere divine le sue creature più buone e
più belle, più simili a lui.”
Ancora oggi, dopo quasi mezzo
secolo, se per caso sento una voce femminile cantare quell’aria di Gershwin,
rivedo l’estate di Debrecen con il grande bosco di alberi sacri, le querce
dodonee che accarezzano le stelle del cielo, rivedo i salici che, piegati sul
lago, vellicano le schiene purpuree dei pesci, rivedo le farfalle variopinte
che danzano liete, quindi riappare la vegetazione strana dell’orto botanico e
infine completa il quadro le membra di un bianco luminoso, i neri capelli, il
volto dolce e intelligente, lo sguardo bello e buono di Helena Sarjantola che
quell’estate remota, con parole piene di significato, con lo sguardo espressivo
e penetrante, con la figura ben modellata da quel sommo artista che è Dio, mi
mostrò l’idea eterna della bellezza corporea armonizzata con la nobiltà dello
spirito.
Ora tutto quanto vidi durante
quella passeggiata remota è scomparso dal mondo, ma rimane dentro di me ancora
osservato dalla mente e dal cuore con gioia e gratitudine verso la vita che mi
ha donato quale regalo eterno, questo bene per sempre.
Domenica 22 agosto 1971, quando partì dalla Keleti Pályaudvar, la stazione orientale di Budapest, lasciandomi l’immortale memoria di sé, prima di salire sul treno celeste chiaro, come i laghi e il cielo un poco sbiaditi della sua terra, Elena mi ringraziò di non essere stato cattivo, né volgare, né stupido con lei. Le promisi che non lo sarei stato mai più con nessuno, poiché durante quel mese passato con lei mi ero sentito bene, ero stato, finalmente, me stesso. Le ripetei le parole dette da Odisseo a Nausicaa al momento del congedo: tu di fatto mi hai salvato la vita, ragazza2.
Non ho sofferto per la sua
sparizione, forse perché il desiderio ardente di quella donna, più che brama
carnale del suo corpo era un bisogno struggente di identità da definire e
completare grazie a lei.
Quel 22 agosto Elena aveva già
compiuto la sua funzione “storica”.
Dopo la partenza del treno
non l’ho più vista mai più, nemmeno quando, nel settembre del 1974 andai a
Yväskylä a trovare Päivi che aspettava una bambina da me. Eppure l’ho sempre
pensata come la creatura preziosa che, contraccambiando il mio amore, per prima
mi ha insegnato ad amare la vita, a credere nel Bello e nel Bene, ad avere
fiducia in me stesso, a diventare quello che sono, qualunque piccola, poca e
povera cosa io sia.
Comunque corrispondente alle mie
aspirazioni commisurate alle mie qualità.
Nei momenti più tristi e desolati
di questa mia vita terrena, quando altre persone mi hanno deluso o tradito, da
Päivi che dopo l’ultimo incontro in un letto di infelicità non mi mandava
notizie, a Ifigenia che la notte atroce del pozzo di Vernicino, volle gettarsi
nell’abisso anche lei, sempre mi sono rifugiato nel ricordo della notte felice
in cui Helena mi insegnò ad aborrire dall’ingiustizia; poi, mentre il sole
spuntava sul giardino di quel paradiso e versava le prime luci della sua
bellezza inesausta, lei con angelica voce cantava un peana colmo di gratitudine
alla vita bella, serena, meritevole di riconoscenza al Creatore, degna di
essere vissuta in pieno, con gioia.
Mi aveva insegnato a non averne
paura3.
Apollo accompagnava quel
canto suonando la cetra.
E se dopo questa mirabile vita
terrena, potremo viverne un’altra in mezzo alle stelle del cielo, o
se4 avremo una seconda possibilità qui, su questa bella terra illuminata
dal sole, io spero di incontrarti ancora, Elena, amore mio, e di amarti di
nuovo.
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1. Cfr.
Seneca, non habemus illos hostes sed facimus (Lettere a
Lucilio, 47, 5), non abbiamo quelli (gli schiavi) quali nemici, ma li
rendiamo tali.
2. Odissea,
VIII, 468 Suv
ga;r m j ejbiwvsao, kouvrh,
3. Come ha
raccomandato di recente papa Francesco: "non abbiate paura della
gioia!". Parole sante.
Le aveva
già scritte Strabone il quale nella sua Geografia- redatta
nei primi anni del regno redatta nei primi anni del regno di Tiberio- afferma
che gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene ma, si potrebbe
dire anche meglio, quando sono felici, (a[meinon d& a[n levgoi ti", oJvtan eujdaimonw'si, X, 3, 9) .
4. Non sono
d’accordo con gli estremisti del laicismo i quali che escludono questo “se”
cruciale. La penso come il buffone di corte Touchstone, “Pietra di paragone”,
che nella commedia pastorale As you like it di Shakespeare
sentenzia: " 'If' is the only peace-maker: much virtue in 'If' "
(V, 4) , "Se" è l'unico paciere: c'è molta virtù nel "Se".
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