Donna finlandese: la premier Sanna Marin |
Un altro amore di Debrecen. Il secondo della trilogia finnica
La conoscenza e il corteggiamento
Nell’anno
successivo al mese di amore con Helena vissi in Italia una relazione insulsa
con una donna stupida e venale: l’ingorda, oziosa, pacchiana Esmeralda[1].
Non poteva
piacermi abbastanza né a lungo colei. Né io potevo andarle a genio.
Quindi ci fu
un’altra per niente stupida che mi piaceva e avrei voluto conoscerla
meravigliosamente, ma lei non volle, forse perché era già mezza pazza. Lo
divenne del tutto qualche anno più tardi, quando, devastata dai morsi della
sventura, mi cercò, ma l’abisso della sua follia mi fece scappare a gambe
levate.
Se tu guardi
a lungo nell’abisso, questo entra in te.
Nel
luglio del 1972 dunque tornai a Debrecen affamato di esperienze umane, e
sessuali, ricche di significati forti e belli.
Avevo il
braccio destro ingessato dal polso al confine con la spalla dopo una brutta
frattura esposta, buscata in seguito a una precipitosa caduta dalla bicicletta
in una discesa della “Panoramica” di Pesaro.
Tuttavia
già un mese dopo la lunga operazione necessaria a rimettermi in sesto portavo
l’impiccio duro e ingombrante con disinvoltura; cercavo anzi di farne un mezzo
di seduzione collegandolo a una presunta virtus del vir che
non si tira indietro davanti a nessun pericolo. Si spezza magari ma non si
piega, come suol dirsi.
Arrivato
nell’Università estiva, volevo confermare il successo avuto con Elena:
l’ambiente di Debrecen con le studentesse provenienti da tutto il mondo,
massime dalla Finlandia per quanto mi riguardava, era il più significativo ai
miei occhi e il più adatto a soddisfare questo mio desiderio e bisogno.
Probabilmente
per lo stesso motivo, appena ho potuto, nell’autunno del 1974, dopo Päivi, sono
tornato a vivere da Padova a Bologna: questa infatti è una polis vivacizzata
non da turisti più o meno beceri, come altre pur belle città, ma da centomila
studenti universitari, e non tutti maschi ovviamente. Lo storico dell’arte
Riccomini, donnaiolo non meno di me, sebbene più attempato, ha detto, con
parole veraci, che Bologna è un luogo godereccio siccome la vicinanza di tanti
docenti e discenti è un terreno fertile per una grande, rigogliosa, fioritura
erotica. Non posso negare che sia così. E così sia. Lo stesso preside veneto della
mia prima scuola in provincia di Padova mi suggeriva di tornare presto a
Bologna: la città davvero adatta alla mia natura di comunista e donnaiolo.
Lo
rassicuravo che l’avrei fatto appena possibile. L’ambiente veneto invero mi era
simpatico ma Bologna mi offriva di più.
Nel mese del corso estivo dell’Università di Debrecen
dell’anno di mia salvazione 1972, dunque amai riamato un’altra finnica: Kaisa
bellina assai, colta e fine. Sapeva di greco e di latino oltre conoscere un
paio di lingue europee ancora parlate.
Come la vidi, pensai: “la finnica Elena, e ora questa
finnica qui. Nella mia vita ogni cosa è una ripresa e una continuazione. Nell’evoluzione di questa via non ci sono elementi disorganici”.
Kaisa era una ragazza piccola, ben fatta, piena di
significato, con occhi tagliati tipicamente a mandorla, blu e profondi, zigomi
iperborei. I capelli li aveva neri, lisci, lunghi.
Come persona era una seria studiosa di glottologia,
specializzata nella linguistica generativa. Con il volgere delle stagioni
avrebbe fatto carriera nel mondo universitario. Aveva solo ventuno anni e
qualche mese, ma era già sposata da due e con un bambino: un maschio dagli
occhi azzurri mi disse, mostrandomene la fotografia e alzando un muro davanti
al mio eros con questo atto non certo incoraggiante. “Ecco un problema - pensai
- Devo scavalcare l’ostacolo[2] che mi frappone, pensai, fare un salto da atleta dell’amore per
portarmi al di là”.
Di Kaisa mi piaceva l’aspetto e stimavo la sua serietà
di studiosa, anche per reazione alle continue sbandate dell’Esmeralda che
passava il tempo a passare il tempo, riempiendolo di chiacchiere vuote, di
mangiate deformanti, di bevute da stordimento, né io ero migliore quando
sprecavo il mio tempo con una persona tanto malsana. Mi aiutò del resto a
ottenere il trasferimento a Bologna. Era nel contempo utile e deleteria. Nel
frequentarla vivevo la mia contraddizione, come si diceva all’epoca.
La studiosa ragazza finnica, paragonata a tali
sperperatori del bene per me più prezioso, il tempo, mi sembrava una dea o la
creatura mandata da un dio per redimermi dall’essere stato, sia pure per poco e
non senza calcoli e mire dirette in avanti, un profligator temporis mei.
Peccato tra i più gravi, crimine contro me stesso, meritevole di pene tartarèe
se prolungato.
Dovevo ripetere la tattica e la strategia adoperate
con Elena, magari rinnovandole e adattandole a questa nuova, necessarissima
amante. Dovevo indurla ad accogliere le mie ragioni seminali, gli spermatikoi;
lovgoi che avrebbero consolidato la mia crescita umana
e dato a lei un dono prezioso di liete e memorabili gioie.
Mi innamorai di questa donna sposata e la feci venire a letto con me, in spregio del suo vincolo matrimoniale, adulandola sfacciatamente.
Mi innamorai di questa donna sposata e la feci venire a letto con me, in spregio del suo vincolo matrimoniale, adulandola sfacciatamente.
La conobbi e cominciammo a parlare da compagni di
scuola durante gli intervalli tra le prime lezioni universitarie. Ebbi la
sensazione di non dispiacerle fin dall’inizio. Mi riempii di speranza.
Dopo un paio di giorni, una sera, mentre il primo fra
tutti gli dèi con le sue fiamme ormai tiepide calava sull’orizzonte, mi
avvicinai guardingo, in punta di piedi, e le proposi di fare due passi verso il
sole al tramonto per metterlo a letto con le nostre parole belle. Considerato
quanto benevolmente accolse questo mio approccio, subito dopo il tramonto la
invitai sulla terrazza dell’Arany Bika dove si poteva cenare e pure ballare.
Percorremmo il tragitto dicendo solo alcune frasi di
brevità e di forza, in sintonia con il silenzio del bosco, pieno di significati
e di mute promesse nel principiare della breve notte. Quando fummo seduti nel
ristorante continuavamo a parlare poco ascoltando le Danze ungheresi di
Brahms suonate dai violini zigani. Kaisa esibiva il colore eccezionale degli
occhi muovendo le palpebre a tempo; io nelle pause di quelle sonate, le dicevo
parole gradevoli e forse gradite con un tono pieno di pathos per
significare che durante l’eloquio precedente, tutt’altro che fitto, avevo
riflettuto sui significati seri e profondi del nostro incontro cui non potevano
confacersi chiacchiere ordinarie, luoghi comuni, banalità. Per lei poesia ci
voleva, parole sentite e frasi pensate.
Le dicevo dunque che le sue meravigliose luci mi facevano venire in mente il blu dei mari di Grecia, i petali delle viole nei prati di marzo appena spruzzati dalla pioggia della primavera nascente, il cielo turchino sulle montagne ancora innevate e scintillanti al sole di aprile.
Conclusi l’encomio con una citazione[3], siccome mi
ero ricordato che avevo acceso l’attenzione di Elena citando Pavese.
“Da quando la notte nera ha tolto il colore alle cose,
tu li restituisci tutti e li rendi più vivi” le dissi.
Continuai a parlare limitando il polisindeto[4], l’uso di
molte congiunzioni la cui frequenza ottunde l’acutezza e lo slancio del pathos,
e tendevo piuttosto all’asindeto che fa vedere dritta la forza del sentimento e
della voglia amorosa. Non potevo fallire e calcolavo ogni sillaba, il tono
della voce, ogni movimento delle mani e del collo, e l’espressione degli
occhi, in amore duces.
Una donna del genere avrebbe rifiutato l’imbecille che
si muove e parla a caso, senza arte né coscienza di quanto era dovuto a una
femmina umana di quella levatura non comune. Chiacchiere ordinarie per non dire
triviali potevo farle parlando con donnicciole e con omuncoli senza spessore
alcuno, non certo con quella ragazza bella, fine, studiosa. Meritava un eloquio
elegante, originale, geniale: frasi plastiche e raffinate nello stesso tempo.
Come già Elena nel 71, Kaisa nel 1972 era un simbolo della mia mente, l’altra
metà, il il segno di riconoscimento dell’intero che eravamo, e amandola mi
addentravo in me stesso.
La ragazza si accendeva, si illuminava tutta,
diventando ancora più bella. Io la volevo, l’amavo addirittura. Perché non
avrei dovuto? Forse per il fatto che era sposata? Non era un fattore
deterrente, tutto il contrario. Con Elena promessa sposa avevo vissuto l’amore
più bello, più grande della mia vita. Perché non replicare? Potevo diventare un
violatore astuto delle leggi coniugali delle quali non riconoscevo il valore.
Volevo confermarmi in quel ruolo, specializzarmi, diventare un
professionista.
"Devo rinnovare la conquista, rinverdire l’alloro
perché la fortuna, volubile nell’attribuire i successi, non scivoli via da
queste mie mani". pensai
“La donna adultera mi si addice. Basta non sposarsi
mai con nessuna, per nessuna ragione. Del resto il matrimonio è un’istituzione
contro natura, di sicuro contro la mia”.
Quindi mi
dissi: “Nam si violandum est ius, amandi gratia/violandum est; aliis rebus
pietatem colas " 4
bis
Era questa mia una mente scellerata avida di gioie
malvagie?
Giudica tu, lettore, chiunque tu sia: cristiano,
musulmano, pagano, libertino o piuttosto bigotto.
Poi continuai: “La tua immagine senza difetti fa
risorgere in me sentimenti antichi e buoni. E mentre ti guardo, ti ammiro
stupito, mi sento diventare migliore: più bello, più intelligente, più probo.
Però non devo pensare che sei legata a un altro, se no divento terribilmente
infelice: infatti so bene che questo mio amore è disperato, lo so. Tu così
bella, fine, dignitosa, tu il tuo uomo felice, il tuo fortunato marito lo
onori, e rispetti il vostro bambino innocente. Ho già detto fin troppo: sono
andato oltre il limite di quanto è consentito dire a una giovane donna sposata.
So di metterti in imbarazzo, lo so. Il corteggiamento non mi è consentito , eppure noi due siamo seduti vicini e parliamo e ci guardiamo con
simpatia che chiamerei reciproca, se ne avessi l’ardire. Purtroppo non posso,
sarebbe un’ipotesi non abbastanza riguardosa per te. Io comunque non riesco
proprio a dissimulare questo mio amore senza speranza: ti amo, ti amo come non
ho mai amato nessuna, mai, nemmeno lontanamente, ho amato una donna come ora
amo e desidero te! Temo che il destino voglia infliggermi un amore non
contraccambiato per mortificarmi con consunzione crudele. Ma dal momento che
presto o tardi dovrò morire di faciant leti causa sit ista mei[5]
O, viceversa, lasciami la speranza che il fato
voglia rendere molto più viva e piena di significato questa mia vita, povera di
tutto, se priva di te.
Non credo che senza la volontà degli dèi, sine
numine divom, noi due siamo qui questa sera con gli occhi e le anime
aperte, reciprocamente mi pare. Da dextram amanti”. Kaisa sfiorò,
pudicamente ma non troppo, la mia mano sinistra con la sua destra.
“Et tu litteras scis, et ego”, risposi al
suo gesto, non senza un sorriso.
[1] Cfr. T.
Mann, Doctor Faustus: “Fu infatti soltanto una farfalla un’Haetera
Esmeralda, una strega che seguii nell’ombra crepuscolare delle fronde” (p.
679).
4 bis Cfr.
Cicerone, De Officiis , III, 82. Il testo latino ha regnandi
gratia. Sono parole che Cicerone attribuisce a Giulio Cesare il quale si
compiaceva di citare questi due versi che Euripide fa dire al personaggio
Eteocle delle Fenicie: " ei[per ga;r
ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri - kavlliston ajdikei'n, ta[lla d
eujsebei'n crewvn", vv.
524 - 525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo
per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
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