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mercoledì 25 marzo 2020

la storia di Kaisa. Capitolo 1. La conoscenza e il corteggiamento

Donna finlandese: la premier Sanna Marin
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Un altro amore di Debrecen. Il secondo della trilogia finnica

La conoscenza e il corteggiamento
  
Nell’anno successivo al mese di amore con Helena vissi in Italia una relazione insulsa con una donna stupida e venale: l’ingorda, oziosa, pacchiana Esmeralda[1].
Non poteva piacermi abbastanza né a lungo colei. Né io potevo andarle a genio.
Quindi ci fu un’altra per niente stupida che mi piaceva e avrei voluto conoscerla meravigliosamente, ma lei non volle, forse perché era già mezza pazza. Lo divenne del tutto qualche anno più tardi, quando, devastata dai morsi della sventura, mi cercò, ma l’abisso della sua follia mi fece scappare a gambe levate.
Se tu guardi a lungo nell’abisso, questo entra in te.
 Nel luglio del 1972 dunque tornai a Debrecen affamato di esperienze umane, e sessuali, ricche di significati forti e belli.
Avevo il braccio destro ingessato dal polso al confine con la spalla dopo una brutta frattura esposta, buscata in seguito a una precipitosa caduta dalla bicicletta in una discesa della “Panoramica” di Pesaro.
 Tuttavia già un mese dopo la lunga operazione necessaria a rimettermi in sesto portavo l’impiccio duro e ingombrante con disinvoltura; cercavo anzi di farne un mezzo di seduzione collegandolo a una presunta virtus del vir che non si tira indietro davanti a nessun pericolo. Si spezza magari ma non si piega, come suol dirsi.
Arrivato nell’Università estiva, volevo confermare il successo avuto con Elena: l’ambiente di Debrecen con le studentesse provenienti da tutto il mondo, massime dalla Finlandia per quanto mi riguardava, era il più significativo ai miei occhi e il più adatto a soddisfare questo mio desiderio e bisogno.
Probabilmente per lo stesso motivo, appena ho potuto, nell’autunno del 1974, dopo Päivi, sono tornato a vivere da Padova a Bologna: questa infatti è una polis vivacizzata non da turisti più o meno beceri, come altre pur belle città, ma da centomila studenti universitari, e non tutti maschi ovviamente. Lo storico dell’arte Riccomini, donnaiolo non meno di me, sebbene più attempato, ha detto, con parole veraci, che Bologna è un luogo godereccio siccome la vicinanza di tanti docenti e discenti è un terreno fertile per una grande, rigogliosa, fioritura erotica. Non posso negare che sia così. E così sia. Lo stesso preside veneto della mia prima scuola in provincia di Padova mi suggeriva di tornare presto a Bologna: la città davvero adatta alla mia natura di comunista e donnaiolo.
Lo rassicuravo che l’avrei fatto appena possibile. L’ambiente veneto invero mi era simpatico ma Bologna mi offriva di più. 

Nel mese del corso estivo dell’Università di Debrecen dell’anno di mia salvazione 1972, dunque amai riamato un’altra finnica: Kaisa bellina assai, colta e fine. Sapeva di greco e di latino oltre conoscere un paio di lingue europee ancora parlate.
Come la vidi, pensai: “la finnica Elena, e ora questa finnica qui. Nella mia vita ogni cosa è una ripresa e una continuazione. Nell’evoluzione di questa via non ci sono elementi disorganici”.
Kaisa era una ragazza piccola, ben fatta, piena di significato, con occhi tagliati tipicamente a mandorla, blu e profondi, zigomi iperborei. I capelli li aveva neri, lisci, lunghi.
Come persona era una seria studiosa di glottologia, specializzata nella linguistica generativa. Con il volgere delle stagioni avrebbe fatto carriera nel mondo universitario. Aveva solo ventuno anni e qualche mese, ma era già sposata da due e con un bambino: un maschio dagli occhi azzurri mi disse, mostrandomene la fotografia e alzando un muro davanti al mio eros con questo atto non certo incoraggiante. “Ecco un problema - pensai - Devo scavalcare l’ostacolo[2] che mi frappone, pensai, fare un salto da atleta dell’amore per portarmi al di là”.
Di Kaisa mi piaceva l’aspetto e stimavo la sua serietà di studiosa, anche per reazione alle continue sbandate dell’Esmeralda che passava il tempo a passare il tempo, riempiendolo di chiacchiere vuote, di mangiate deformanti, di bevute da stordimento, né io ero migliore quando sprecavo il mio tempo con una persona tanto malsana. Mi aiutò del resto a ottenere il trasferimento a Bologna. Era nel contempo utile e deleteria. Nel frequentarla vivevo la mia contraddizione, come si diceva all’epoca.
La studiosa ragazza finnica, paragonata a tali sperperatori del bene per me più prezioso, il tempo, mi sembrava una dea o la creatura mandata da un dio per redimermi dall’essere stato, sia pure per poco e non senza calcoli e mire dirette in avanti, un profligator temporis mei. Peccato tra i più gravi, crimine contro me stesso, meritevole di pene tartarèe se prolungato.
Dovevo ripetere la tattica e la strategia adoperate con Elena, magari rinnovandole e adattandole a questa nuova, necessarissima amante. Dovevo indurla ad accogliere le mie ragioni seminali, gli spermatikoi; lovgoi che avrebbero consolidato la mia crescita umana e dato a lei un dono prezioso di liete e memorabili gioie.
Mi innamorai di questa donna sposata e la feci venire a letto con me, in spregio del suo vincolo matrimoniale, adulandola sfacciatamente.
La conobbi e cominciammo a parlare da compagni di scuola durante gli intervalli tra le prime lezioni universitarie. Ebbi la sensazione di non dispiacerle fin dall’inizio. Mi riempii di speranza.
Dopo un paio di giorni, una sera, mentre il primo fra tutti gli dèi con le sue fiamme ormai tiepide calava sull’orizzonte, mi avvicinai guardingo, in punta di piedi, e le proposi di fare due passi verso il sole al tramonto per metterlo a letto con le nostre parole belle. Considerato quanto benevolmente accolse questo mio approccio, subito dopo il tramonto la invitai sulla terrazza dell’Arany Bika dove si poteva cenare e pure ballare.
Percorremmo il tragitto dicendo solo alcune frasi di brevità e di forza, in sintonia con il silenzio del bosco, pieno di significati e di mute promesse nel principiare della breve notte. Quando fummo seduti nel ristorante continuavamo a parlare poco ascoltando le Danze ungheresi di Brahms suonate dai violini zigani. Kaisa esibiva il colore eccezionale degli occhi muovendo le palpebre a tempo; io nelle pause di quelle sonate, le dicevo parole gradevoli e forse gradite con un tono pieno di pathos per significare che durante l’eloquio precedente, tutt’altro che fitto, avevo riflettuto sui significati seri e profondi del nostro incontro cui non potevano confacersi chiacchiere ordinarie, luoghi comuni, banalità. Per lei poesia ci voleva, parole sentite e frasi pensate.

Le dicevo dunque che le sue meravigliose luci mi facevano venire in mente il blu dei mari di Grecia, i petali delle viole nei prati di marzo appena spruzzati dalla pioggia della primavera nascente, il cielo turchino sulle montagne ancora innevate e scintillanti al sole di aprile.
Conclusi l’encomio con una citazione[3], siccome mi ero ricordato che avevo acceso l’attenzione di Elena citando Pavese.
“Da quando la notte nera ha tolto il colore alle cose, tu li restituisci tutti e li rendi più vivi” le dissi.
Continuai a parlare limitando il polisindeto[4], l’uso di molte congiunzioni la cui frequenza ottunde l’acutezza e lo slancio del pathos, e tendevo piuttosto all’asindeto che fa vedere dritta la forza del sentimento e della voglia amorosa. Non potevo fallire e calcolavo ogni sillaba, il tono della voce, ogni movimento delle mani e del collo, e l’espressione degli occhi, in amore duces.
Una donna del genere avrebbe rifiutato l’imbecille che si muove e parla a caso, senza arte né coscienza di quanto era dovuto a una femmina umana di quella levatura non comune. Chiacchiere ordinarie per non dire triviali potevo farle parlando con donnicciole e con omuncoli senza spessore alcuno, non certo con quella ragazza bella, fine, studiosa. Meritava un eloquio elegante, originale, geniale: frasi plastiche e raffinate nello stesso tempo. Come già Elena nel 71, Kaisa nel 1972 era un simbolo della mia mente, l’altra metà, il il segno di riconoscimento dell’intero che eravamo, e amandola mi addentravo in me stesso.
 La ragazza si accendeva, si illuminava tutta, diventando ancora più bella. Io la volevo, l’amavo addirittura. Perché non avrei dovuto? Forse per il fatto che era sposata? Non era un fattore deterrente, tutto il contrario. Con Elena promessa sposa avevo vissuto l’amore più bello, più grande della mia vita. Perché non replicare? Potevo diventare un violatore astuto delle leggi coniugali delle quali non riconoscevo il valore. Volevo confermarmi in quel ruolo, specializzarmi, diventare un professionista. 
"Devo rinnovare la conquista, rinverdire l’alloro perché la fortuna, volubile nell’attribuire i successi, non scivoli via da queste mie mani". pensai

“La donna adultera mi si addice. Basta non sposarsi mai con nessuna, per nessuna ragione. Del resto il matrimonio è un’istituzione contro natura, di sicuro contro la mia”.
Quindi mi dissi: “Nam si violandum est ius, amandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas " 4 bis
Era questa mia una mente scellerata avida di gioie malvagie?
Giudica tu, lettore, chiunque tu sia: cristiano, musulmano, pagano, libertino o piuttosto bigotto.

Poi continuai: “La tua immagine senza difetti fa risorgere in me sentimenti antichi e buoni. E mentre ti guardo, ti ammiro stupito, mi sento diventare migliore: più bello, più intelligente, più probo. Però non devo pensare che sei legata a un altro, se no divento terribilmente infelice: infatti so bene che questo mio amore è disperato, lo so. Tu così bella, fine, dignitosa, tu il tuo uomo felice, il tuo fortunato marito lo onori, e rispetti il vostro bambino innocente. Ho già detto fin troppo: sono andato oltre il limite di quanto è consentito dire a una giovane donna sposata. So di metterti in imbarazzo, lo so. Il corteggiamento non mi è consentito , eppure noi due siamo seduti vicini e parliamo e ci guardiamo con simpatia che chiamerei reciproca, se ne avessi l’ardire. Purtroppo non posso, sarebbe un’ipotesi non abbastanza riguardosa per te. Io comunque non riesco proprio a dissimulare questo mio amore senza speranza: ti amo, ti amo come non ho mai amato nessuna, mai, nemmeno lontanamente, ho amato una donna come ora amo e desidero te! Temo che il destino voglia infliggermi un amore non contraccambiato per mortificarmi con consunzione crudele. Ma dal momento che presto o tardi dovrò morire di faciant leti causa sit ista mei[5]
 O, viceversa, lasciami la speranza che il fato voglia rendere molto più viva e piena di significato questa mia vita, povera di tutto, se priva di te.
Non credo che senza la volontà degli dèi, sine numine divom, noi due siamo qui questa sera con gli occhi e le anime aperte, reciprocamente mi pare. Da dextram amanti”. Kaisa sfiorò, pudicamente ma non troppo, la mia mano sinistra con la sua destra.
Et tu litteras scis, et ego”, risposi al suo gesto, non senza un sorriso.





[1] Cfr. T. Mann, Doctor Faustus: “Fu infatti soltanto una farfalla un’Haetera Esmeralda, una strega che seguii nell’ombra crepuscolare delle fronde” (p. 679).
[2] Cfr. provblhma da probavllw. Significa ciò che è gettato davanti, dunque un ostacolo.
[3] “… et rebus nox abstulit atra colorem” (Virgilio, Eneide VI, 272.
[4] L’uso di molte congiunzioni.
4 bis Cfr. Cicerone, De Officiis , III, 82. Il testo latino ha regnandi gratia. Sono parole che Cicerone attribuisce a Giulio Cesare il quale si compiaceva di citare questi due versi che Euripide fa dire al personaggio Eteocle delle Fenicie: " ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri - kavlliston ajdikei'n, ta[lla d eujsebei'n crewvn", vv. 524 - 525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.

[5] Ovidio, Amores II, 11, 30, gli dèi facciano che sia questa la causa della mia morte.

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