Giovanni Testori, La Monaca di Monza (Teatro Elicantropo di Napoli) |
Con l’adulazione si può sedurre perfino una monaca
Mi scusai per l’indugio e ripresi a lusingarla. Con
l’adulazione si può sedurre anche una vestale[10], una suora sposa di Cristo, o un’intellettuale iperborea consacrata più
allo studio che alla famiglia. Mi ero dato la parte dell’innamorato
vezzeggiatore[11] e dovevo
trovare ogni parola, ogni pretesto perché lei si sentisse apprezzata, amata e
invogliata a contraccambiarmi.
Facevo pure l’atto fisico, provato poco prima
allo specchio, di prosternarmi davanti alla sua bellezza, alla sua serietà,
alla sua castità. Nello stesso tempo cercavo di indurla ad accogliere le mie
ragioni seminali
Cialtrone infernale! dirai tu, pudibondo o ipocrita
chiunque tu sia che mi leggi. La tua fiamma erotica di sicuro trae alimento dal
fuoco della Gehenna!”[12].
Più che altro assumevo un atteggiamento di complicità
con il reale.
Di fatto ero ispirato e spronato da un demone. Non
potevo né volevo né tanto meno dovevo recalcitrare al suo pungolo. Infatti era
il demone mio, non preso a prestito da altri come quello di coloro che si
sposano perché lo fanno gli altri, poi si annoiano, litigano con la moglie, si
cercano un’amante o un amante. Oppure sono gelosi e picchiano o ammazzano o
fanno una strage. No, ero meno stupido io, e anche meno immorale e bestiale.
Non credi, mio lettore, complice mio mentre mi leggi? Creda però chi vuole
restare pure anche mentre legge le mie porcherie che quelle azioni empie e
nefande le ho compiute io - me fecisse nefas - e finirò per sempre nella
bufera infernale là dov’è Dido con Elena, Semiramide, Cleopatra, Tristano,
Paride, Achille e milioni di altri.
Mi ero già abbastanza inserito nel favore di me stesso
e volevo entrare nel corpo di lei. Lo volevo proprio, lo volevo davvero, senza
alcuna riserva. Te lo giuro, lettore. Questa avrei potuto amarla a lungo, per
quanto possa essere lunga nostra vita mortale. Poco invero.
Risalendo le scale avevo deciso, tra l’altro, che,
dopo l’intervallo, dovevo iniziare il secondo tempo con Kaisa riprendendo le
cime degli argomenti trattati nei primi momenti del corteggiamento.
Dunque tornai a recitare il ruolo dell’innamorato
quasi senza speranze. A questo punto ero quasi sicuro che la disperazione
amorosa sarebbe stata smentita dal massimo oggetto del mio desiderio.
Dopo una breve pausa ripresi a parlare: “Mentre
scendevo e salivo le scale, per non dire degli altri momenti di questi
lunghissimi dieci minuti di assenza, mi sei mancata” dissi con voce velata da
un lieve affanno.
Aggiunsi di avere deciso che solo lei poteva ridarmi
la speranza, la voglia di vivere. Aveva la possibilità di rendermi idoneo a una
vita migliore di quella che conducevo. Senza di lei, tutto il bene, il bello,
il desiderabile del mondo, dell’universo intero, comprese le stelle sopra di
me, e ogni gioia, ogni nobile aspirazione dentro di me, insomma proprio tutto,
era inconsistente, privo di ogni sostanza. Orbato dal lutto della sua assenza,
a me sarebbe rimasta solo la porta del nulla spalancata sul vuoto.
Ombre gelide cadendo da rami intrecciati dalla
sventura avvolti da serpi nere, orrendi viluppi aorni, dove cioè non osano
posarsi gli uccelli, avrebbero interrotto il tragitto dei raggi santi che in
quel momento vedevo emanati dai suoi splendidissimi occhi aperti sul volto mio
beatificato da tanta luce.
Le mie fatiche umanamente spese si sarebbero
miseramente vanificate. Temevo, conclusi, che avrei sofferto l’estremo
naufragio finendo nel fondo.
Dove non arrivavo con l’inglese a dire tante amenità,
mi aiutavo con il latino, il greco e pure con l’italiano che la bella studiosa
capiva poiché conosceva il francese. Sotto sotto ci divertivamo entrambi.
Cominciai a simulare un affanno fitto, da nuotatore
stremato, ut saevis proiectus ab undis/navita”[13]. Gli occhi luccicavano umidi. Giurai che l’unica donna davanti alla quale
avevo rinunciato alla mia fierezza e al mio orgoglio piegando il capo altero
era lei.
Cialtronissimo buffone da osteria e volgare mimo che
insulti il pudore, mi direte voi lettori, quanti siete persone per bene, caste,
sincere, incapaci di simulare e dissimulare.
Invero, carissimi, neppure io simulavo né dissimulavo:
stavo cercando di rendere evidente quanto sentivo, poiché “sentivo” davvero, e
con forza, il desiderio, il bisogno di quella creatura semidivina.
Non so se ora voi la vedete nelle mie parole ma allora
io la vedevo, minacciosa e pure promettente, oltre che sentirla. Dico della
brama erotica nera, pelosa fino alle orecchie, massiccia, contorta, camusa,
impudica, riottosa come il cavallo brutto e cattivo del cocchio platonico, e
pure diritta e
snella, dal naso aquilino, coperta di bianco, obbediente alla guida della
ragione, come il cavallo bello e buono del Fedro.
Io ero
l’auriga che dirigeva il carro e il tragitto fino alla meta dipendeva da me.
Kaisa sembrava un poco lusingata, un poco incredula e
anche un poco divertita. Capiva che la parte da me recitata era pure vissuta. E
sentiva che se nelle parole c’era qualche ironia, nei fatti, negli atti non ci
sarebbe stata.
La mia facondia portava i segni di un desiderio
intenso, straordinario.
Le donne sanno vederli.
Ci chiesero se volevamo un dolce, della palinka o
delle sigarette. Kaisa scosse la testa in segno di virtuoso diniego, e io le
dissi: “brava, non dobbiamo riempirci di malvagità”. Sorrise alla mia battuta.
Non smetteva di osservarmi e ascoltarmi con attenzione. Sicché fui certo
della mutua cupido e continuai parlando a briglia sciolta.
giovanni ghiselli
[13] Lucrezio, De rerum natura V, 221 - 222, come un
marinaio naufrago gettato a riva da ondate furiose
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