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venerdì 20 marzo 2020

Nikolaus Lenau e Giacomo Leopardi. di Giuseppe Moscatt


Nikolaus Lenau
Nikolaus Lenau (Timisoara, 1802 - Vienna, 1850) e Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli, 1837), martiri della poesia e del dolore
di Giuseppe Moscatt

Può un oscuro poeta di lingua tedesca, austriaco solo per nazionalità, dare al critico maggiori lumi sulla lingua di uno dei maggiori poeti italiani, Giacomo Leopardi? Sì, lo pensiamo alla luce della biografia e delle opere di Nikolaus Lenau, quasi contemporaneo del nostro, afflitto dalle stesse malattie fisiche e psichiche, pessimista storico e cosmico, con un problema psicosociologo con l'altra metà del mondo, influenzato dal territorio, dal clima e dalla società della città di origine. Martiri ambedue della poesia e grandi poeti per aver sublimato il dolore interiore in versi ineguagliabili che milioni di giovani hanno interiorizzato nei circa due secoli e mezzo dalla loro morte. Nikolaus Lenau nacque in un distretto di frontiera fra l'Ungheria e l'Austria nel 1802, un territorio analogo a Recanati, patria di Leopardi. Si trattava di una regione fra la Serbia e la Romania - attuale Stato di appartenenza - e l'Ungheria, con a Sud il Danubio ed a est la cordigliera dei Carpazi, con capitale Timisoara, famosa per i moti che nel 1989 rovesciarono la dittatura di Ceaușescu. Senza dilungarci troppo, fra il '500 e l'800, turchi, serbi, ungheresi e coloni tedeschi della Svevia lo hanno abitato, finché dal 1718, perduta ogni influenza della Repubblica di Venezia, divenne una provincia dell'impero Austroungarico.

Quando Nikolaus venne al mondo, già una serie di grandi ondate di coloni della Svezia - provenienti anche da Würzburg - a seguito della guerra di successione austriaca, col beneplacito di Maria Teresa, si erano insediati lungo il Danubio e si erano integrati con le popolazioni turche preesistenti. Formatosi una forte comunità di lingua tedesca, presto si ebbe qualche conflitto con la comunità magiara, che divenne la classe dirigente di maggioranza fin dagli anni '20 dell''800. Nondimeno Recanati e la Romagna, ebbe una situazione analoga. Vittima di scorrerie che fin dal Medio Evo Slavi e Albanesi immigrati dalla Dalmazia: occupata poi da austriaci, spagnoli e francesi, si contesero la cittadina, sotto il debole potere del Papato. E solo il trattato di Aquisgrana nel 1748, per quella stessa guerra di successione austriaca, contribuì a terminare la lunga fase storica che la vedeva un mero deposito di vettovaglie per l'esercito imperiale austriaco. Nell'800. poi, subì l'occupazione francese da parte delle truppe napoleoniche, mentre i moti liberali del 1831 videro vittima un suo patriota, Vito Fedeli, che morì prigioniero nel carcere pontificio, come ci racconta Monaldo Leopardi, padre di Giacomo. Per tutti i primi decenni di quel secolo, fu la bandiera clericale della Romagna, dove lo stesso Monaldo soffocava già in famiglia il desiderio di libertà del povero figliolo. Del pari, il giovane Nikolaus, visse in una famiglia nobiliare di stampo militare, educato dalla madre e poi da studente passò a Stoccarda, pencolando tra filosofia, diritto e medicina, senza alcun risultato. Melanconico e focoso, nostalgico e critico della città d'origine, come Giacomo, cominciò la sua vita da pellegrino per l'Europa, mentre sappiamo che il Leopardi, pur affetto da pari inquietudine, non uscì dall'Italia e solo nella maturità raggiunse Firenze e Napoli dove morì gravemente malato. Nikolaus invece riuscì addirittura a raggiungere la Pennsylvania dove esercitò l'agricoltura senza dimenticare le sue origini sveve, rinforzate con l'amicizia con il poeta Uhland che conobbe a Stoccarda. Da qui ritornò a Vienna.

Sempre incerto, mai concluse alcuna opera, come il Savonarola del 1837, le poesie del 1831 e le nuove, aggiunte nel 1838. Romantico fino alla morte, la nostra critica letteraria lo scoprì a fine ottocento, quando Arturo Farinelli, germanista piemontese, docente di letteratura tedesca all'università di Torino, tradusse il suo Don Giovanni (1898),. rinvenendo tracce di Dante, proprio nelle sue opere incompiute. Inoltre lo studioso piemontese pubblicò una sua incisiva ricerca sul Pessimismo di Leopardi che ritrovò nello stesso Nikolaus. Infatti, esaminando la travagliata biografia dello Svevo, esperienza dopo esperienza, vide in loro un tratto comune di melanconia, di languidezza e di amore non contraccambiato, o soltanto sperato. Il desiderio inappagato per Silvia del Recanatese fu pari a quello della popolana Berta Auer per lo Svevo. E quando Nikolaus si innamorò di Lotte, nipote del poeta bavarese Gustav Schwab, assistiamo ad una girandola di inviti appassionati, di resistenze puerili, di gioia e di dolore sovrapposti, come era avvenuto per il giovane Platen a Würzburg, stavolta però con il compagno di studi Eduard Schmidtlein. Nondimeno, non inferiore fu l'amore di Giacomo per Fanny Targioni Tozzetti, conclusasi in una delusione, che sublimò nelle poesie del ciclo Aspasia. Delusione che Nikolaus ebbe pure per la cantante Carolina Ungen, il cui rifiuto lo fece cadere in uno stato catatonico che caratterizzò la sua poesia lirica.

Proviamo, allora, a leggere una delle più famose, tradotta da Roberto Fertonani, altro insigne germanista che nel '900 vide nel poema incompiuto Faust (1834) la presenza di una versificazione lieve, che lo pone pessimista estremo, vivo di un desiderio spesso inappagato.

“Sullo stagno che non si muove\ indugia il mite chiarore lunare\intreccia le sue pallide rose nella verde corona di giunchi\là sul colle erano i cervi che guardano la notte e in cielo\si agitano talora gli uccelli, sognanti nel fitto canneto\.Il suo sguardo si china piangendo e un pensiero soave di te e mi percorre il fondo dell'anima\ come in silenzio una preghiera di notte” (nuove poesie, 1832). La scoperta di Lenau non cessò con il Farinelli. Anche un altro germanista, Rodolfo Bottacchiari, collaboratore di Cesare de Lollis, grande critico di Goethe, ai primi del '900, nello studiare la figura di Leopardi, ne scoprì il comune senso di straniamento e la passione di un non ancora mai raggiunto, quasi un don giovannnismo nascosto che Lenau non riuscì a concretizzare nel suo grande dolore interiore, cosa che nella sublimazione dell'incompiuto trovava l'unica meta. Il saggio del Bottachiari sulla figura femminile nella vita e nell'arte di Lenau sembrò presagire le di poco successive analisi comparative di un altro germanista italiano, il palermitano Faggi, che nel 1898 azzardò il paragone fra i due poeti. Li definì cantori del tormento che, pur nelle forme diverse, malgrado un contesto
Giacomo Leopardi
diverso - ma che noi abbiamo segnalato invece più simile di quanto sembri - hanno vissuto in modo incessante portando l'uno al suicidio in casa di riposo, l'altro all'isolamento che ne accelerò la morte per la grave malattia che lo colpì fin dall'infanzia. Ma Nikolaus era malato nella psiche anche per effetto degli stravizi del padre; mentre Giacomo per l'immensa tristezza accumulata che si era scaricata sul suo debole corpo. Ambedue erano consapevoli di tale situazione nelle ultime lettere scambiate con gli amici e speravano che così finisse presto la loro vita. Eppure, il poeta austriaco, poco prima di cadere definitivamente nelle braccia della follia terminale, trovò un amore che sembrò salvarlo, quello della nobildonna di Stoccarda, Marie Behrends, che colloquiò con lui attraverso prose poetiche di raro pregio e che la critica del dopoguerra evidenziò con attenzione, Erano i canti della Svevia (1843 - 1844) una armoniosa elegia della natura, dove il paesaggio non è più una matrigna - per usare un vocabolo caro al Leopardi - ma è finalmente visto come un paesaggio sereno, dove spirito e natura si contemplano a vicenda, fino alla piena rappresentazione di una luce, quasi un raggio di origine divina.

Purtroppo, mentre viveva la dolce serenità della vita familiare, un attacco di apoplessia - oggi diremmo un ictus - lo prese alla mente, lo ridusse povero e pazzo nel manicomio di Vienna, dove morì dopo 6 anni di atroci sofferenze non solo fisiche. Neppure la sorte di Giacomo fu meno sfortunata: come Nikolaus, proprio nelle strofe finali del suo ultimo canto, La ginestra, pur insistendo nella inutilità di ogni esistenza e resistenza umana alla violenza della natura, rilevava nella resistenza della ginestra un esempio di lotta dell'uomo all'inevitabile destino e ne raccoglie l'umile opposizione di quel fiore, sopportando eroicamente la sorte. Come la sopporterà fino alla morte nel 1837 a Napoli, vivendo colà per quasi cinque anni disobbedendo alle prescrizioni mediche, alla ricerca di un lucido suicidio, dopo aver mangiato dolci e bevuto molto caffè, pranzo deleterio per chi soffriva di disturbi polmonari causati dalla sua malattia infantile alle ossa. Nikolaus, morto a 48 anni e Giacomo a 39, per non parlare di Platen - da ambedue conosciuto! - a quasi 40 anni. La coerenza di pensiero e la rada compiutezza delle loro opere non deve indurci a pensare negativamente. La instabilità patologica e la instabilità psicologica che li animava non inficia la loro grandezza, dato che la loro costante tristezza rappresenta il caposaldo della loro pari profondità letteraria e loro stupefacente attualità. Essere stati cantori del dolore cosmico li porta ad essere sempre vivi proprio nella realtà esistenziale del '900 e dunque ben venga una loro rilettura filosofica, come ben sappiamo sta avvenendo nella critica anglosassone e nel massimo filosofo italiano appena deceduto, Emanuele Severino.

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