Nikolaus Lenau |
Nikolaus Lenau (Timisoara,
1802 - Vienna, 1850) e Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli, 1837), martiri
della poesia e del dolore
di
Giuseppe Moscatt
Può un oscuro poeta di lingua tedesca, austriaco solo per
nazionalità, dare al critico maggiori lumi sulla lingua di uno dei maggiori
poeti italiani, Giacomo Leopardi? Sì, lo pensiamo alla luce della biografia e
delle opere di Nikolaus Lenau, quasi contemporaneo del nostro, afflitto dalle
stesse malattie fisiche e psichiche, pessimista storico e cosmico, con un
problema psicosociologo con l'altra metà del mondo, influenzato dal territorio,
dal clima e dalla società della città di origine. Martiri ambedue della poesia
e grandi poeti per aver sublimato il dolore interiore in versi ineguagliabili
che milioni di giovani hanno interiorizzato nei circa due secoli e mezzo dalla
loro morte. Nikolaus Lenau nacque in un distretto di frontiera fra l'Ungheria e
l'Austria nel 1802, un territorio analogo a Recanati, patria di Leopardi. Si
trattava di una regione fra la Serbia e la Romania
- attuale Stato di appartenenza - e l'Ungheria, con a Sud il Danubio ed a est
la cordigliera dei Carpazi, con capitale Timisoara, famosa per i moti che nel
1989 rovesciarono la dittatura di Ceaușescu. Senza dilungarci troppo, fra il
'500 e l'800, turchi, serbi, ungheresi e coloni tedeschi della Svevia lo hanno abitato, finché dal 1718, perduta
ogni influenza della Repubblica di Venezia, divenne una provincia dell'impero
Austroungarico.
Quando Nikolaus venne al mondo, già una serie di grandi ondate
di coloni della Svezia - provenienti anche da Würzburg - a seguito della guerra
di successione austriaca, col beneplacito di Maria Teresa, si erano insediati lungo il Danubio e si erano integrati
con le popolazioni turche preesistenti. Formatosi una forte comunità di lingua
tedesca, presto si ebbe qualche conflitto con la comunità magiara, che divenne
la classe dirigente di maggioranza fin dagli anni '20 dell''800. Nondimeno
Recanati e la Romagna, ebbe una situazione analoga. Vittima di scorrerie che fin dal Medio Evo Slavi e Albanesi
immigrati dalla Dalmazia: occupata poi da austriaci, spagnoli e francesi, si
contesero la cittadina, sotto il debole potere del Papato. E solo il trattato
di Aquisgrana nel 1748, per quella stessa guerra di successione austriaca,
contribuì a terminare la lunga fase storica che la vedeva un mero deposito di
vettovaglie per l'esercito imperiale austriaco. Nell'800. poi, subì
l'occupazione francese da parte delle truppe napoleoniche, mentre i moti
liberali del 1831 videro vittima un suo patriota, Vito Fedeli, che morì prigioniero nel carcere pontificio, come ci
racconta Monaldo Leopardi, padre di Giacomo. Per tutti i primi decenni di quel
secolo, fu la bandiera clericale della Romagna, dove lo stesso Monaldo
soffocava già in famiglia il desiderio di libertà del povero figliolo. Del
pari, il giovane Nikolaus, visse in una famiglia nobiliare di stampo militare,
educato dalla madre e poi da studente passò a Stoccarda, pencolando tra
filosofia, diritto e medicina, senza alcun risultato. Melanconico e focoso,
nostalgico e critico della città d'origine, come Giacomo, cominciò la sua vita
da pellegrino per l'Europa, mentre sappiamo che il Leopardi, pur affetto da
pari inquietudine, non uscì dall'Italia e solo nella maturità raggiunse Firenze
e Napoli dove morì gravemente malato. Nikolaus invece riuscì addirittura a
raggiungere la Pennsylvania dove esercitò l'agricoltura senza dimenticare le
sue origini sveve, rinforzate con l'amicizia con il poeta Uhland che conobbe a
Stoccarda. Da qui ritornò a Vienna.
Sempre incerto, mai concluse alcuna opera, come il Savonarola
del 1837, le poesie del 1831 e le nuove, aggiunte nel 1838. Romantico fino alla
morte, la nostra critica letteraria lo scoprì a fine ottocento, quando Arturo
Farinelli, germanista piemontese, docente di letteratura tedesca all'università
di Torino, tradusse il suo Don
Giovanni (1898),. rinvenendo tracce di Dante, proprio nelle sue opere
incompiute. Inoltre lo studioso piemontese pubblicò una sua incisiva ricerca
sul Pessimismo di Leopardi che ritrovò nello stesso Nikolaus. Infatti,
esaminando la travagliata biografia dello Svevo, esperienza dopo esperienza,
vide in loro un tratto comune di melanconia, di languidezza e di amore non
contraccambiato, o soltanto sperato. Il desiderio inappagato per Silvia del
Recanatese fu pari a quello della popolana Berta Auer per lo Svevo. E quando
Nikolaus si innamorò di Lotte, nipote del poeta bavarese Gustav Schwab,
assistiamo ad una girandola di inviti appassionati, di resistenze puerili, di
gioia e di dolore sovrapposti, come era avvenuto per il giovane Platen a
Würzburg, stavolta però con il compagno di studi Eduard Schmidtlein. Nondimeno,
non inferiore fu l'amore di Giacomo per Fanny Targioni
Tozzetti, conclusasi in una delusione, che sublimò nelle poesie del
ciclo Aspasia. Delusione che Nikolaus ebbe pure per la cantante Carolina Ungen,
il cui rifiuto lo fece cadere in uno stato catatonico che caratterizzò la sua poesia lirica.
Proviamo, allora, a leggere una delle più famose, tradotta da
Roberto Fertonani, altro insigne germanista che nel '900 vide nel poema
incompiuto Faust (1834) la presenza di una versificazione lieve, che lo pone
pessimista estremo, vivo di un desiderio spesso inappagato.
“Sullo stagno che non si muove\ indugia il mite chiarore
lunare\intreccia le sue pallide rose nella verde corona di giunchi\là sul colle
erano i cervi che guardano la notte e in cielo\si agitano talora gli uccelli,
sognanti nel fitto canneto\.Il suo sguardo si china piangendo e un pensiero
soave di te e mi percorre il fondo dell'anima\ come in silenzio una preghiera
di notte” (nuove poesie, 1832). La scoperta di Lenau non cessò con il
Farinelli. Anche un altro germanista, Rodolfo Bottacchiari, collaboratore di
Cesare de Lollis, grande critico di Goethe, ai primi del '900, nello studiare
la figura di Leopardi, ne scoprì il comune senso di straniamento e la passione
di un non ancora mai raggiunto, quasi un don giovannnismo nascosto che Lenau
non riuscì a concretizzare nel suo grande dolore interiore, cosa che nella
sublimazione dell'incompiuto trovava l'unica meta. Il saggio del Bottachiari
sulla figura femminile nella vita e nell'arte di Lenau sembrò presagire le di
poco successive analisi comparative di un altro germanista italiano, il
palermitano Faggi, che nel 1898 azzardò il paragone fra i due poeti. Li definì
cantori del tormento che, pur nelle forme diverse, malgrado un contesto
Giacomo Leopardi |
Purtroppo, mentre viveva la dolce serenità della vita familiare,
un attacco di apoplessia - oggi diremmo un ictus - lo prese alla mente, lo
ridusse povero e pazzo nel manicomio di Vienna,
dove morì dopo 6 anni di atroci sofferenze non solo fisiche. Neppure la
sorte di Giacomo fu meno sfortunata: come Nikolaus, proprio nelle strofe finali
del suo ultimo canto, La ginestra, pur insistendo nella inutilità di ogni
esistenza e resistenza umana alla violenza della natura, rilevava nella
resistenza della ginestra un esempio di lotta dell'uomo all'inevitabile destino
e ne raccoglie l'umile opposizione di quel fiore, sopportando eroicamente la
sorte. Come la sopporterà fino alla morte nel 1837 a Napoli, vivendo colà per
quasi cinque anni disobbedendo alle prescrizioni mediche, alla ricerca di un
lucido suicidio, dopo aver mangiato dolci e bevuto molto caffè, pranzo
deleterio per chi soffriva di disturbi polmonari causati dalla sua malattia
infantile alle ossa. Nikolaus, morto a 48 anni e Giacomo a 39, per non parlare
di Platen - da ambedue conosciuto! - a quasi 40 anni. La coerenza di pensiero e
la rada compiutezza delle loro opere non deve indurci a pensare negativamente.
La instabilità patologica e la instabilità psicologica che li animava non
inficia la loro grandezza, dato che la loro costante tristezza rappresenta il
caposaldo della loro pari profondità letteraria e loro stupefacente attualità.
Essere stati cantori del dolore cosmico li porta ad essere sempre vivi proprio
nella realtà esistenziale del '900 e dunque ben venga una loro rilettura
filosofica, come ben sappiamo sta avvenendo nella critica anglosassone e nel
massimo filosofo italiano appena deceduto, Emanuele Severino.
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