statuetta di Venere con Priapo |
La lettera innocua. Il posto delle mutande. La grazia di Priapo
Un
pomeriggio, forse era il primo di agosto[1],
Elena venne al solito incontro amoroso, verso le 17, con una lettera
in mano. Disse che l’aveva appena ricevuta dal suo “amico”
finlandese e si scusò poiché doveva finire di leggerla. Ne tremai
nell’ombra ormai lunga del pomeriggio avanzato della tarda estate.
Temevo che ne avrei pianto al lume bianco della luna. Quando la
ripiegò, io, con tutta la calma possibile, simulando anzi noncuranza
sovrana, domandai: “novità? ”
Rispose:
“No. Ho letto parole talmente banali e scontate che potevo
scrivermele da sola”.
“Rusticus
coniunx”,
pensai tutto ringalluzzito. La paura si capovolse subito in ardire e
il mio istinto erotico ne fu potenziato.
“Andiamo
a fare l’amore”, le dissi. “Ho predisposto lo sgombro della
camera da parte degli altri tre e ho fatto anche cambiare le lenzuola
da un’inserviente doverosamente pregata. Saremo felici non una
volta ma dieci. Facciamo tesoro di questa opportunità meravigliosa,
vero dono di Dio”.
Priapo
mi ispirava una follia più saggia della saggezza del mondo.
“Italian
always arrange”,
commentò lei, assai compiaciuta del resto.
Io
ero felice del pericolo scampato e volevo festeggiare l’evento.
Sicché
andammo in camera e facemmo l’amore parecchie volte, una decina
come avevo promesso, non meno. Mi aiutava un dio grande, pieno di
grazia, non il Viagra dei disgraziati colpiti dall’ira santa del
nume.
Sostituivo
il noioso servizio militare della caserma terminato due mesi prima
con il gioioso servizio erotico a Priapo, a Venere e a suo figlio
Cupido. Ero ancora un soldato ma di tutt’altro esercito: "Militat
omnis amans, et habet sua castra Cupido; /Helena, crede mihi, militat
omnis amans"[2].
Era
anche questa un’ascesi. Ogni ascetismo è un esercizio fatto di
impegno grande e di soddisfazione ancora maggiore, di piacere non
senza fatica.
Imparai
anche un piccolo artificio, io homo
amatorius, mulierosus quam qui maxime,
dalla mulier amatoria che mi insegnò a
non perdere tempo prezioso frugando dappertutto in cerca delle
mutande sparite che finiscono chissà dove quando ce le togliamo con
mani frenetiche: Elena mi fece vedere che bastava
infilarle sotto il cuscino. Con altre avevo sciupato diversi minuti
di mia vita mortale andando a cercarle fin sotto il letto,
ed era successo che il tempo maltrattato aveva poi a sua volta
trattato male me, come sempre succede. Le mutande delle mie amanti:
trofei dolcissimi da rammentare.
“Brava,
bravissima - feci - sei un genio: sei più brava di me!”
Fu
un grande piacere dei sensi ma fu anche una gioia spirituale. Ci
sentivamo del tutto beati.
Dopo
l’ultima di questa serie meravigliosa, Elena, ammirata, mi disse
che non ero normale, e che lei del resto era un’amante
comoda poiché, data la sua condizione, il rapporto amoroso non
richiedeva cautele.
Non
c’era nemmeno l’impiccio delle mestruazioni.
La
sua voce fluttuava in una dolce sensualità.
“Con
te lo farei innumerevoli volte anche con insanguinandomi. Voglio
arrivare a una fusione totale tra noi, un’endiadi umana”,
replicai.
“Allora
facciamolo ancora, prima di andare a cena” disse, simulando un
furore non meno menadico che erotico. Da menade iperborea.
Erano
già passate le otto e io ero affamato. I tre contubernali e humiles
amici[3],
con Fulvio in testa, dovevano per giunta tornare in camera a momenti,
secondo l’arrangiamento concordato. L’amico magari vedendo la
porta chiusa, avrebbe capito e tenuto a bada gli altri, desiderosi di
una pausa dall’errante vagabondaggio cui li avevo indotti con varie
e vaghe promesse.
Ma
per quanto tempo ci sarebbe riuscito l’amico più caro ? Era già
quasi notte e i compagni di camerata dovevano prepararsi per la cena.
Feci questa obiezione alla sua richiesta di iterare ancora l’atto
che portava a conoscerci.
“Allora
non mi ami quanto sostieni e millanti”, scherzò Helena.
Stimolato
dalla sua magnifica provocazione, eccitato, come lei, dal buon umore,
feci, facemmo l’amore ancora un paio di volte, trionfalmente. Un
trionfo coribantico, da orgia sacra e santa, sacrosanta insomma.
Lo
ricordo alla faccia non bella dei drogati, i fantasmi che prendono il
viagra.
Quindi
andammo a cena tutti contenti, a mangiare carne non cruda[6],
a bere il “Sangue di toro di Eger” e a goderci un ozio da
paradiso nel ristorante dell’hotel Aranybika, “Toro d’oro”,
nel centro della città, dove avevo dormito la notte del luglio del
1966, quando, con una scassata Fiat Seicento, arrivai per la prima
volta, spaesato e spaventato come un coniglio bolso, nella
sconosciuta cittadina ungherese dove avrei passato alcuni tra i mesi
più belli di questa mia vita mortale. Ma allora, nel ’66, non lo
sapevo. Era già buio e non fui nemmeno capace di trovare
l’Università nascosta nel grande bosco. Un portiere esoso e losco
mi aveva ingannato per farmi dormire lì.
Sicché
passai in quell’albergo la prima notte di Debrecen in una
solitudine desolata e nello sconforto da giovane sprovveduto di quasi
tutto, quale ero in quel tempo. Quella fu davvero una notte di
pianto. Senza luna per giunta. Il giorno dopo però, con il sole,
incontrai Fulvio che mi rincuorò poi mi fece rinascere
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[1] Ricordo
che eravamo nell’anno di nostra redenzione 1971
[2] Cfr
Ovidio, Amores,
I, 9, 1-2. E’ un soldato ogni amante; anche Cupido ha il suo campo
di guerra; Elena, credimi, ogni amante è un soldato.
2
bis Nota a “rammentare”: “Facciamo tesoro di sentimenti cari e
soavi i quali ci ridestino per tutti gli anni, che ancora forse
tristi e perseguitati ci avanzano, la memoria che non siamo sempre
vissuti nel dolore” (Ugo Foscolo, Ultime
lettere di Iacopo Ortis,
26 ottobre
[3] Cfr.
Seneca: “Servi
sunt”, Immo contubernales. “Servi sunt”. Immo humiles amici.
(Lettere
a Lucilio,
47, 1). E’ la lettera sugli schiavi, una delle più note.
Dissi
che avevo fame e che potevamo riprendere più tardi, magari subito
dopo cena.
[4] Se
tu sei affamato, io potrei essere arrabbiata con te.
[5] Io
ho fame solo di te. Solo tu puoi salvarmi dal morire di fame.
[6] Come
le baccanti che praticavano l’wjmofagiva,
il mangiare la carne cruda.
[7] Cfr. L’arrivo
a Debrecen presente
in questo blog, un capitolo bello
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