Jules-Cyrille Cavé, Narciso |
Narciso e Lenone di se stesso
Sulla
via del ritorno alla terrazza dopo lo svuotamento della vescica, passai davanti
a uno specchio murale posto in uno dei lunghi corridoi del grande albergo di
Debrecen. Mentre camminavo piuttosto in fretta verso la sperata vittoria
olimpica, con la coda dell’occhio destro intravvidi la mia sagoma riverberata
di profilo. Fatti pochi altri passi però, tornai indietro: volevo vedere bene
quale fosse la consistenza e la forza attrattiva della mia figura osservata
nell’immagine riflessa.
Fermo
davanti a me stesso, mi piacqui, rafforzai la fiducia nella bontà della vita a
mio riguardo. Ero un suo prediletto: snello, abbronzato, il corpo ben fatto,
non alto ma limpidamente proporzionato, vestito di lino bianco: un tessuto
semplice e puro, non l’escrescenza[1] di un corpo pigro, grasso e
molle.
Avevo
un volto simpatico e sorridente a se stesso: quanto mutato da quello[2] del
disgraziato ragazzo grasso, malconcio, infelice, arrivato all’Aranybika di
Debrecen nel luglio del 1966[3], sporco, spaventato e ingordo di
cibo, pur con il ventre vicino a scoppiare!
Né
valeva colpirlo con i pugni perché non reclamasse altro cibo: quello suonava
come un tamburo e tuonando chiedeva sempre nuove vivande.
Allora
evitavo ogni specchio per non vederci riflesso lo sciagurato corpo sformato,
deforme, i capelli costantemente unti, e il viso foruncoloso angosciato
stravolto in grugno di maiale invecchiato in un porcile angusto, odioso a se
stesso e a tutti gli umani, soprattutto alle donne.
“Adesso
invece - pensavo nel luglio del ’72 - mi piaccio, mi amo, e lassù, sulla
terrazza per la seconda volta in due anni, mi aspetta una donna bella, colta e
fine che contraccambia la mia simpatia. Intanto la simpatia. Entro il mese di
luglio però devo portarmi nel letto anche questa. Allora sentirò di nuovo
l’armonia dell’Universo. Potrò trarne e darle piacere, e specializzarmi in
adultèri con spose novelle o prossime alle nozze.
Sento
la buona sorte che arriva nella sua pienezza.
Gianni,
non devi temere gli anatemi della pretaglia che ignora perfino le parole di
Cristo il quale perdona le adultere, come diverrà, se non lo è già, Kaisa la
bella. Il Nazareno ha rimesso tutti i peccati a quelli che hanno amato molto.
Indulgenza plenaria. I sacerdoti santi, anzi, benediranno la nostra lussuria
felice con le loro preghiere”.
Mi
osservai per qualche minuto, e mentre l’occhio si spostava in gioiosa frenesia
dal volto abbronzato alla vita da torero, provavo qualche movenza da ripetere
davanti alla graziosa, preparandomi mentalmente citazioni splendide da recitare
al momento opportuno. Mi venne in mente un distico del magister[4] del
gioco amoroso dal quale mi facevo appunto ammaestrare:
Feci
a me stesso qualche sorriso per scegliere le parole che potevano giovarmi nella
commedia che mi apprestavo a recitare. Durante queste prove della scena
seguente, tutta l’immagine mia sorrideva contenta nel grande specchio murale,
perfino il lino della giacca e il cuoio lucido dei mocassini davano segni di
compiacimento.
Mi
piaceva assai stare lì a contemplarmi, ma non potevo farla aspettare altro
tempo. Non volevo del resto finire come Narciso morto annegato per eccessivo
amore della propria immagine che non poté stringere con le braccia gettate
dentro le acque[6].
Mi
tornò in mente un utile distico dell’ottimo Ovidio pensando di recitarlo a
Kaisa, se me ne avesse data l’opportunità: “Conloqui iam tempus adest; fuge
rustice longe/hinc Pudor: audentem Forsque Venusque iuvat”[7].
Poi,
se la ragazza, e madre, avesse continuato a mostrare gradimento, le avrei
consigliato di non opporsi a un amore gradito: “placitone etiam pugnabis
amori?”[8].
Ti
chiederai, lettore, Perché tanto latino? Perché è la lingua che salva il
pudore, nel senso che quando lo parli puoi dire quale si voglia parola oscena,
da fellatio a glubere, senza vergognarti; ma
soprattutto voglio spingerti a leggere e amare questa lingua 9 che è l’italiano antico, la
nostra lingua nonna, se così si può dire.
Sicché,
dato un bacio furtivo all’immagine mia, mosso dalla spinta dell’amore
ineccepibile per la bella studiosa, tornai sulla terrazza, alla seggiola rossa,
al tavolo coperto di fiori, alla mia finnica dai capelli neri e dagli occhi dal
colore amato già quando mi allattava la mamma: azzurri o turchini, o viola,
secondo la luce, più chiara o meno chiara. Ero certo di avere preparato bene,
con arte, la necessaria parte di lenone di me stesso.
[1] In De Iside et Osiride Plutarco
spiega che il lino spunta dal seno della terra immortale e produce una veste
semplice e pura parevcei
kaqara;n ejsqh`ta che
non pesa ma offre riparo dal calore ed è adatta ad ogni stagione e non genera
insetti 352F.
Nel De Magīa Apuleio
scrive che la lana è escrescenza di un pigrissimo corpo segnissimi
corporis excrementum (56). Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle
vesti dei profani. Invece mundissima lini seges, la purissima
pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi sacerdoti
d’Egitto e gli oggetti sacri.
Erodoto scrive che gli Egiziani
considerano empio entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II,
81).
[4] Alla fine dell'Ars Amatoria leggiamo:"Lusus
habet finem (...) Ut quondam iuvenes, ita nunc, mea turba,
puellae/inscribant spoliis Naso Magister Erat " (III, 809 e 811 -
812), il gioco è finito... Come una volta i giovani, così ora le ragazze, mio
seguito, scrivano sulle prede "Nasone Fu Il Maestro".
[7] Ars amatoria I, 605 - 606),
è già tempo di parlarle; fuggi lontano di qui, rozzo Pudore, la
Sorte e Venere aiutano chi osa.
[9] “L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un
bel posto, mentre il tempo è nebbioso:
il suo orizzonte è assai
limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni
passi piu in là tutto
diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano,
attraverso i secoli piu recenti, il Medioevo e l'antichità. Il greco o addirittura il sanscrito allargano
certamente ancor piu l'orizzonte. Chi non conosce affatto il latino, appartiene
al volgo, anche se
fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido
di spato di fluoro" A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, trad. it
Adelphi, 1983, Tomo II, Della lingua e delle parole 299, p. 772.
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