Marie-France Pisier / Clavdia Chauchat
in Der Zauberberg (1982)
Il giro nel labirinto. Doppio sogno
“Hai un’amante che ti aspetta in una camera di questo
albergo labirintico?”, fece lei sorridendo.
“No, non ho amanti adesso. Se ho fornicato è successo
in altri paesi, luoghi lontani, e per giunta quelle ragazze sono già morte. Ora
tu sei un simbolo della mia mente e io voglio addentrarmi in te per entrare in
me stesso”, replicai ricambiando il sorriso. “Ora scendo per la scala che porta
ai bagni”.
Quindi le chiesi ossequiosamente permesso e mi
allontanai in direzione delle latrine per svuotare la vescica ormai piena di
sangue di toro.
Camminavo sulla terrazza verso la scala con passo
sicuro che trionfava sul braccio rotto e ingessato. Immaginavo che lei mi
osservasse da dietro e ostentavo la fierezza del pistolero che si allontana
dopo aver fatto centro.
Il bersaglio già quasi centrato era lei.
Purtroppo avevo i pantaloni lunghi e non potevo
pavoneggiarmi sfoggiando le gambe fatte bene, da bravo ciclista delle quali
ero, e sono ancora, assai compiaciuto.
Arrivato nel salone interno del piano terreno che
risponde alla piazza, a un tratto mi apparve l’immagine arcibramata della
finnica dagli occhi a mandorla, luci di straordinario colore.
Forse mi era venuta incontro passando attraverso
corridoi artificiosi e varchi dell’albergo dove mi ero perso nel luglio del
1966.
“Ci troviamo entrambi chiusi in un labirinto di nuovo
tipo?” mi domandai.
Poi mi lanciai per abbracciare le sue forme soavi,
piene di significato: tre volte tentai, ma, ogni volta, invano afferrata, fuggì
dalle mani l’immagine meravigliosa dell’amabile amata, pari a un soffio di
vento leggero, simile a ombra di sogno (1). Era una pre-visione.
Proprio così andrà a finire dopo il mese di Debrecen,
anche questa volta. Te lo dico subito, lettore. Del resto meglio gioire un mese
nell’Università estiva di Debrecen con donne siffatte in amori un poco irreali,
come piacciono a me, che annoiarsi un giorno, o, dio buono non voglia, tutta la
vita, con certe insulse oche al cubo, incontrate per malasorte, poi conosciute
e frequentate con enorme, spaventosa malinconia e schivate appena in tempo per
evitare la morte.
Quella sera del resto non eravamo già prossimi alla
fine, anzi, non c’era ancora stato nemmeno l’inizio concreto dell’amore mensile
di quell’estate lontana.
Mentre scendevo le scale diretto ai gabinetti ipogèi,
mi chiesi se ci fosse davvero una Kaisa fiorente con gli occhi dal taglio finnico
- mongolico(2) che mi aspettava a un tavolo nella terrazza posta sotto stelle
ammiccanti, o se io stessi dormendo, pieno di sonno, e quella finlandese dagli
occhi viola con tutto il resto fosse soltanto un sogno, fatto della materia dei
sogni(3).
Poi mi chiedevo se, magari risalendo le scale e
inciampando in un gradino, mi sarei svegliato nel letto della casa di Pesaro, o
in quella di Bologna, oppure nel lettino dove mia madre mi aveva fatto
addormentare la sera prima cantandomi canti di culla (4). Ero io che ricordavo
il bambino nella culla o era il bambino che dormiva e sognava il proprio
futuro?
Talvolta, mentre ti racconto queste storie lettore, mi
chiedo ancora, e forse te lo chiederai pure tu, se le abbia davvero vissute, o
se Helena, Kaisa, Päivi, Ifigenia et ceterae siano soltanto
immagini, simili a sogni di nulla (5), di un misero mendicante della bellezza,
raccolte durante il sonno che circonda la nostra rapida, povera, breve
vita mortale.
1. Cfr. Virgilio, Eneide II, 793
- 794: “Ter frustra comprensa manus effugit imago - par levibus ventis
volucrique simillima somno”. Cfr. anche Pindaro, Pitica VIII,
95 - 96 skia``~ o[nar - a[nqrwpo~ , sogno di ombra è l’uomo.
2. Cfr. Claudia Chauchat di Der Zauberbeg di
Thomas Mann
3. Non siamo davvero noi uomini sogni di ombre? È
questa una considerazione che va da Pindaro: "skia'"
o[nar/a[nqrwpo" "(Pitica VII, vv. 95 - 96).; a
Sofocle che nell'Aiace fa dire a Ulisse, preso da rispetto e
compassione per il nemico precipitato nella follia: "JOrw'' ga;r
hJma'" oujde;n oj;nta" a[llo plh;n - ei[dwl j, o{soiper zw'men, hj;
kouvfhn skiavn" (vv.125 - 126) vedo infatti che non siamo altro
che larve, quanti viviamo, o muta ombra; a Shakespeare il cui Macbeth prossimo
alla fine dice: "Life’ s but a walking shadow; a poor player, That
struts and frets his hour upon the stage, And then is heard no more: it is a
tale Told by an idiot, full of sound and fury, Signifyng nothing" (V,
5), la vita è solo un'ombra che cammina; un povero attore che si pavoneggia e
si agita sulla scena nella sua ora e poi non se ne parla più: è la storia
raccontata da un idiota, piena di frastuono e di furia, che non significa
nulla.
Prospero nella La tempesta (del
1612) conclude: "We are such stuff/as dreams are made on; and our
little life/is rounded with a sleep", Noi siamo fatti con la materia
dei sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno"(IV, 1).
4. Cfr. Pascoli, La mia sera: “Mi
sembrano canti di culla, - che fanno ch’io torni com’era (… ) - sentivo mia
madre (…) poi nulla (…) - sul far della sera”. Ultima strofe
5. Cfr. Pascoli, Il mendico: “e simile a
sogno di nulla - nell’acqua c’è l’ombra sua bruna - che appena si dondola e
culla - nel lume di luna” (ultima strofe)
in Der Zauberberg (1982)
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