A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Dostoevskij mi influenzava con i suoi personaggi estremi. Mi giustificava anche. Mi sentivo moralmente ubriaco come il sensuale, assatanato Dimitri e Ifigenia nella mia testa diventava la donna il cui corpo flessuoso e infernale lo faceva languire prima che riuscisse a scovarne l’anima e a trasfonderla nella sua. Il desiderio carnale lo torturava finché rimase un amare senza volere bene.
Anche il santo Alioscia però potevo trovare in me stesso. Come ho raccontato nel primo romanzo, Elena la donna amata più e meglio tra le mie amanti, prima di partire dalla stazione orientale di Budapest disse che non mi avrebbe mai scordato perché ero stato buono con lei dopo che si era affidata a me senza conoscermi bene. Però aveva capito subito che non ero cattivo e non si era sbagliata: una sera, per accrescere il mio piacere e il numero delle conquiste avrei potuto farle del male: a una festa c’era una ragazza francese che mi piaceva e manifestava per lo meno simpatia nei miei confronti, perciò avrei potuto corteggiarla e ne fui tentato, ma come mi accorsi che il mio vezzeggiare quella giovanissima dispiaceva a lei, la donna conquistata con tante parole piene di amore, avevo lasciato perdere la luccicante, liscia fanciulla e avevo chiesto scusa alla donna matura che si era fidata di me.
“Ti sei vietato un piacere per non danneggiarmi”, disse.
“Non ne sono pentito, anzi ne sono fiero”, risposi. “Nemmeno io dimenticherò mai il nostro amore”. Ho fatto di più: ne ho creato un mito.
Tre anni più tardi, una Ciuvassa russificata, Faina, che faceva l’interprete a Budapest, mi disse: “tu non sei debole come talvolta vuoi apparire. Tu sei forte come Aliosci dei Karamazov e sei buono come il principe idiota geniale dell’altro romanzo che amiamo”.
“Infatti non sono cattivo” mi ripetevo la notte della resurrezione di Cristo crocifisso o di Adone ucciso dal dente letale di un cinghiale feroce.
“Non sono cattivo, però dopo le tre finlandesi non sono più stato capace di amare. Ora non riesco a fidarmi di questa giovane che pure mi piace e mi dona tanto piacere da rendermi trasognato e trasecolato”.
La mattina di Pasqua mentre suonavano le campane della Chiesa di Moena posta davanti al cimitero dove già riposavano alcuni vecchi osservati quando ero bambino, Ifigenia telefonò e mi pregò di tornare subito a Bologna perché lei non poteva più stare senza di me.
Ci incontrammo verso sei davanti alla libreria Feltrinelli. C’era ancora il sole nel cielo. In aprile il dio tramonta già nella grande pianura e non c’è colle né monte che ne invìdi la vista come fa il Sass da Ciamp a Moena tutto l’anno tranne il mese di giugno, nelle notti più bianche del paese fassano.
Ifigenia si era fatta tagliare i capelli e sembrava ancora più giovane della sua età. Era luminosa quanto la neve che luccica e potenzia la forza del sole nel mese di aprile, più ridente dell’erba rinascente sui prati nel tempo della resurrezione di tutta la vita, più lieta dei fiori sbocciati sui rami degli alberi della pianura e dei colli. La vidi con piacere nonostante mi fosse costato parecchio tornare anzi tempo. Come l’ebbi osservata e studiata bene, recuperai la ragione e pensai che una ragazza tanto appetibile poteva trovare maschi quanti voleva, di ogni età e condizione; che io d’altra parte non ero un affare dal punto di vista economico ed ero meno giovane e meno bello di lei, sicché dovevo essere tutto contento del suo amore che non era una negotiatio ma un dono gratuito di lei e di Dio chiunque egli sia. Soprattutto del Sole il primo fra tutti gli dei, la santa faccia di luce che nutre la vita.
Così la peste contratta dalla pessima educazione che colpevolizza la gioia amorosa era sconfitta.
Avremmo celebrato il trionfo facendo l’amore più e più volte.
Bologna 7 dicembre 2023 ore 11, 14
giovanni ghiselli
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