A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
La mattina de 13 giugno telefonai alla mia amica più cara: Antonia, nel giorno del suo onomastico. Mi aveva aiutato come vicepreside nella scuola media di Carmignano, mi aveva educato al bene con il suo esempio quando ero venticinquenne e, giovanilmente ancora po’ fatuo, ma lei aveva capito che di fondo ero buono e bello di animo e mi aveva spinto a fare emergere questa kalokajgaqiva latente.
Mentre il primo preside malevolo cercava di avvilirmi e addirittura cacciarmi via, Antonia mi ha valorizzato per sempre.
E gliene sarò grato per sempre. Tutti i 13 giugno e tutti i 13 ottobre per il suo compleanno le telefonavo affettuosamente. Diceva che stava vivendo più a lungo dei suoi fratelli grazie al mio affetto. Eravamo legati da reciproca gratitudine.
L’ingratitudine è il contrassegno dell’anima plebea. Ha reso misantropi Timone di Atene, Cnemone, il Dyskolos di Menandro, e chissà quanti altri.
Il mio amore per la vita mi ha reso grato per tutta la vita a quanti hanno aiutato la mia vita aspra e dura soprattutto nel lavoro che ho vissuto come una missione. Senza l’aiuto di Antonia e pochi altri buoni, generosi, leali, non ce l’avrei fatta.
Verso sera invece, dopo le ore di studio andai al campo sportivo scolastico Baumann per mettere alla prova forza, salute e volontà correndo i 5000 metri. Ifigenia mi assisteva e incoraggiava. Contavo che la ragazza, mitizzata dalla mia mente imbevuta delle favole belle dei Greci che mi illudono e sostengono da quando ero bambino, facesse per me quanto Pallade Antena fece per favorire Odisseo: “gui`a d’ e[qhken ejlafrav”, agili gli rese le membra”[1]
Il mio ideale completo sarebbe stato correre di fianco alla giovane domina perché la corsa tempra la volontà, conserva la bellezza e rasserena la mente. Inoltre, se la bella donna avesse condiviso questa mia ascesi, avremmo avuto un’altra gioia in comune oltre il sesso, e un altro argomento in aggiunta alla scuola, i colleghi, il preside maligno e i libri buoni. Il nostro rapporto magari sarebbe durato più a lungo.
Ma non era destino: Ifigenia non sarebbe mai diventata la mia compagna di vita e procreazione nella bellezza secondo il corpo tovko" ejn kalw'/ kata; to; sw'ma"[2], ad altra funzione l’aveva predisposta il suo demone. Avrei iniziato a comporre l’opera grande e meravigliosa, dove ancora spendo la parte migliore del tempo mio, dopo che se ne fu andata via per sempre il 13 giugno di due anni più tardi.
Vero è che durante la riconsiderazione fatta negli anni della scrittura sono emerse donne migliori di lei, Elena in primis, tuttavia la spinta a colmare il vuoto patito, il deserto sofferto quella notte d’estate nell’infernale, falsa Babilonia turistica dell’Adriatico, me la diede la fuggitiva di quella notte. Fu una provvida sventura per la mia vita senz’altro e, spero, anche per la sua.
Fino a quella notte fatale, scrivendo, mi ero limitato a prendere appunti per le mie lezioni, a tradurre e commentare i classici greci e latini, l’Edipo re di Sofocle soprattutto.
Ma torniamo alla corsa del giorno di santo Antonio da Padova dell’anno di mia salvazione 1979.
La bella dunque si era seduta su una panchina situata accanto alla linea di arrivo del percorso circolare che dovevo compiere per 12 volte e mezzo correndo a più non posso. La diva era vestita di azzurro, con il volto abbronzato dai tocchi santi del sole. La sua splendida forma mi invogliava a impiegare tutte le mie energie corporèe e mentali per esserne degno. Mi osservava compiaciuta, mi spronava con delicatezza, mi invogliava a manifestare tutto il meglio di me.
“Come una madre sta accanto a me e mi protegge”, ricordai[3].
Bologna 17 dicembre 2023 vore 10, 40.
Nessun commento:
Posta un commento