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mercoledì 20 dicembre 2023

Il mito della Pizia da Socrate a Dürrenmatt. Di Giuseppe Moscatt

Giuseppe Moscatt
Il mito della Pizia da Socrate a Dürrenmatt


Il profetismo, la c.d. arte del Profeta, è presente in tutte le religioni del Mediterraneo. La Bibbia, per esempio, fin dai secoli IX e VIII a.c. ci indica in in tale veste colui che parla in nome di Dio. E varie erano le persone che esercitavano queste mediazioni fra il Popolo ed il suo Dio. I maghi egizi, gli indovini delle tragedie greche - uno per tutti, Tiresia - gli Oracoli - un altro per tutti, quello di Delfo - rappresentano figure del mito dove questi soggetti interpretano od annunziano i segni del Divino. Addirittura, la Bibbia individua singoli e gruppi che esercitano la veggenza, oppure esprimevano la bocca del Dio di turno. Estasi e Misticismo sono le caratteristiche loro più comuni, sia come spiriti del Dio, sia come invasati dallo stesso. Diversamente però dal mondo ebraico, in Grecia mancava una classe sacerdotale autonoma e per di più non c'era alcun ordine gerarchico. Piuttosto, vigeva una tradizione familiare di padre in figlio e non mancavano sacerdotesse femminili, appunto le Pizie (ierai) che a  volte da sole procedevano ai riti sacri. Sebbene godessero di particolari onori nelle assemblee popolari e negli incontri ufficiali, le sacerdotesse erano obbligate a rinunzie, come il celibato e il divieto di matriarcato anche fino alla morte. 
Due generi di sacerdotesse la tradizione greca e romana ricorda, la c.d. Pizia e la Sibilla. Il mito greco riguardo alla Pizia vedeva un cerimoniale che le chiedeva di essere sacerdotessa di Apollo. Stava a Delfi, luogo sacro perché nella notte dei tempi il Dio Apollo aveva ucciso il serpente Pitone, figlio di Gea (la terra) capace di dire il futuro. Apollo aveva voluto fondare ai piedi del Parnaso un santuario presso un fiume ed appunto lo affrontò col suo arco e lo uccise. Narra Igino però che Pitone era soltanto un semplice custode, essendo la dea della giustizia Temi la vera sacerdotessa delegata alla profezia. Il grave fatto di Apollo doveva essere vendicato e dunque Zeus, padre naturale di Apollo, marito traditore di Era, dovette rinchiudere le ceneri del mostro in un sarcofago sacro ed Apollo fu mandato in esilio. In ricordo di tale delitto e al fine di purificazione, a Delfi venivano celebrati ogni 8 anni  i giochi Pitici: un mito riparatore che riconosceva la vittoria del culto di Apollo fin dal periodo miceneo (1600-1100 a.c.). 
Il santuario da quell'epoca era considerato il punto più importante del mondo ellenico, reso visibile da una pietra sacra caduta dal cielo (Onphalos), analoga alla pietra nera della Mecca, qui scagliata da Allah e a Delfi scaraventata da Zeus affinché sotto di essa riposasse Apollo, il figlio ribelle che lo aveva sfidato contro il Pitone. Nondimeno, la sacerdotessa che a Delfi rappresentava Apollo e che ne promanasse il pensiero futuro era la Pizia, scelta da un genia di vergini date in sposa al dio. Si dicevano poi mantiche i loro responsi, emesse dalla Pizia, cinta di lunghi vesti, in stato di ebbrezza per i fumi che salivano dal terreno e che investivano la sacerdotessa seduta su un strano seggio a tre piedi (tripide). I responsi erano sempre incomprensibili e la loro spiegazione veniva ridotta in esametri lasciati all'interpretazione del richiedente, uno dei quali forse il più famoso, fu quello vaticinato a Socrate, che non solo venne giudicato il più saggio degli uomini, ma alla domanda di che cosa si occupasse la filosofia, non disdegnò la Pizia di oracolare quel conosci te stesso che resta la sintesi più efficace di quella scienza umana. 
La Pizia era legata ad un credo di obbedienza assoluta, non inferiore ai monaci cristiani dell'Alto Medioevo, vale a dire legato ai voti di obbedienza, castità e povertà, non per caso richiamati dagli apologeti cristiani Origene e Giovanni Crisostomo per rinforzare la domanda spirituale del nascente Credo cristiano. Accanto alle Pizie - che a turno esercitavano la profezia del tripode - stavano varie ancelle, adibite a varie mansioni nel tempio, per esempio badare al fuoco sacro, oppure predisporre i sacrifici e cucinare le focacce che i richiedenti erano obbligati a portare prima di entrare nel tempio. Fiumi di episodi storici dimostrano la fama dell'oracolo Apollineo - qui non disgiunto dal significato Dionisiaco da dare alle conclamate ebbrezze della Pizia nell'atto del vaticino, circostanza sottolineata dal Nietzsche nell'esame della sua origine della tragedia - tanto che a Delfi si precipitavano politici, generali, giudici e studiosi di ogni genere, fino agli ultimi del popolo, desiderosi di conoscere gli alti e i bassi del loro futuro. E il numero delle questioni sottoposte era però inversamente proporzionale alla ambiguità dei responsi, spesso vaghi ed evasivi. Anche uno storico laico e imparziale come Tucidide racconta come i cittadini rivoltosi di Itome, città ribelle a Sparta e avvicinatosi ad Atene durante la guerra dal Peloponneso, decisero di trattare col vecchio dominatore. Consultata la Pizia di Delfi, ricevette una soluzione di compromesso: la salvaguardia dei ribelli e loro pacifica tenuta in vita, a patto che la città ritornasse sotto Sparta e che tali rivoltosi non tornassero indietro sulle loro decisioni. Tucidide amaramente riporta quel responso, sottolineando che le esalazioni respirate dalla Pizia avevano un che di ubriacante, cosa che favoriva i sacerdoti a dare interpretazioni non oggettive e spesso relative ai loro personali interessi (par. 103, libro I ). 
Nondimeno, la critica a tale politica singolare, legata ad un giudizio divino manipolato dalla casta sacerdotale, riappare al par. 16 del libro V,  quando Nicia ateniese, successore di Pericle, insieme a Plistoanatte successore di Brasida spartano, cominciarono a trattare, dopo più di un decennio di guerra. Il Re di Sparta era spesso calunniato dai nemici interni perché, pur da protettore dell'eroe Brasida, era tornato dall'esilio ed era sempre contrario a continuare la guerra, citando anche una presunta intesa segreta col generale Nicia, nuovo premier ateniese dopo la fine di Cleone. L'accusa di corruzione e di tradimento era spesso un pretesto per rifiutare il ritorno. Allora, l'ex Re fece un quesito alla Pizia e questa rispose: dovevano dalla terra straniera richiamare nel suo Paese la prole del Semidio - cioè di Eracle, progenitore di Sparta  - altrimenti avrebbero dovuto arare con vomeri di argento. Anche qui Tucidide rileva come l'interpretazione dei sacerdoti di Delfi mostrava la ricerca di una Pace con Atene, che infatti ci sarà nel 421 a.c. proprio a seguito dell'intesa fra Nicia e Plistoanatte. Poco cambia nella seconda tipologia di profetessa sviluppatosi lungo la storia romana. Lo storico Varrone Atacino, grande studioso di cultura greca, fra il 1° ed il 2° secolo a.c. assimila la figura della Pizia alla Sibilla di Samo, figlia mitica di Zeus e dunque niente in tutto e per tutto della stessa Pizia. Principale profetessa fra le varie veggenti dell'area romana è quella di Cuma, regina delle profetesse della storia romana, tanto che per esempio una raccolta di oracoli greci presente a Cuma, attribuita alla locale Sibilla e ritrovata dal Re Tarquinio, era divenuta fonte della cultura romana repubblicana. E la fama predittoria della Sibilla Cumana trova riscontro a Roma ancora alla prima metà dal primo secolo a.c. 
Infatti, quando il Re d'Egitto Tolomeo Aulete aggredì l'isola di Cipro, Alessandria e la borghesia commerciale repubblicana - complice la futura regina Cleopatra colà esiliata - chiese aiuto a Roma, all'epoca retta dal primo triumvirato, a guida di Pompeo, con un giovane Cesare suo genero, un socio d'affari di minoranza. ll generalissimo Pompeo - già definito Magno da Cicerone - era in ambasce perché debitore di Tolomeo e non sapeva che fare. Mentre Tolomeo tramava contro gli ambasciatori di Alessandria, facendone uccidere o corrompendone parecchi; Pompeo titubava e dovette rispondere agli ambasciatori rimasti fedeli al governo alessandrino di ottemperare al verdetto della Sibilla di Cuma. Ma alla richiesta di Pompeo, la Sibilla non aderì all'idea di rimettere sul trono Tolomeo ed anzi sembrò dalla parte di Cleopatra, che già si era pronunziata per il paesaggio di Cipro al protettorato romano al pari di Alessandria. Di qui, lo scatenarsi delle guerre interne personali, dove Cicerone lottava contro il repubblicano Clodio, a sua volta nemico di Pompeo e dell'imprenditore minerario Catone, il vero interessato alle ricchezze di Cipro. A dirimere la questione politica, fu il giovane Cesare, tornato vincitore dalle Gallie: il nuovo generale si oppose con veemenza alle pretese di Catone che voleva tramutare la repubblica in una tirannide di conservatori sul modello dell' Atene di Pericle. Solo che a Catone mancò l'appoggio popolare e anche perché il radicale Clodio - dopo un parziale successo politico da Tribuno della Plebe fra il 58 a.c. ed il 52 a.c. - non solo ebbe un forte nemico nella propaganda negativa di Cicerone; ma anche venne a scontrarsi fisicamente con Tito Annio Milone, caposquadra dei veterani della Gallia sobillati da Cesare. Tanto che durante la campagna per il Consolato del 52, cadde in uno scontro fra queste fazioni, causando di fatto un passo  decisivo per la carriera di Cesare. 
Forse non erra Canfora che crede che l'ottemperanza tradizionale ai responsi della Sibilla avrebbe evitato la futura guerra civile di Cesare contro Pompeo e magari avrebbe tarpato le ali alle pretese di Cesare e al suo percorso di dittatore democratico poco dopo gli anni '50 del primo secolo a.c. I limiti di spazio impongono di dare ora un prospetto generale del cambio di passo culturale della società greco-romana sul ruolo della profezia pitica e sibillina e in generale della religione mitologica nel mondo precristiano. Già si disse del ruolo di Origene e di Giovanni Crisostomo, che fra il secondo secolo dopo Cristo e fino a metà del terzo secolo, misero in dubbio la presenza di sacerdoti adibiti alla interpretazione dei versetti incomprensibili della Pitia o dalla Sibilla. Anzi, i detti pensatori cristiani avrebbero introdotto una tesi fuorviante sull'immagine delirante per scardinare nel popolo pagano l'assoluta autenticità di quelle preveggenze. Del pari, i Libri Sibillini raccolti e affidati ad un collegio sacerdotale molto ristretto erano indicati come fonte futura sul da farsi in casi eccezionali, per esempio per terremoti, guerre incerte o la nascita di nuove divinità, come nel caso della introduzione nel 204a.c. della Dea Magna Mater. Sappiamo anche che Augusto, dopo un incendio che danneggiò i loro templi nel 83 a.c., li fece restaurare  e le collegò al tempio di Apollo. La scelta di Augusto contribuisce però a una conferma dei dubbi analoghi di autenticità che Tucidide ebbe a manifestare perché derivate dall'uso disinvolto che i due propagandisti predetti del Cristianesimo nascente adottarono contro il Paganesimo diffuso nelle campagne. 
Ma la decadenza culturale della funzione profetica della religione politeista aveva avuto come campo d'azione iniziale la tragedia e la commedia attica nella persona di Tiresia, mitico aruspisce. Di stirpe spartana, secondo la leggenda vide nuda Atena che si bagnava alla fonte del fiume Ippocreme e perciò venne accecato. Zeus, suo protettore, per risarcirlo lo rese profeta e gli donò sette generazioni di vita. E tanto furono le profezie che lo resero tanto famoso quanto la Pizia e la Sibilla di cui si diceva fosse padre e nonno. Infatti rivelò ad Anfitrione la vera natura del suo rivale Giove (vedi la commedia di Plauto così chiamata del 206 a.c.); divulgò ad Edipo la tragica vicenda e consigliò al Re Cleonte di esiliarlo per porre fine all'epidemia di peste  (vedi Edipo Re, di Sofocle, del 412 a.c.). Anche nei 7 a Tebe di Eschilo (476 a. c.) predisse che Tebe sarebbe stata risparmiata a condizione che il figlio di Creonte fosse stato immolato per contenere l'ira di Marte. In realtà, la versione della  punizione della cecità pare rimarcare la conseguenza di chi osa vedere Dio nella sua naturalità! Ma chi lo ha così scoperto riesce a vedere la verità pura, benché mai più tale visione gli si può ripetere visto che i suoi occhi vedranno sempre di meno. 
Omero, S. Paolo e Mosè hanno pagato così la loro intraprendenza. E chi come Cassandra non è stata del pari punita, forse ha pagato il prezzo dell'essere non creduta. Inoltre, nel mito di Edipo, l'avere previsto il suo tragico destino è la causa della cecità come effetto dei rapporti con l'Inferno, dove del resto vive come ci dice l'Odissea, che lo incontra quando Ulisse scese nel regno dei morti per chiedere del suo futuro all'unico essere di origine umana che Zeus volle mantenere intatto nella sua peculiare sapienza anche dopo la morte. Ma la vera rivoluzione culturale della cultura religiosa greca è data dalla fine del valore socio-politico della Polis. Filippo il Macedone e Alessandro Magno diedero il colpo di grazia alla Polis a metà del quarto secolo dopo Cristo. Platone con la sua Repubblica (380-370 a.c.) e Aristotele nella sua Politica (IV sec. a.c.) avevano teorizzato in modo impeccabile la Polis come forma storica e ideale dello Stato perfetto, specie nell'ipotesi reale dell'Atene di Pericle. Alessandro la distrusse nel concreto, diffondendo l'ideale cosmopolitico, fino a ridursi nella figura nel provincialismo più infimo, divenendo addirittura una provincia romana nel 146 d.c. Di qui, l'ideale cosmopolita, fece sì che perfino gli Dei, come ogni uomo, fossero appartenenti all'Umanità. Non più allora l'uomo come cittadino, non più la relazione gerarchica Uomo-Dio, ma il Dio che si fa Uomo, ovvero la dimensione politeista dei valori umani. Fu la scoperta dell'individuo, superando la cultura classica che aveva forgiato cittadini, per poi scadere sotto re Alessandro e sotto Roma nella creazione di una dimensione personalista, dove emerge la dimensione morale e decade la sfera politica, gestita ora direttamente dalla classe conservativa militare di Alessandro che assume una forma politica nuova, cioè quella imperiale. Sebbene la tentazione egoista farà spesso capolino - soprattutto nella Roma tardo repubblicana del 1° secolo a.c. fino a diventare Imperialismo concentrato nelle mani delle dinastie imperiali - il crollo del mito greco di assoluta separazione dai barbari e il mutamento della filosofia schiavista sarà la base per la nascita del Cristianesimo. 
Di fronte a tali epocali trasformazioni, il ruolo della profezia assume forme estremamente soggettive,  tanto che nella società del Basso Impero e dei rimanenti regni ellenistici  diventa l'estremo conforto, ovvero l'ultima spiaggia per il popolo esposto sempre più ad epidemie e guerre, dalla Peste Antonina (165-180 a.c.) alle invasioni barbariche, fino alle costanti carestie che investirono le campagne prive di manodopera destinate alle guerre imperiali. Esponenti letterari che testimoniano il grado di cinismo, scetticismo e di ironia sui dogmi della fede classica, prima fra tutte la figura classica dell'Indovino e della Pizia, apparvero proprio negli anni della Peste predetta, cioè il siriano Luciano di Samosata e lo storico Plutarco. Di quest'ultimo spiccano i Dialoghi Delfici fra cui il tramonto degli Oracoli e gli Oracoli della Pizia, sminuirono la religiosità delfica e rinforzarono la tesi dell'inconoscibilità del divino, ribadendo la ambigua formulazione dell'oracolo. Ma anche Luciano, figlio della Sofistica, nei 30 dialoghi dei morti sferza la leggenda dei fantasmi, non più Dei dell'Olimpo, che sono satireggiati in modo mirabile, specialmente quando le Sibille o le Pizie fanno a gara per frodare la povera gente attribuendo a quei simulacri verità fantasiose e speranze impossibili da realizzare. Sentimento sarcastico che in età moderna toccherà rivendicare al Machiavelli della Mandragola, allo Shakespeare di Giulietta e Romeo e al Platen dell'Edipo Romantico, o alle imprese della Pizia e della sua morte nell'opera del Dürrenmatt. La sera del 11.6. 2018, al teatro greco di Siracusa, Andrea Camilleri, a pochi mesi dalla sua morte, si mise infatti a conversare sul mito di Tiresia con Sofocle, Seneca, Dante, Pavese, Apollinaire e Borges. Cieco come quel personaggio, Camilleri - ormai ultra novantenne e morto un anno dopo - apparve di persona sul palcoscenico più importante della sua isola per raccontare come Zeus mi diede la possibilità di vivere come Tiresia sette esistenze… questa sera ne vivo una... Ma non posso dirvi quale e se sia l'ultima... Di fronte a quello splendido lungo monologo - pubblicato per i tipi della Sellerio qualche mese prima della morte - non pochi hanno riveduto nella loro memoria un libretto di analoga materia, La morte della Pizia, racconto dello scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt (1921-1990), pubblicato nel 1976 e poi tradotto per i tipi di Adelphi, nel 1988 da Renata Colorni. 
Evidente è l'affinità fra i due scrittori, coevi non solo per formazione culturale, aderenza alla cultura territoriale per identità inequivocabile in ciascuno dei casi, ma anche per aver spesso attribuito al caos la regola della vita e della morte. Con dovizia acribica, si può dire che la loro produzione, pur dominata dall'evento fortuito, è una continua guerra al militarismo, alla bomba atomica, al capitalismo aggressivo, alla ricerca della autenticità dell'uomo, magari ritrovata attraverso il macabro ed il grottesco. Infatti, il racconto della Pizia Pannachide XI della stirpe delle vergini chiamate da Apollo a guidare l'Oracolo di Delfi, nelle ultime ore prima di andare in pensione, già sentendosi fino a morire, rammenta  la vocazione alla veggenza ereditata da Apollo, la solitudine di essere vergine e non madre. Lo stare in quelle rosse stanze che le ricordano una gioventù bruciata fra le fiamme dei bracieri ardenti, senza gioie, senza amori, povera, triste, ignara del mondo esterno. Ma non del senso comune, quanto e piuttosto subissata di un mondo che altri le prospettano a loro uso e consumo. Clienti che le chiedono il futuro, che le narrano un presente incerto, che le rifiutano il compenso, magari che la sfottono e la insultano. Il cliente ha sempre ragione e dunque deve dire quello che vogliono sentire e solo allora era la loro Regina. Ma se osava dire qualcos'altro, allora fuoco e fulmini e minacce, perfino pietre e bastonate... Allora, Pannachide ha capito ben presto di stare sul generico, di dire e non dire, di fare come le cuginette, la Sibilla a Cuma e la sfinge a Tebe: tacere e mentire come spesso fanno gli attuali politici...
Poi un bel giorno arriverà un giovanotto, che le si para davanti. Si chiama Edipo, viene da Corinto, è figlio del Re Polibio, ma la madre gli ha messo in dubbio la filiazione, sicuramente - così pensa il giovane - per coprire qualche relazionie illecita (e Platen, nel suo Edipo Romantico del 1829 addirittura mette in scena un amore nascosto della Regina  con un nobile di Corte alle spalle del Re …). Il ragazzone zoppetto - un po' frescone ma robusto e vivace - vuole sapere la verità. E qui Dürrenmatt spara un bordata sul mito, cominciando a variarlo nel suo ceppo originario che Eschilo (I sette a Tebe) e Sofocle (Edipo Re) avevano selezionato dalle narrazioni che circolavano nel quinto secolo a.c. Un po' per paura di reazioni violente, un po' per celia e per scherzo, Pannachide vaticina una verità mostruosa: quel giovane un po' credulone ucciderà il padre e poi giacerà con la madre, divenendo padre  di quattro figli suoi fratelli… 
Uno scherzo audace, una cosa inverosimile, una di quelle profezie assurde, date per caso, magari per vedere l'effetto che fa. Solo che Edipo pensa che ciò avverrà a Corinto, che le vittime di questo sacrificio siano Polibio e Zelinda. E mentre la Pizia sorride per lo scherzo fatto - quasi per esorcizzare ironicamente gli insulti e le critiche spesso ricevute da un tale veggente di Tebe che l'ha spesso sfottuta, un Tiresia maledetto dagli dei per avere svelato la loro iniquità  e che Apollo aveva qualificato come suo avversario - il povero Edipo uccide un vecchio superbo che gli ha sbarrato il passo, un tebano in fila ad aspettare il suo turno per sapere se sarà ucciso dal figlio e che sposerà sua moglie/madre, regnando proprio nel suo regno. E per far dispetto al Dio che l'ha pensionata ancora in vita, la Pizia ha maliziosamente mischiato le due profezie, non sapendo quale danno ha fatto. Edipo diventerà in realtà quello che voleva evitare. Il destino immutabile lo assillerà da Re, perché dopo aver salvato Tebe dalla Sfinge - l'odiata rivale della Pizia - e aver sposato la povera regina vedova di quel vecchio prepotente, cioè la Giocasta erede di Polidoro, nemico giurato di Giunone ed Atena, dopo aver generato in buona fede due fratelli e due sorelle; ora deve combattere la peste scatenata in città! Riappare in questa tragedia del Destino lo stesso Tiresia che continua a dire la verità terribile per quanto sia. 
Sappiamo da Sofocle che passo dopo passo Edipo la scopre come in un romanzo giallo. Aristotele nella sua poetica già ci dà in sostanza questa lettura, aprendo la strada di tale genere per il fiume di opere moderne analoghe. Poi Pannachide sul letto di morte riceve la visita notturna di tutti protagonisti della storia: da Edipo che tentò il suicidio, salvato in extremis da Apollo pentito per aver favorito quella triste vicenda; da Giocasta, trombata, vedova e fin dalla nascita di Edipo già preoccupata per un pipistrello che durante il parto l'aveva infastidita; dal marito Laio, violento e prepotente, un maschiaccio che l'aveva violentata prima del matrimonio; di Creonte, un Re altrettanto arrogante che aveva messo a morte la povera Antigone, rea di aver dato sepoltura ai fratelli figli della colpa. 
Ma il sonno delle Pizia era stato interrotto da due rivali più agguerriti: Tiresia che si sente l'onnipotente dei veggenti, ma che per primo previde la tragedia di Laio e che lo indusse a difendere il Regno e la famiglia. E poi la sorellastra, la Sfinge, nata da Laio stesso e da Pannachide X, sua madre, una Pizia che per amore aveva violato il voto di verginità. Quest'ultima le era particolarmente odiosa: protetta da Apollo, si era messa al passo di uno stretto viottolo di montagna; aveva lasciato passare il servo di Lajo col piccolo Edipo lasciato colà per terra e poi si era dedicata a mangiare i passanti che non rispondevano ai suoi difficili quesiti. Sappiamo che solo Edipo la vincerà e la Sfinge - forse innamorata del giovane - si butterà dall'alto di una roccia. Tutti i fantasmi di questa lunga storia le appaiono allo stesso modo del vecchio avaro Scrooge del Racconto di Natale di Dickens. Ma Dürrenmatt, oltre l'arditezza del dialogo e la sapiente pittura dei personaggi chiave di quel mito, ci mette qualcosa in più: la Pizia sa perfettamente che ha mentito. E' questa la dietrologia, se volete il gossip, della variante che apporta al mito di Edipo, scelta che rende questo racconto non solo brioso e piacevole per arguzie e giudizi sarcastici sui personaggi coinvolti (espediente estetico che già Platen aveva delineato nella predetta commedia del 1829, oggi tradotta e commentata dallo Scrivente per i tipi di Morrone nel 2022, in Ironia e nostalgia nella Germania moderna, pagg. 60 e ss.); ma anche singolare per aver risolto quel dramma della sofferenza e della buona fede della Pizia. Costei diventa schiava del Destino, protagonista di in un dramma dell'esistere, esteticamente rivestita di quel genere giallo che lo svizzero aveva qui ribadito, come nel capolavoro, La promessa del 1958, che peraltro è uno dei cardini dello stesso Camilleri, solo se pensiamo al ciclo del Commissario Montalbano. Di più: Dürrenmatt adotta uno stratagemma formale visto che fa parlare l'eroina con lo scopo che di altri si parli e che dunque il lettore comprenda che quello è il vero protagonista del discorso, fino a coinvolgere ironicamente lo stesso lettore. Se l'animo della Pizia è tormentato sul letto di morte, lo è anche la figura di Edipo - del resto nel mito rimane cieco e liricamente in delirio nel successivo Edipo a Colono del 407 a.c. - non tanto per quel Destino che Sofocle metteva come vero personaggio della sua storia; quanto perché Dürrenmatt ha ribaltato nel dialogo notturno con la Pizia la tradizione di essere un povero disgraziato. Nelle sue battute, infatti, ora non c'è disperazione, ma accettazione del caso fortuito che gli è accaduto.
Invero, il fatto che il giovanotto le si fosse presentato senza prenotazione e le avesse imposto un oracolo contrario a ciò che la matrigna gli aveva narrato, era una pretesa arrogante che per la sua inequivocabilità gli dava la patente di legittima opposizione agli Dei. Vale a dire la giustificazione dal suo piano, distruggere  Corinto e andare a cercare un regno altrove. Altrimenti, se il suo Destino era quello di uccidere il padre e di fecondare la madre, che cosa gli poteva restare se non la morte? Dunque, la povera Pannachide fa il suo gioco: come il Sisifo di Cannes, anche lei si mette in rivolta e come il Prometeo di Goethe, Edipo si fa Dio. Un uso del Destino che diventa l'arma più efficace per sconfiggere la vita quotidiana vincolata dal caso, cioè da un Destino senza capo né coda. Zufall scrive Dürrenmatt contro Schicksal, cioè  Mythos contro Geschichte. E lo stesso vale per Giocasta, per Lajo e compagni, sia nella versione classica di Eschilo che in quella di Sofocle. Una tradizione del Mito inquinata perché Edipo avrebbe accettato il rischio che quel caso era scarsamente prevedibile e dunque gli basterà fuggire a Tebe per non cadere nel Destino che a Corinto è pronto a distruggerlo. 
Ma la rilettura soggettiva del mito classico ha l'effetto di una sua riscrittura. E qual'è allora lo scopo? Al di là della piacevolezza della lettura, la nuova interpretazione che Camilleri dà a Tiresia, non è lontana da quella della Pizia fondata sul fortuito e sullo scherzo, sulla vendetta e sulle umane considerazioni morali e non, come aveva predetto il Platen. Emergono così le valutazioni del più grande mitologo del '900, Károly Kerényi (1897-1973). Partendo dalle considerazioni generali del Mito come archetipo dell'Uomo (cioè di idea base del pensiero e dell'essere interiore derivata dallo Jung), Kerényi distingue fra Mito come Medicina e come Veleno. Nel corso della storia della cultura umana, il primo genere è stato di grande aiuto per la crescita dell'umanità, facendo leva sui valori di fede e giustizia integrati dal concetto di carità e di resistenza alla sofferenza della vita che il Cristianesimo paolino adottò dopo l'età alessandrina dagli stoici. Ma il mitologo parla anche di mito al vetriolo, artificiale e prefabbricato a scopi personali e di classe. Mito genuino e mito artificiale che nella storia della cultura si sono equamente alternati contaminando l'originale in tutto o in parte, conferendo all'artista il potere estetico di creare l'orrido ed il piacevole. il dramma e la satira e il demoniaco e l'angelico, dove l'artista - specialmente colui che si specializza nelle arti visive e nella musica - lo rilegge  fino a ricrearlo anche attraverso mezze verità o silenzi poco innocenti. Insomma, il messaggio di Dürrenmatt è di una modernità travolgente. 
Del resto, qui non si tratta di una modificazione assoluta, perché l'incerto e l'omicidio assumono il ruolo di un caso che per appunto segue per davvero il responso della Pizia. Ma - direbbe il penalista - come si può accettare un evento pur possibile, ma tanto improbabile, se non atteso in qualche modo dall'agente chiamato in causa? Se il mito può essere correo di tale delitto e noi pure lo forziamo in tal senso, come può non diventare lo stesso un disastro? Ma per ritornare al penalista, costui sa bene che l'attribuzione di un evento ponendo una sola azione ad essa come causale, sia una fattispecie che non consenta attribuzione dell'evento medesimo all'agente. Qui soccorre infatti il c.d. elemento psicologico, ora l'arguzia ed il sarcasmo dell'Autore. E per ciò la rivoluzione dell'ironia ci pare la via per risolvere la questione. Che il mondo sia stato sempre un labirinto dove gli uomini volontariamente si sono cacciati e che in solitudine continuano a dimenarsi, lo compresero i maestri del sospetto Freud, Nietzsche e Marx, non tanto nel loro rapporto con Dio, quanto nel loro rapporto con loro stessi in quanto uomini! E la variante al mito - di cui Freud e la psicanalisi ne furono proprio i maggiori produttori - non procura di per sé una sua spiegazione razionale, perché è chiaramente primitiva. Epperò le sue contraddizioni e le sue varianti storicamente accertate e spesso manipolate ad interesse di parte, contribuiscono alla storia reale del mondo e a coprire il non detto, operazione che una artista come Dürrenmatt - ma anche Camilleri e Platen - per il mito di Edipo ha sollevato una velo culturale non indifferente a favore del mondo attuale.

Giuseppe Moscatt



Note bibliografiche
Sul mito della Pizia, vd. EDOARDO MOTTINI, Mitologia Greca e Romana, Mondadori, 1927.
Sulla letteratura ellenistica di tenore moralista ed ironica, fra Luciano e Plutarco, vd. L'antichità a cura di UMBERTO ECO, biblioteca di Repubblica-Espresso, Roma, 2013, nonché Cenni biografici su Plutarco, in Biblioteca Universale Rizzoli, 1995, vol. 3. per Luciano, vd. QUINTINO CATADAUDELLA, Storia vera, testo reco a fronte, Rizzoli, 1990.
In merito alla ricezione moderna e contemporanea della Pizia dell'indovino classico, vd. FURIO JESI, Mito, ed. quodlibert, 2023 (1° ed. 1973).
Sulla interpretazione del Mito in Károly Kerényi, cfr. Demoni e mito, ed. Quodlibet, 1999.
Infine sul messaggio estetico di Dürrenmatt vd. https://www.succedeoggi.it – 15.12.2023,  Dürrenmatt ed il caso, di RAOUL PRECHT.

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