A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
A Ifigenia che mi riempiva di
baci, carezze e parole gradite, domandai
se voleva uscire per camminare con me, vedere il tramonto del sole, metterlo a
letto, poi fare l’amore con me sull’erba di un prato celato alla vista.
La proposta la fece trillare di gioia. Ci alzammo, chiedemmo scusa agli amici, uscimmo e ci allontanammo dall’osteria campagnola allungando i passi su un sentiero che procedeva tra l’erba a mano a mano sempre più folta e alta, fino a lasciare scoperta soltanto una striscia di cielo dove gareggiavano affamati gli uccelli. A un tratto tra l’erba trovammo un’area circolare, come una radura dove spiccavano alcune campanule azzurre. Rimanendo in piedi, di lì potevamo vedere i colli da una parte e la bassa pianura del nord dall’altra, ma dopo esserci stesi al riparo della fitta vegetazione che nascondeva quel talamo tondo, vedevamo soltanto il cielo sereno. E non eravamo visti da alcuno. Replicammo l’amore di mezzogiorno.
Le farfalle ci festeggiavano svolazzando sopra di noi con le ali imporporate dai raggi serotini e lucenti della sera di San Pietro. Era il nome del luogo posto su un colle situato tra Ozzano e Castello, quello delle terme.
I fiori azzurrini piegati dalle membra aulenti di Ifigenia contraccambiavano con il loro profumo l’odore paradisiaco del corpo splendidamente fiorito di lei. Meivdhse de; gai` j uJpevreqen[1], sotto sorrideva la terra. Sotto Ifigenia, l’erba e i fiori.
Poi, seduti sulle vesti leggere, ci fermammo a osservare la volta del cielo sopra di noi che diventava azzurro come i fiori sotto di noi, mentre il sole, stanco del lungo volo, si era già annidato nel verde dei colli ed erano scomparse tutte le ombre, si oscuravano tutti i sentieri e diventavano sempre più tenere e dolci le voci degli uccelli. Una farfalla bianca e fosforescente, improvvisa e inopinata, a un tratto si posò sul grembo di Ifigenia e vi sparse il il suo luminoso candore. Facemmo l’amore per l’ultima volta quel giorno, prima che il sentiero sparisse nel buio. Quindi tornammo nell’osteria.
Bologna 15 dicembre 2023 ore 11, 54
La proposta la fece trillare di gioia. Ci alzammo, chiedemmo scusa agli amici, uscimmo e ci allontanammo dall’osteria campagnola allungando i passi su un sentiero che procedeva tra l’erba a mano a mano sempre più folta e alta, fino a lasciare scoperta soltanto una striscia di cielo dove gareggiavano affamati gli uccelli. A un tratto tra l’erba trovammo un’area circolare, come una radura dove spiccavano alcune campanule azzurre. Rimanendo in piedi, di lì potevamo vedere i colli da una parte e la bassa pianura del nord dall’altra, ma dopo esserci stesi al riparo della fitta vegetazione che nascondeva quel talamo tondo, vedevamo soltanto il cielo sereno. E non eravamo visti da alcuno. Replicammo l’amore di mezzogiorno.
Le farfalle ci festeggiavano svolazzando sopra di noi con le ali imporporate dai raggi serotini e lucenti della sera di San Pietro. Era il nome del luogo posto su un colle situato tra Ozzano e Castello, quello delle terme.
I fiori azzurrini piegati dalle membra aulenti di Ifigenia contraccambiavano con il loro profumo l’odore paradisiaco del corpo splendidamente fiorito di lei. Meivdhse de; gai` j uJpevreqen[1], sotto sorrideva la terra. Sotto Ifigenia, l’erba e i fiori.
Poi, seduti sulle vesti leggere, ci fermammo a osservare la volta del cielo sopra di noi che diventava azzurro come i fiori sotto di noi, mentre il sole, stanco del lungo volo, si era già annidato nel verde dei colli ed erano scomparse tutte le ombre, si oscuravano tutti i sentieri e diventavano sempre più tenere e dolci le voci degli uccelli. Una farfalla bianca e fosforescente, improvvisa e inopinata, a un tratto si posò sul grembo di Ifigenia e vi sparse il il suo luminoso candore. Facemmo l’amore per l’ultima volta quel giorno, prima che il sentiero sparisse nel buio. Quindi tornammo nell’osteria.
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giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Inno omerico III, ad Apollo, 118
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