Dopo avere osservato il megaron delle feste dalle quali temevo di rimanere escluso, sconciato com’ero, uscii dall’Università e mi incamminai per il bosco che da qualche sentiero era segnato. Allora era una grande foresta di querce dall’altissima chioma e di bassi cespugli. Nagyerdő la chiamano loro. Davvero grande (nagy), folta e bella, tanto da farmi venire in mente “la divina foresta spessa e viva” del paradiso terrestre di Dante 1.
Notai coppie di innamorati dai sorrisi contenti e dalle voci sommesse. Molto diversi dai rumorosi turisti coatti a mostrare quanto si divertono sulla riviera adriatica! Gli adulti “devono” sbellicarsi dalle risa ogni tre minuti, i ragazzi gridare a squarciagola o sfrecciare su motori assordanti. Quindi la cena protratta a lungo non senza piatti lordati da sterco di Arpie.
Se no, che vacanza sarebbe?
Sicché non rimpiangevo più l’estate di Pesaro confusa e rumorosa, pure assai meno delle spiagge romagnole assembrate di vacanzieri amanti del caos, discoteche e altri orrori del genere. Profane mecche dello stordimento. Assaggiai un lampone che vidi illuminato dal sole. Sotto la secchezza vellutata del primo contatto, era ricco di succo, caldo di vita, come immaginavo dovessero essere le labbra di una giovane donna.
Mi guardavo intorno con l’attenzione che si presta a un mondo nuovo nel momento della scoperta: osservavo gli alberi antichi dalle radici giganti, dal fogliame aereo, i cespugli bassi dalle ombre raccolte, l’erba fitta costellata di fiori variopinti, come le ragazze sul prato ignare di me. Notai i gambi dritti come falli di maschi bisognosi di amore.
Non si udivano rumori molesti di automobili o motociclette che allora in Ungheria scarseggiavano e comunque erano escluse dalla grande foresta circondata dalla linea del tram numero 1, veicolo dai passaggi frequenti ma silenziosi.
Sicché si potevano ascoltare le voci della natura.
Gli uccelli contenti fischiavano, le cicale pazze di sole stridevano, i batraci gracidavano da un laghetto situato al centro di una radura assolata.
Vi volavano sopra sciami di farfalle dai vari colori e tante libellule azzurre. Come mi avvicinai all’acqua, vi saltarono svelte le rane scattando come molle non più compresse. Nel lago nuotavano piccoli pesci rossi e alcuni neri alquanto più grossi: gli uni e gli altri aprivano e chiudevano fequentemente la bocca muta, come tante persone vaniloquenti.
Quel laghetto brulicante di vita era accarezzato dalle foglie e dai rami sottili dei salici ai bordi, e varcato nel mezzo da uno stretto ponte di legno: vi sarei passato sopra tante volte con lieto rumore di passi, in compagnia degli amici, poi delle amanti, di giorno per andare nella piscina, di notte per entrare in un locale sull’altro lato: il Vecchio Vigadó da dove si diffondeva e aleggiava nel bosco la musica dei violini e dei cembali che si alternava con il versi tremuli dei grilli e delle rane lontane, mentre i rami mossi dal vento arpeggiavano mentre oscillava la vasta chioma degli alberi antichi scoprendo la luna con le stelle del cielo. Ed erano tutti presagi d’amore.
Note
1 Purgatorio, XXVIII, 2
Bologna 27 febbraio 2025 ore 10, 28
giovanni ghiselli
p.s.
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