“Mi piacerebbe incontrare una ragazza che come me aspira all’arte e al bello”, fantasticavo inebriato, mentre tornavo in collegio costeggiando la rete che separava la piscina dal bosco. Vedevo le gambe, i costumi, i capelli delle ragazze agognandone i corpi e le menti come nessun’altra cosa di questo mondo.
Negli ultimi tre anni di vita avevo invocato la Morte che annullasse ogni mio gran dolore, ma l’ ambiente nuovo mi spingeva a muovermi con passi lungimiranti verso suo fratello Amore da cui “nasce il piacer maggiore/che per lo mar dell’essere si trova”. A un certo punto pensai da andare da un barbiere, quindi gridai: “Figaro, fammi bello!”.
Non mi ero mai svestito dell’ abito letterario. Avevo trascurato solo lo studio senza anima, né gusto che veniva imposto da molti professori. Al liceo mi ci ero sottoposto pensando che, superato il conteggio dei numeri e la memorizzazione dei manuali, arrivato all’Università antica e nobile di Bologna, avrei potuto privilegiare le parole piene di idèe e di sentimenti superando i tecnicismi fine a se stessi. Invece questi prevalevano pure all’Università ancora più che al liceo Terenzio Mamiani di Pesaro che dopo tutto è la città di Rossini. Certi docenti cercavano di tirar su dal pozzo la verità, servendosi di ajnav e di katav. [1]
“Come se l’Odissea fosse un libro di cucina. Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino alla nausea”[2] . Avevo dovuto leggerla tutta in greco per conto mio senza nessuna guida a parte qualche battuta simpatica del professor Del Grande, un napoletano simpatico.
Dopo l’Odissea, Euripide che aveva autorizzato il mio disgusto per lo studio catastale, confermandomi che il sapere non è sapienza[3] e aveva autorizzato la mia nausea di un nozionismo che non è cultura. Questa potenzia la natura, rende più viva la vita, non la mortifica.
La sofferenza mi aiutava a capire sempre di più. Il tempo dei miei successi difettava di intelligenza e non dovevo rimpiangerlo, bensì rinnovarlo modificandolo.
Non osai entrare da solo nella piscina. Avevo bisogno di appoggi. Sicché mi diressi verso il collegio. Ma arrivato nella stanza che dividevo con Danilo, Fulvio e Luigino, non li trovai. Ci rimasi male. Ancora non avevo compreso il valore della solitudine.
Non era ora di desinare, sicché, giunto alla mensa, procedetti dall’altra parte, sempre cercando segni che mi indicassero la direzione da prendere per attenuare il peso dell’infelicità che mi gravava di nuovo addosso come l’Etna sul maledetto Encelado[4] o il il mostro ejkatogkevfalo", Tifone[5].
Anche da quella parte, l’occidentale, avrei vissuto esperienze felici senza le quali la mia vita sarebbe stata diversa e di gran lunga peggiore. Non lo sapevo ma lo auspicavo.
Chiedevo a Dio degli eventi belli che ne avrebbero causati altri ancora più belli, poi questi altri ancora, fino a formare una serie di fatti sempre più ricchi di conoscenza e di luce, una collana di gioie che avrebbe adornato questa mia vita mortale.
Camminavo in direzione dello stadio dove avrei corso tante volte i 5000 metri perdendo un poco alla volta lo schifoso rivestimento porcino indossato negli anni del dolore cieco. Capivo già che di questo abito orrendo dovevo svestirmi. Sebbene ottenebrato, avevo compreso che con quella carne non mia addosso sarei dispiaciuto alle donne senza il cui aiuto non potevo redimermi.
Centocinquanta metri dopo il collegio, sulla destra, vidi un grande cancello chiuso, ma non a chiave. Su un cartello c’era scritto Botanikus kert.
Incuriosito e incoraggiato dalla desinenza latina, entrai per vedere se potevo trovarci qualche reliquia dell’antica Pannonia. In fondo Aquincum dista poco più di duecento chilometri da Debrecen.
Di fatto era l’orto botanico dagli alberi strani e dai fiori esotici acclimatati come certe finlandesi o svedesi sposate in Italia. Cosa da evitare tutto sommato. Come sposare chicchessia del resto.
Mio padre, romagnolo, mi diceva: “Non sposare mai una Toscana, gianni, mai, mai!”
“Non preoccuparti babbo- rispondevo-né una toscana come la madre mia, né una romagnola come la tua, né altre”
I pretendenti alle nozze, i proci sono predestinati male. Non solo quelli di Penelope. Quasi tutti. Vanno a caccia di tristi imenei, poi se ne pentono. Questo ho visto, sempre, nella mia vita mortale.
L’effetto dell’alcol stava passando: rivedevo la vita attraverso una cortina metallica sudicia, nera, bucata tipo la grata dei confessionali: non mi lasciava vedere con chiarezza l’ordine bello del mondo con la splendida epifania della donna la cui figura talora mi era apparsa mentre danzava fra le trecce verdi della terra e i sorrisi azzurri del cielo. Bella, sensibile all’arte, generosa, colta e sportiva. Nemmeno lei voleva sposarsi, per carita! La kalokajgaqiva in persona era lei. Forse una ragazza madre incapace della finzione legale che avvilisce la vita.
La ragazza sognata corrispondeva all’immagine ideale di me stesso, al paradigma mitico della mia vita: quello che potevo diventare se non fossi stato avversato dal destino ostile che mi inceppava il cammino.
Forse ce la facevo a restituirmi a me stesso. Era il 16 luglio del 1966: avevo ventun anni otto mesi e due giorni. Non era già troppo tardi.
La lurida grata nascondeva o stravolgeva le immagini belle.
Il confessore non domandava proprio“Ti tocchi?” come nei film di Fellini ma il tono e l’andazzo di tanti preti allora era quello.
Note
1] Cfr Nietzsche, Sull'avvenire delle nostre scuole , terza conferenza .
2] H. Hesse, Sotto la ruota, del 1906, p. 90.
3] To; sofo;n d j ouj sofiva (Baccanti , 395
4] Callimaco vorrebbe spogliarsi delle vecchiaia che gli pesa addosso quanto l’isola tricuspide sul maledetto Encelado (Aitia fr. 1, vv. 35-36). Nell’Eracle di Euripide i vecchi coreuti vecchi compagni d'armi di Anfitrione biasimano la vecchiaia che grava sul loro capo dei con un carico più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de; gh'ra" a[cqo"-baruvteron Ai[tna" skopevlwn-ejpi; krati; kei'tai" ( vv. 638-640).
5] Eschilo, Prometeo incatenato, 369.
Bologna 27 fe novembre 2025 ore 11, 22 giovanni ghiselli
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[1] Cfr Nietzsche, Sull'avvenire delle nostre scuole , terza conferenza .
[2] H. Hesse, Sotto la ruota, del 1906, p. 90.
[3] To; sofo;n d j ouj sofiva (Baccanti , 395)
[4] Callimaco vorrebbe spogliarsi delle vecchiaia che gli pesa addosso quanto l’isola tricuspide sul maledetto Encelado (Aitia fr. 1, vv. 35-36). Nell’Eracle di Euripide i vecchi coreuti vecchi compagni d'armi di Anfitrione biasimano la vecchiaia che grava sul loro capo dei con un carico più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de; gh'ra" a[cqo"-baruvteron Ai[tna" skopevlwn-ejpi; krati; kei'tai" ( vv. 638-640).
[5] Eschilo, Prometeo incatenato, 369.
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