mercoledì 26 febbraio 2025

L’apprendistato XVI. Il prato tra i collegi. Le ragazze sull’erba. L’aedo di Debrecen.

Non mi guardavano le giovani donne, ma io le guardavo lo stesso. Mi venne in mente “non io, non già ch’io speri vi ricorro allo sguardo”1, ma ricacciai presto il pensiero malato e lo corressi con il farmaco buono  che Fulvio, Luigi e Danilo mi avevano donato trattandomi da ragazzo quasi da amico, non da mostro.

 

Guardavo le femmine umane e pensavo: “la terra è in mezzo alle stelle e qui sulla terra ci sono tali creature variopinte come la vita, profumate non meno dei fiori che costellano i prati luminose come le stelle fiorite nel cielo. Non cederò, non rinuncerò mai alla speranza di partecipare a tanta bellezza, a tanta grazia di Dio.

Mi erano venute in mente di nuovo queste due parole, già citate, del’irriducibile eroe figlio di Tetide,  ouj lhvxw, “non cederò”2.

 Stava diventando il mio motto. 

     Sul prato davanti al collegio si trovava  un bel gruppo di fanciulle disposte in cerchio. Erano giovani femmine umane policrome poiché avevano non solo gli abiti estivi variopinti con diversi colori, ma di colori diversi avevano pure i capelli folti e le epidermidi, pur tutte lisce e splendidamente abbronzate.

Sembravano figure scolpite nel fregio di un tempio .

Le ragazze sedute o distese, o inginocchiate, o erette sull’erba venivano da varie parti d’Europa: dalla gelida Scandinavia, dalle grandi distese sarmatiche, dalle bianche, piovigginose scogliere del nord, dalle calde, brunite terre lambite dal mare nostro solare. Non greche né iberiche purtroppo. Qualche siciliana ellenizzata o magna greca però sì. Ne avrei conosciuta gradevolmente una di Palermo dieci anni più tardi.

 “Diverse –pensai- ma belle son tutte kalai; de; pa'sai3, creature di gioia e di poesia”.

Quel prato così variegato dalle ragazze e illuminato con forza dai raggi del sole, quel verde screziato dai fiori, perfino le dense e brevi ombre meridiane stampate dalle fanciulle stesse, dai bassi cespugli e dalle alte querce, alberi antichi, di maestà dodonèa, vocali e profetici quando le foglie venivano mosse da un  vento di paradiso che accarezzava i capelli di quelle fanciulle, folti simili ai fiore del croco o del giacinto 4, tutto quel luogo insomma sarebbe diventato nella memoria mia il recinto sacro del mito, della poesia di Debrecen e della mia gioventù.

Fulvio mi disse presto che ne sarei diventato l’aedo. “Accipio omen”,  risposi tosto all’amico profetico.

Lì avrei giocato a palla e mi sarei abbronzato a mezzo il giorno dopo le ore di lezione, lì avrei cantato con gli amici  cari e le amiche preziose sotto la luna rugiadosa che cospargeva di perle le nostre teste contente, di lì avrei guardato le donne belle e fini che volevo tutte per me: Helena, Kaisa, Paivi, prima con ansia, poi rassicurato dal loro comportamento, con gratitudine a Dio, a me stesso e soprattutto a quelle creature. Ed ero felice.

Mi sarei trasformato da mostro a uomo umano, da larva spettrale a una potenza benefica collocandomi dove potevo essere più utile agli altri.

 

Ma  questa meravigliosa situazione dovevo provocarla e costruirla con il tempo utilizzando le occasioni, impiegando l’intelligenza e la volontà.

 

Note

1Cfr. Leopardi La sera del dì di festa,  20

2 Omero Iliade, XIX, 423.

3Odissea, VI, 108

4Cfr. Odissea, VI; 229-231

 

Bologna 26  febbraio 2025 ore 16, 20

giovanni ghiselli

p. s

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